Quello del serpente a due teste era stato solo l’ultimo dei molti eventi ritenuti straordinari, che avevano sconvolto la vita della ridente cittadina posta ai piedi del monte (come sempre cominciavano i temi degli alunni di scuola elementare). Non si trattava di una mutazione genetica; di due teste, cioè, nate su un unico tronco, ognuna dotata di occhi e bocca, magari con difficoltà nello scegliere la direzione di marcia, così come era capitato di recente in qualche allevamento in Cina o in qualche bosco della Polonia. Si trattava, invece, di un serpente le cui due teste erano collocate nelle parti opposte del corpo. Sembrava una reincarnazione del mitico Anfisbena, il serpente generato dal sangue di Medusa uccisa da Perseo. Se si arcuava era somigliante a una S; a volte sembrava un semicerchio, altre volte appariva come una linea retta con capacità di strisciare, indistintamente, in direzioni opposte.
La scoperta dello strano rettile l’aveva fatta una mattina, per caso, Ignazio Calese, un contadino del luogo, proprietario di un fondo rustico benedetto per la fertilità della terra vulcanica e per la felice esposizione ai raggi del sole. In meno di due moggi di terreno, incastonati nelle costole del monte –ultimamente anche terrazzati- Ignazio coltivava di tutto: l’uva catalanesca, le albicocche pellecchielle, le mele annurche, i pomodorini del piennolo. Quella mattina di ottobre, avvicinandosi i giorni della raccolta, stava pulendo il terreno infestato dalle erbe canine, sotto due secolari piante di castagne; a un tratto si era accorto che tra i ricci semiaperti e le prime foglie ingiallite strisciava un serpente. Subito dopo sembrava che un altro serpente strisciasse dalla parte opposta. Ignazio, avendo guardato meglio, aveva notato che erano due teste di un unico corpo. E, quando si era deciso a chiamare Ciccio, il suo vicino di terra, aveva quasi biascicato: “vieni a vedere questo serpente a due teste e senza coda. No…, non so come devo dire, perché una testa è la coda dell’altra testa”. E Ciccio, spontaneo in ogni sua manifestazione, sarcasticamente aveva commentato, nemmeno tanto sottovoce: “stai già fatto a vino, di primo mattino?.. Figurati quando scenderà ‘o sole!”.
Già qualche mese prima, però, nella ridente cittadina posta ai piedi del monte era accaduto qualcos’altro di veramente inspiegabile se non proprio di miracoloso. Il corpo del monaco, quello conservato nella cripta della Chiesa Maggiore, si era -improvvisamente- librato in volo ma non era scomparso del tutto alla vista di chi lo guardava sbalordito. Anzi, per tre notti di seguito, quel corpo era apparso con espressione sornione –come a dire: poi vedrete!, poi vedrete!– in quello spicchio di cielo che si vedeva, a guisa di intaglio, tra la volta dell’abside e le ultime tegole del vecchio palazzo del Maestro Annibale Sassi, noto compositore e direttore d’orchestra, trovato morto mentre stava eseguendo la sonata per pianoforte n.14, in Do diesis minore –conosciuta anche come Sonata Quasi una fantasia– di Ludwig van Beethoven.
La gente del luogo e non solo, al diffondersi della notizia riguardante il corpo del monaco, era accorsa numerosa in quel vicoletto che ancora conservava, tra gli scarni spazi di un ingresso con portale di piperno e un basso con infissi in alluminio anodizzato, uno scolorito manifesto della presentazione di un libro di Massimiliano Valzi –il primo sindaco comunista della vicina città capoluogo- e uno del vecchio film La ragazza con la pistola, testimonianza di una antica rassegna de “Il cinema sotto le stelle”. C’era, in quella calca, chi pregava, chi aveva le lacrime agli occhi, chi scattava foto con il cellulare, chi proponeva di avvertire subito il parroco –no, meglio il vescovo-, chi di chiamare i carabinieri e chi diceva trattarsi di una esperienza estatica. Tra questi ultimi si sentiva la voce di Gigino Infante, un sedicente intellettuale molto insoddisfatto se non proprio frustrato, che si pavoneggiava, spiegando ai suoi soliti due o tre amici d’infanzia come “l’esperienza estatica dovesse intendersi come uno stato psichico di sospensione ed elevazione mistica della mente, che viene percepita come estraniata dal corpo”. Un poco più avanti, su una mezza botte capovolta, era letteralmente saltato Simone De Franco, un professore di liceo in pensione, che -con enfasi- aveva preso a declamare a delle allibite ricamatrici i versi del XXXIII canto del Paradiso, quelli in cui Dante prova a descrivere l’estasi di fronte alla visione beatifica di Dio:
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigge
per misurar lo cerchio e non ritrova
