Sono passati 10 anni dal giorno in cui se ne andò Giovanni Coffarelli. Ero stato a fargli visita un paio di giorni prima di quel triste evento nella coda d’agosto. Alternava momenti di disperazione ad altri di sogni da realizzare; piangendo, ripeteva che non voleva morire e, subito dopo, riassumeva ciò che aveva ancora in mente per il suo laboratorio, una sorta di piccola casa della musica popolare.
Ricordo molto chiaramente i tratti del suo corpo appena composto sul letto di morte. Aveva il volto indurito dalla sofferenza ma esposto ad un’espressione rassegnata, come quella di chi sa di aver fatto fino in fondo il proprio dovere; perché, per Giovanni, anche il giungere alla fine della vita era un vincolo dell’essere uomo! Lo avevano preparato facendogli indossare la giacca buona, quella che, forse, era la sua preferita, quella grigia a quadroni; in evidenza erano le sue mani callose di lavoratore della terra. E, poi, le scarpe nere, enormi, a testimoniare che, per tutta la vita, quelle scarpe grosse si erano accompagnate al suo cervello fino.
Nella chiesa della Collegiata -nel cuore del suo Casamale- dove la mattina dell’1 settembre fu celebrato il rito funebre, prima che riuscissi, con molta emozione, a dirgli qualche parola di commiato a nome degli innumerevoli amici stipati tra i banchi e sul sagrato, il suo gruppo musicale lo salutò, intonando il canto della Madonna de la grazia: regina de lu cielo,/ o divina maestà,/ chesta grazia ca te cerco/ fammella pe’ pietà.
A Giovanni mi legava un’amicizia quarantennale. Gli volevo bene ed ero, ma non solo per affetto, coinvolto sempre nei suoi mille progetti. Ne ero coinvolto anche quando non avrei voluto, perché a Giovanni era impossibile dire di no! Perché Giovanni insisteva, ripeteva le sue ragioni fino a prendermi per esaurimento. E, intanto, lui era già avanti nella preparazione; aveva allertato mezzo mondo, aveva telefonato a studiosi di cui riteneva necessaria la presenza, aveva inoltrato già gli inviti. Aveva dentro di sé la lungimiranza di chi sa che, per avere un buon raccolto, bisogna arare la terra e coltivarla; aveva anche l’energia ed il fuoco di un vulcano in eruzione. Condiva le sue parole con un misto tra dialetto puro e italiano volgarizzato; si avventurava, con la sua presenza scenica, in convincenti sermoni di stimolo alla partecipazione democratica, al vivere civile, al rispetto delle tradizioni. Non stancava mai, nemmeno quando rischiava di eccedere; perché vi metteva sempre la sua passione, il suo essere meticoloso. Lo chiamavano –e non per caso- ‘ò pignuòlo, perché era proprio come il seme del frutto pineale, incastrato nella sua pigna e, a sua guisa, anche Giovanni era irreggimentato nei princìpi e nelle regole.
Giovanni Coffarelli fu pubblicamente ricordato nello stesso anno della sua morte. Il 29 dicembre del 2010, al teatro Summarte (che si chiamava ancora Cinema Arlecchino), vennero a rendergli onore le voci e le note di Eugenio Bennato, Fausta Vetere, iMusicalia, Carlo Faiello, Marcello Colasurdo, Adriana Borriello, i Solisti di Montemarano, Anna Spagnuolo e molti altri artisti.
Poi, nel mese di febbraio del 2011, fu organizzato anche un convegno su “L’eredità culturale di Giovanni Coffarelli”. Anna Lomax volò appositamente dall’America; parteciparono, inoltre, Paolo Apolito, Roberta Tucci, Antonello Ricci, Corrado Sfogli, Ugo Leone, Giovanni Pizza, Giulio Baffi, Amerigo Ciervo, Amato Lamberti, Aldo Vella, Giorgio Adamo e Francesco De Melis. Per tre giorni (16-18 febbraio) antropologi, etnomusicologi, ricercatori raccontarono Giovanni dentro e fuori, sezionarono il suo impegno, la sua intelligenza artistica, il peso (valore aggiunto) della sua presenza nei territori che l’avevano incrociato ed -in particolare- nella sua Somma Vesuviana. Furono tutti contributi di altissimo livello culturale e politico. E Paolo Apolito, in modo provocatorio, concluse così il suo intervento: “cosa saprà fare, ora, la città di Somma per il suo bardo?”.
