Antonio Lombardi, nato nel 1921, ad Acerra, era un vecchio militante socialista, che aveva ricoperto numerosi incarichi sindacali in città e nella regione. Viveva nel suo appartamento, stipato di libri e ricordi del vecchio PSI, aperto sul golfo di Napoli. Era solerte a sfruttare ogni occasione per chiamare i vecchi compagni di lotte, dedicare loro qualche verso in rima e riannodare un discorso iniziato molti anni addietro. Prima di ogni conversazione, mentre la moglie discretamente preparava un caffè, aveva il vezzo di leggere qualche suo componimento in vernacolo dedicato alla situazione politica, ai compagni che non si decidevano a seguire la via dell’unità, ad amici a cui era solito dedicare perle della sua saggezza.
- Da dove partiamo, da Acerra?
- Sì da Acerra, dal mio paese natale, nel quale rimasi, da giovane, per uno scherzo della sorte. Mio padre, infatti, che era emigrato in America, nel 1933 ci chiese di raggiungerlo. Vendemmo tutto, ma, bloccato da chissà quale legge che regolava l’emigrazione, fui costretto, insieme a mio fratello, a restare in Italia. A quel punto non avevo più casa, avevo lasciato la scuola e mia madre, per togliermi dalla strada, mi mandò, perciò, ragazzo di servizio, presso l’officina di un fabbro amico di mio padre. Prendevo 7 lire a settimana: una buona paga in confronto alle 4 lire, massimo 4 lire e mezzo, percepite da un bracciante agricolo! Nel 1935 fui assunto, come apprendista, alle Manifatture Cotoniere Meridionali. Complice una lunga malattia respiratoria ed una frattura ad un braccio, fui costretto a licenziarmi. Passai tutto il tempo a leggere; lessi tutto quello che mi capitava sotto gli occhi. Appena guarito, a diciassette anni, andai a lavorare in una piccola officina meccanica a Napoli, dove percepivo 12 soldi all’ora.
- E sei rimasto ad Acerra fino a quando?
- Fino al 1941, anno in cui partii per il servizio militare. Poi, nel 1943 mi ritrovai a Roma, città in cui assistetti, da militare, all’ultimo discorso di Benito Mussolini. Con l’occupazione nazista della capitale dovetti trovarmi un ricovero ed anche un lavoro, fino alla liberazione di Roma. Nel 1944 feci ritorno a Napoli. Dal 1945 cominciai a lavorare per l’ARAR (Azienda Rilevazione Alienazione Residuati), dove assunsi responsabilità sindacali prima nella commissione interna e, poi, fui segretario sindacale di tutte le ditte dipendenti dall’azienda.
- Politicamente, la tua fu subito una scelta socialista?
- Alle prime elezioni del dopoguerra, ad Acerra, nel 1946, votai repubblicano. Insieme ad alcuni amici pensammo di esprimere un voto di coerenza con la scelta referendaria. Sono entrato, invece, nel partito socialista, nel 1947, dopo la scissione di Palazzo Barberini.
- Cosa ti spinse a chiedere l’iscrizione al partito di Nenni?
- Ti sembrerà strano, ma fu proprio la forza oratoria di Nenni. L’allora sindaco di Acerra, Carlo Petrella, era stato presente ai lavori che avevano prodotto la scissione. Ci raccontò tutti i passaggi, ci parlò dell’impegno di Pertini profuso nel tentativo di evitare la scissione, ci riportò le parole, grondanti passione, dei vari oratori. Poi, per Nenni aggiunse: “fece un discorso potente, che sbaragliò tutti”. Furono quelle parole a spingermi in direzione socialista.
- Hai ricoperto incarichi di partito?
- Sono stato nel direttivo della Federazione. La mia attività politica l’ho spesa tutta per il sindacato. Dopo alcuni incarichi alla FILTA (Federazione Italiana Lavoratori Ausiliari) ed alla Federazione Autoferrotranvieri, mi sono dedicato a tempo pieno alla Camera del lavoro di Napoli, poi alla FIOM e, da ultimo, sono stato segretario del comitato regionale sindacale campano.
- Visti da un sindacalista, com’erano, nella città di Napoli, i rapporti all’interno della sinistra?
- Nella CGIL, organizzazione costituzionalmente unitaria, i rapporti erano buoni. Poi, dopo la scissione del 1949, i rapporti continuarono ad essere stretti ma si notava una prevalenza dei comunisti, peraltro, data per scontata dai socialisti. Negli anni ’50, comunque, il sindacato di sinistra cercò sempre di procedere unitariamente, per fronteggiare l’attacco che si consumava da parte della DC a danno della classe operaia e dei lavoratori in genere.
- Fino a quando riuscirono a convivere le due anime, quelle socialista e quella comunista?
- Forse fino al 1956, l’anno dei carri armati di Budapest. Il PCI è stato sempre partito di organizzazione, il PSI, invece, di opinione. L’invasione dell’Ungheria, da parte della Russia, creò le condizioni per la rottura del patto di unità della sinistra. Rottura che si riverberò tra i socialisti anche nel XXXII Congresso del 1957, a Venezia, quando la sinistra del partito, pur non condannando l’invasione, riuscì a vincere l’elezione del Comitato Centrale. Ed in quell’occasione ricordo la grande lealtà di Pietro Lezzi, che non fu eletto nel Comitato Centrale, perché rifiutò l’accordo con la sinistra, che gli avrebbe garantito i voti necessari.
- Fu drammatica l’invasione russa, non solo dal punto di vista politico, ma da quello più direttamente umano. Hai un ricordo, che fa riemergere questa bruttissima pagina di storia?
- Ricordo che Vittorio Foa, allora vice segretario nazionale della FIOM, partecipando, a Napoli, ad una riunione del direttivo provinciale, parlando dei fatti d’Ungheria ci disse che Di Vittorio “aveva pianto, perché quei morti erano non dei traditori, ma onesti lavoratori, che si opponevano alle inumane condizioni a cui erano sottoposti dalla classe dirigente del loro paese”.
Antonio Lombardi morì nel 2010 e fu sempre orgoglioso di essere stato (e rimasto fino all’ultimo dei suoi giorni) –come aveva scritto Antonio Crispi nella presentazione al libro “Memorie di un sindacalista” (2001)- “un socialista scomodo, a volte critico e sempre convinto che il vero socialismo trova la sua naturale linfa vitale nel mondo del lavoro, tra gli operai e la fatica”.