Io ero proprio molto giovane, quando conobbi Gilberto Antonio Marselli. Fu il mio amico e maestro, Nino Pino, a presentarmelo. Forse, si era alla fine degli anni settanta del secolo scorso e l’occasione fu qualche incontro al Circolo “Pisacane”, in via Cesario Console, di fronte al mare di Santa Lucia. E, da allora, non ho mai smesso di frequentare Gil (come vezzosamente amava firmarsi), un elegante signore molto simile a un vecchio lord inglese che non a un professore universitario di sociologia. Lo ricordo sempre con la sua chioma nitida, la sua statura ritta, l’immancabile (quando ancora fumava) pipa, la sua puntualità e la sua eleganza.
Gilberto Antonio Marselli -figlio di Bettino, ufficiale di artiglieria, combattente nella Grande Guerra- era nato a Caserta, nel 1928, ma la sua famiglia era originaria di Cassino. Dopo una parentesi napoletana durata fino al 1938, Gilberto, obbligato a seguire il padre militare, si era spostato a Bologna. Nella città felsinea, nel 1943, il giovane liceale, mentre pedalava verso le colline emiliane, dove erano in attesa di informazioni gli antifascisti (tra cui il padre, frequentatore del gruppo “Giustizia e Libertà”), fu arrestato dalle Brigate Nere e condotto in carcere. Dopo due mesi di reclusione, Gilberto fu, con altri suoi coetanei, condannato a morte e avviato ai Prati di Caprara, fuori Porta san Felice, davanti al plotone di esecuzione. Gli fu fatta grazia, insieme ad altri suoi compagni di sventura, un momento prima che si compisse drammaticamente la sua sorte, per intercessione dell’arcivescovo della città, cardinale Giovanni Battista Nasalli Rocca.
Dopo il 25 aprile 1945, la famiglia Marselli tornò a Napoli e andò ad abitare a Portici, a Villa Buono. Papà Bettino avrebbe desiderato che il figlio si iscrivesse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli, ma Gilberto preferì la facoltà di Agraria, proprio nel centro di Portici. Fu studente diligente; mise insieme subito un buon numero d’esami, ma a quello di entomologia, dopo una iniziale soddisfacente disquisizione, cadde sulla mancata individuazione del sesso di una blatta domestica, un volgarissimo scarafaggio che era stato sottoposto alla sua analisi. Un segno del destino, perché, quella inattesa bocciatura lo convinse a cambiar tesi e determinò l’incontro con un professore dall’indubbio fascino -non solo sotto il profilo culturale e scientifico ma anche sotto quello amichevole e politico- che era solito dormire, talvolta, in istituto e che rispondeva al nome di Manlio Rossi Doria.
Prima che Marselli conseguisse la laurea in agraria, ebbe richiesta dallo stesso professor Rossi Doria perché prestasse la sua collaborazione alla Riforma agraria in Calabria. Condizione iniziale e necessaria era che il giovane studente universitario si calasse nelle vicende legate ai fatti di Melissa, quelli segnati dalla morte di alcuni contadini, caduti nel tentativo di strappare la terra ai latifondisti. Dalla frequentazione con i lavoratori della terra nacque la vocazione di Gilberto all’impegno politico, supportato, in verità, anche da un incontro che gli avrebbe segnato la vita, quello con Rocco Scotellaro, il giovanissimo sindaco socialista di Tricarico, In quegli anni, infatti, Manlio Rossi Doria stava elaborando il Piano di Sviluppo della Basilicata, promosso dalla SVIMEZ (Associazione Sviluppo Industriale del Mezzogiorno), in cui il maestro Scotellaro era stato incaricato di curare l’indagine sulla scuola mentre il medico Rocco Mazzarone quella sulla sanità.
Marselli, quindi, ormai a tempo pieno nel cosiddetto gruppo di Portici, fu un prezioso collaboratore di quel piano e fu, perciò, in contatto con moltissimi socialisti lucani.
- Ti sei mosso, quindi, sempre nell’area politica socialista?