Sono trascorsi dieci anni e Somma Vesuviana, terra che sempre più spesso è matrigna per i suoi figli migliori, non ha fatto niente! Giovanni Coffarelli è rimasto nella nebbia dei ricordi, ogni giorno più sbiaditi. Eppure egli è stato e resterà un valore incancellabile. È stato la voce della memoria, ha interpretato il significato dell’appartenenza, delle radici (che significa essere abitante di un luogo? quale ne è la dimensione storica, semantica, ludico-ricreativa, etno-musicale, patronimica, politica, religiosa, demologica?) e, per questo, si era conquistato sul campo l’appellativo di antropologo nativo! In questo modo, del tutto particolare, Giovanni era riuscito ad essere devoto, fedele al luogo, al Casamale, a Somma Vesuviana. Più di quanto, forse, non lo fosse stato fedele e devoto alla stessa Madonna di Castello, alla quale pur aveva dedicato i suoi canti ‘a figliola e ‘a fronna.
Roberto De Simone non si stancò mai di raccontare dell’emozione provata, “quando mi facesti conoscere il canto ‘a figliola, che io ritenevo scomparso in Campania, e che, invece, era ancora praticato a Somma nella forma più autentica, religiosa e funzionale”.
Aveva una voce possente, Giovanni. Di lui e della sua arte disse, una volta, Piero Arcangeli, “stringe gli occhi (anzi abbassa le palpebre) con una certa sufficienza e vibra la voce appena, che si insinua e poi esplode rint’’e recchie e sotto la pelle della tammorra”. Perché Giovanni aveva la musica nel corpo. Perché, come aggiunse Francesco De Melis, anche “se egli tace, il suo canto non tace. O meglio, tace fuori, il canto, ma batte dentro, e come cuore gli regola il passo”.
Giovanni era una persona tanto eccezionale quanto umile. Dava l’impressione di non ascoltare, perché voleva sempre parlare; accettava, invece, ogni parola, rifletteva su tutto quanto accadeva e su tutto quanto gli si diceva. Era una persona esemplare; da prendere, cioè, ad esempio. Non per caso Giovanna Marini lo chiamò Maestro e si augurò che qualche suo discepolo potesse continuare a far conoscere, post mortem magistri, la cultura campana, “come questo loro maestro è riuscito a farla conoscere e amare a tutti noi”. Infatti, oltre a prestare la sua voce ai canti tradizionali e a quelli della devozione sacra e pagana, Giovanni sapeva raccontare usanze contadine e riti agricoli, sapeva ricostruire storie familiari e dare un senso ai nomi patronimici.
A dieci anni dalla morte di Coffarelli, con la mente più fredda e la sedimentazione dei sentimenti, sarebbe stato opportuno, giusto, necessario fare i conti con la sua eredità culturale, impossessarne, non disperderla e costruire con essa un pezzo di futuro. Perché quello di Giovanni è stato un lascito prezioso, incommensurabile e irripetibile. Quasi un tesoro da dissotterrare; come nei film d’avventura, nei romanzi dell’infanzia o come nei cunti dei nostri nonni.
Ma a dieci anni dalla scomparsa di Coffarelli si percepisce solo molto silenzio! Sarà perché si vive questo scampolo d’estate sotto la minaccia di un pericoloso virus, sarà perché i ricordi cambiano come cambia la pelle (come cantava Vecchioni), sarà perché è invalsa l’abitudine a vivere schiacciati solo sul presente, sarà perché chi non ha memoria del passato non ha nemmeno memoria del futuro. Ed allora ognuno continua a vivere solo nel cuore e nella testa di chi gli ha voluto veramente bene, come succede a me per Giovanni.
Nel mio studio –dove egli spesso mi raggiungeva- c’è un piccolo pantheon di famiglia. Tra le foto e gli affetti più cari c’è anche la sua. È posta tra due lucerne annerite dal fumo e dal tempo. Fu lui a farmene dono. Rappresentano parte della grande storia della nostra terra vesuviana; sono il mio legame con Giovanni, con la sua signorilità d’animo, con la sapienza di chi sapeva parlare di amore e di passione attraverso i paraustielli o i racconti di animali che parlavano e di montagne che si muovevano.