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A scuola dal Gattopardo

Ciro Raia 2 Agosto 2020     No Comment    

Il tributo più amaro pagato ad un anomalo anno scolastico sembra sia stato non averne potuto festeggiare la fine. Quel mancato saluto –a dire di molti- non si cicatrizzerà facilmente e costituirà una ferita per sempre purulenta. In compenso, però, a risarcimento di un destino infame, il buonismo ha trionfato. Voti alti, promozioni di massa, soddisfazione per gli ottimi risultati conseguiti grazie alla didattica a distanza (e non distanza dalla didattica, come qualcuno malevolmente dice!). Ora è già alle porte un nuovo anno. Sperando di essere risparmiati da un ritorno dell’infame virus, tutto tornerà come una collaudata prassi di ripetitività, di stanchezza, di mancanza di innovazione e sperimentazione didattica. Certo, le novità ci saranno: i banchi con le rotelle, i metri buccali, le ore di lezione con ampie sforbiciate di minuti, le interrogazioni dalla classe a chi sta a casa ed altre bizzarrie (eufemismo) simili.

E si arriverà velocemente, stancamente, faticosamente ma inesorabilmente alla fine di un altro anno scolastico (così definito solo per convenzione).  E quando si arriva alla fine di un anno scolastico, spesso, negli insegnanti subentra una sorta di ius vindicandi se et suos et persequendi iniurias (il diritto del sovrano di vendicare sé ed i suoi e di perseguire le ingiurie). Sembra che i registri, i voti, le griglie di valutazione vengano nascosti e trascinati (per la sorpresa finale) come la mitragliatrice nella misteriosa bara di Django, a Tombstone, a caccia della banda del maggiore americano Jackson o di quella del generale messicano Rodriguez.

– Come hai detto?

– Non importa. Quello che importa è che stai per morire.

E muoiono, nel senso che sono fermati (altro eufemismo che sta per bocciati) alcuni tra gli alunni più indolenti (sempre eufemismo). I consigli per la valutazione, che, di norma, potrebbero essere anche più veloci dopo gli innumerevoli consigli mensili, finiscono con l’essere lunghi, stancanti e motivo di precisazioni astiose tra colleghi che, a loro dire, si conoscevano, si stimavano e si volevano bene da sempre!

   – Preside, lei da che parte sta?

   – Io sto dalla parte dell’alunno.

   – Ci dica, almeno, quando, secondo lei, è giusto bocciare. Al primo, al secondo o al terzo anno? Oltre ancora. Una lezione questi ragazzi la meritano.

   – Io credo che non si debba bocciare mai. Nella scuola si promuove (nel significato latino di “promovere”: dare impulso, fare avanzare, sviluppare, potenziare).

   – Vabbè, come al solito, ora citerà don Milani: “Una scuola che boccia è come un ospedale che cura i sani e respinge gli ammalati”.

Non saranno serviti parole, esempi, diecimila corsi di aggiornamento o di perfezionamento. La scuola potrebbe cambiare solo se cambiasse la testa (forse, è più esatto dire la cultura) degli insegnanti. E, forse, anche se avesse un ministro competente!

Sembrerà, alla fine di un altro anno scolastico (così definito solo per convenzione), di stare in guerra. Una guerra senz’armi e senza munizioni. I soldati più riottosi, più vendicativi saranno quelli che avranno cercato di evitare le trincee. I docenti più vendicativi saranno quelli che, in genere, si saranno dedicati poco alle trincee.

   Però, la scuola resta un luogo di crescita, di apprendimento e di confronto. Non è per niente un’aula di tribunale in cui si giudica, si condanna, si assolve. Anche se ai giorni nostri sembra che l’unica grande intuizione per riformare la stessa scuola sia proprio l’esaltazione del momento giudicante e, col mito della meritocrazia o della premialità, quello della bocciatura. Senza che si sia tenuto conto dell’istruttoria (la programmazione), dei giudici togati (i docenti in classe e nei consigli di classe), dei documenti probatori (le prove di verifica e di valutazione), degli imputati (gli alunni) e dei molti giudicati in contumacia (i dispersi).

Il deficit formativo, purtroppo, è sotto gli occhi di tutti, il grado di istruzione della popolazione italiana è abissalmente inferiore rispetto a quello di altri paesi europei, con e senza dati statistici più volte ripetuti.

Intanto non cambia niente. Nemmeno in prospettiva. Se si guarda nella finestra della scuola italiana, si vede un organismo che si autoalimenta e che si lascia scivolare addosso fatti, parole e significati come Costituzione, legalità, partecipazione, democrazia, confronto, diritto. Se, poi, si guarda nelle finestre di molte scuole del sud, si coglie una refrattarietà a misurarsi con la realtà, una povertà di un io timoroso di tutto e di tutti, sempre ansioso dell’approvazione di qualcuno, resistente a una relazione insegnamento/apprendimento vissuta come rischio di cambiamento e, quindi, come ricorrente disequilibrio rispetto a certezze tranquillizzanti.

La storia ha insegnato che gli indiani d’America sono finiti, quando è finita la loro cultura. Non si può e non si deve, in Italia, correre lo stesso rischio. Dovrebbe essere tempo, quindi, di rincorrere, inventare, misurarsi con nuovi standard etici, strategici e politici.

Le strategie richiedono di pensare a lungo termine, rimuovendo le logiche del risparmio e dei conseguenti tagli. L’istruzione deve essere considerata come merita: un investimento produttivo necessario, importante, primario. Le strategie richiedono un intervento sinergico dello Stato e degli Enti Locali, con precisi piani culturali, dell’offerta di un servizio-scuola che sia piacevole, accogliente e confortevole per ogni utente.

Infine, la politica. Essa richiede la capacità di individuare il senso delle cose momento per momento, di pensare progettualmente (e contemporaneamente) ai giovani e agli adulti, in una logica di formazione continua, di valorizzazione di tutte le componenti territoriali, per il conseguimento di obiettivi e di diritti, che sono individuali e collettivi.

Etica, strategie e politica: connubio indissolubile, volàno di un’innovazione richiesta e riflettuta, direttrici di marcia di un paese, che lotta per affermare la sua permanenza tra quelli che contano.

Centocinquant’anni fa Pio IX, il celebrato papa riformista, incontrando Vittorio Emanuele II, diceva: “Spero che sua maestà non voglia applicare a tutto il territorio italiano il flagello dell’istruzione obbligatoria.”

Nell’anno post covid non bisogna assolutamente alimentare (col silenzio, la compiacenza, l’appartenenza partitica) il rischio che i nuovi riformatori (adusi alla pratica del trasformismo) possano pensare all’istruzione come un flagello da evitare ad ogni costo!

 

 

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Autore: Ciro Raia

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