- Non solo. C’erano, in quei tempi, una interlocuzione ed un confronto continui, a Napoli, con Gerardo Chiaromonte e Giorgio Napolitano; in Basilicata, con Tommaso Bianco. E, poi, c’era Carlo Levi, che, col suo “Cristo si è fermato a Eboli”, attirava nel Mezzogiorno innumerevoli studiosi americani. Forse, è più corretto dire che, senza avere una netta e precisa collocazione politica, ero orientato a sinistra. Nonostante i sentimenti deteriori di cui Rossi Doria ed i suoi collaboratori erano bersaglio. I democristiani, infatti, diffidavano di Doria per il suo passato da comunista; il PCI altrettanto era diffidente perché Doria lavorava alla Riforma Agraria, voluta dal Parlamento ma, in sostanza, gestita dalla DC; ed i socialisti, che, come al solito, avevano una posizione ambigua, si orientavano nel giudizio a seconda del momento e del leader di turno.
Fu necessario arrivare alla fine degli anni sessanta del secolo scorso, perché l’equivoco comportamento delle formazioni partitiche nei confronti di Rossi Doria subisse una positiva sterzata e, per dirla con la vulgata corrente, perché il professore fosse sdoganato da (pre)giudizi mendaci. Tutto avvenne quando Francesco De Martino gli offrì la candidatura al senato, in un collegio dell’alta Irpinia. Inizialmente, Rossi Doria fu riluttante, perché non voleva intralciare il passo a nessun candidato locale; poi, finì con l’accettare e chiese a Marselli di organizzargli la campagna elettorale. “Dopo essere stato eletto al senato, il professor Rossi Doria fece un giro di ringraziamento per il collegio. Tutti cominciavano a chiedere piaceri personali e lui si arrabbiò dicendo che era il senatore di tutti e non dei singoli, aggiungendo, poi, di essere disponibile ad aiutare tutti nella misura in cui tutti si fossero uniti ed insieme avessero concorso a risolvere il problema. A me, poi, che, come ti ho detto, mantenevo contatti col collegio, fu proibito di occuparmi di casi individuali; fui invitato fermamente ad interessarmi solo di casi di gruppo”.
Dopo l’esperienza politica in Irpinia, Gilberto Antonio Marselli continuò il suo percorso culturale, profondendo un intenso impegno nell’Istituto di Studi “Carlo Pisacane” di Napoli. “In quel circolo si parlava di rivisitare il socialismo, di come far diventare moderna un’idea del 1892 ed inserirla nella cultura napoletana. Ricordo la presenza di Lorenzo Pagliuca e dei suoi colleghi architetti, estensori dei P.R.G. nei comuni della provincia a guida socialista. Ricordo il contributo di Giovanni Acocella, di Giulio Buonpane. Ricordo l’epoca dei colonnelli greci conniventi con la polizia italiana, quando dal “Pisacane” fu offerta ospitalità ad un comitato di studenti universitari di origine greca. Ci fu allora una manifestazione col figlio di Papandreu, di ritorno dagli USA. Franco Capotorti si prestò a fare da interprete; dall’Università di Portici mi accompagnarono Claudio Napoleoni e Giorgio La Malfa.
– Altri campi di studio?
– Quelli perseguiti dall’architetto Giulio Buonpane e dalla professoressa Stefania Romano, che sperimentarono un modo di utilizzare, in chiave moderna, gli scavi di Pompei ed Ercolano. Anzi, uno dei fascicoli della Rivista “Campania Documenti” fu dedicato proprio a questo studio, con una relazione tecnica di Pagliuca. Poi, col contributo di Pietro Lezzi, ci fu una forte spinta alla nascita dell’Ente Ville Vesuviane. Ma il momento più esaltante fu quello dei decreti delegati: fummo noi del “Pisacane” a preparare la distrettualizzazione scolastica della città di Napoli.
Gilberto Antonio Marselli era così, uno scrigno di memorie, una preziosa fonte a cui abbeverarsi per conoscere più a fondo fatti, personaggi e retroscena di una storia del Paese abbastanza poco riportata nei libri.
Da quando erano venuti a mancare Nino Pino e Gaetano Arfè, avevo individuato in Gil il mio riferimento storico del socialismo napoletano. Ci sentivamo, molto spesso, al telefono e ci incontravamo in non rare occasioni (presentazioni di libri, convegni e cose simili). A casa sua ci andavo un paio di volte all’anno; una era nel mese di giugno, quando gli portavo le albicocche del monte Somma. Mi aspettava dal balcone su via Petrarca, si preoccupava dei cancelli automatici, si faceva trovare davanti alle porte dell’ascensore e mi salutava con un caloroso abbraccio e lo schiocco di due baci. Poi, attorno al tavolo del soggiorno, dove sedevano anche le nostre mogli, Gilberto diventava incontenibile nella sua verve, nella sua ironia, nel suo fare e disfare i gomitoli delle storie. E io mi incantavo; noi ci incantavamo!
Ho alcune registrazioni (in audio e in video) delle memorie di Gil. In un nastro c’è tutto il racconto dei funerali di Scotellaro, dalla morte a Portici alla tragica notizia -che Gil portò di persona- alla mamma del poeta, all’orazione funebre tenuta da Carlo Levi. E, poi, c’erano i Festival Nazionali dell’Unità (Arrivava Manlio, accompagnato da me e da Scotellaro. Ci incontravamo subito con un trio composto da Giorgio Amendola, Francesco De Martino ed Emilio Sereni. Subito prendevamo posto ad un tavolo –sempre, per tre anni di seguito- nell’identica formazione: Rossi Doria di fronte ad Amendola, Scotellaro di fronte a De Martino, Sereni di fronte a me. A quell’epoca eravamo un po’ atipici, perché non c’era un vero e proprio spiccato senso di ostilità tra gli esponenti dei due partiti. C’era, al contrario, un rispetto reciproco, anche se ci sentivamo distinti”. Ed ancora l’amarezza derivante da certi ultimi comportamenti politici (Non si può più oltre far finta di non accorgersi che troppi nostri vecchi compagni –che credevamo fossero animati dalle nostre stesse idee e, per giunta, spesso si dichiaravano appartenenti addirittura all’ala del Partito rifacentesi alle posizioni di sinistra estrema- ogni giorno di più preferiscono aderire al montante trasformismo della società italiana, non rifiutando di praticare perfino il piccolo cabotaggio di convenienza).
Non so perché, ma sembra che le brutte notizie arrivino sempre di mattina presto. Ho saputo della morte di Gil alle cinque di stamattina. La brutta notizia era stata già resa pubblica dal tam tam dei social.
Ho ripensato, allora, a quegli auguri per il suo novantesimo compleanno, che non ero riuscito a fargli. Ogni volta che gli telefonavo, infatti, il telefono restava muto. Dopo qualche giorno, poi, avendo visto le mie insistenti telefonate, Gil mi fece chiamare dalla figlia Maddalena: “Papà ha un problema ai denti e non riesce a parlare bene”. Da allora ci siamo sentiti solo in un altro paio di occasioni. La prima volta mi telefonò, per ringraziarmi degli auguri, “ma, ormai sono al capolinea”. La seconda volta, forse, a Pasqua; fu una telefonata breve, senza la sua solita verve; lo sentii stanco, gli dissi che ci saremmo visti per il rito estivo delle albicocche. Sorrise.
E stamattina sono corso a salutarlo, per l’ultima volta, senza portargli le albicocche. Però, lui sapeva che gliele avrei volute portare anche stamattina, come ogni volta, per sempre. Ho fatto, però, una cosa che, di solito, non faccio; gli ho scritto un pensiero, così, immediato, come mi sentivo di scrivergli in quel momento: “Ciao Gil, fiume in piena di affetto, intelligenza, simpatia, cultura, amicizia. Ti voglio bene”.