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder volea come si convenne
l’imago al cerchio e come vi si indova…
Il corpo del monaco aveva riposato in quella cripta da oltre tre secoli e nessuno, a memoria d’uomo, aveva mai saputo dare altre informazioni su come vi fosse giunto o su chi lo avesse conciato nella postura dell’eternità. Qualcuno raccontava –ma era un racconto ascoltato nel tempo dell’infanzia e senza una testimonianza certa- che quel monaco fosse morto di indigenza, perché nessuno lo aveva soccorso in un periodo di forte carestia. Qualche altro aggiungeva, invece, che si trattava di un eremita trovato morto in una grotta scavata tra i canaloni della montagna. Nessuno, però, sapeva dire come fosse stato depositato in quella cripta, dove il suo corpo –rimasto intatto negli anni- era diventato fonte di devozione e di omaggio continuo di fiori e di lumini. Davanti alle grate, che proteggevano la cripta, spesso, si inginocchiavano in preghiera credenti in cerca di un miracolo o passanti incuriositi dall’alone di mistero nato intorno al “monaco sconosciuto”. Le beghine del luogo raccontavano, poi, che le elette spoglie operavano un miracolo al giorno. Raccontavano anche che moltissimi anni prima, la notte di carnevale, un uomo dedito al piacere del vino, avesse sottratto i paramenti sacri al “monaco sconosciuto”e se ne fosse andato a divertirsi, smodatamente ubriaco, per le strade del paese. Poi, l’avevano trovato morto durante la stessa notte, con una smorfia di disappunto sul volto cereo.
Sparsasi la notizia del “monaco volante”, sul posto erano giunte anche le televisioni, che avevano mandato notizie in molti telegiornali regionali e nazionali; anzi, la rete nazionale aveva trasmesso in diretta anche un talck show su “Fede e superstizione”, con la presenza di nomi noti del jet-set, dello sport e dello spettacolo. Ed era accorsa tanta folla per vedere da vicino Valeria Manin (ex attrice porno, ora dedita al volontariato nei villaggi della Namibia), Pasquale Cortese (direttore di un giornale online, da un po’ di tempo convinto di essere fratello minore di San Gaudenzio) e Tristano Sfoggi (manager di squadre di basket, radiato per aver truccato innumerevoli partite ma pentito dopo un pellegrinaggio al santuario bolognese della Madonna di san Luca), mentre si intrattenevano nel salotto televisivo di una ispirata Pauline Dumont (attempata diva del cinema francese).
D’improvviso, però, era successo che, così com’era apparso, il corpo del monaco era tornato nella sua cripta, come se niente fosse mai accaduto. Unica anomalia (o mistero?) rispetto a prima era stato che le candele o i lumini, accesi per devozione, si erano spenti subito. Come se un soffio sottile e persistente avesse spirato improvvisamente in un unico verso. Anche in quel giorno di completa assenza di vento.
Ma l’episodio più sconvolgente e inspiegabile per quella ridente cittadina posta ai piedi del monte si era verificato in preparazione delle elezioni comunali. L’ufficio elettorale, nel corso di un aggiornamento degli elenchi dei cittadini ammessi a votare, si era trovato con i computer impazziti: dalle pieghe delle macilenti stampanti erano usciti, infatti, fogli bianchi senza il briciolo di un nome. Anzi, in verità, i soli nomi che erano usciti ed ai quali si riconosceva l’elettorato attivo e passivo erano stati quelli del sindaco, di sua moglie, di suo figlio, di sua nuora, di suo nipote e di sua zia. Dopo centotredici fogli bianchi erano usciti anche i nomi di due assessori e di due consiglieri comunali della passata maggioranza con rispettivi coniugi, tre fratelli, una sorella e due amanti. Oltre al nominativo di una cognata di una degli amanti e a quello dell’amministratore del condominio in cui abitava la famiglia del vescovo appena nominato a capo della diocesi, che vantava –documenti alla mano- tre martiri cristiani, un santo, due suore beatificate e un apostolo di Cristo.
La notizia –un’autentica bomba- subito aveva fatto il giro del paese. Nelle case, nei bar, per le strade non si era parlato d’altro che di “questo chiaro segno del destino”.
Intanto, prima in un cortile del centro storico e, poi, sulle scale della vecchia chiesa, il consiglio degli anziani –che non aveva alcuna validità giuridica ma pesava molto sulle scelte dei concittadini, per l’esperienza dei saggi che lo componevano- si era riunito per dare un’interpretazione all’evento.
Peppe Montano, contadino di novantaquattro anni, aveva preso la parola e, facendo sibilare le esse tra gli spazi della dentiera nuova, aveva detto che bisognava interpretare il segno che il destino aveva mandato al paese. Aveva ricordato che, in tempi antichi, le premonizioni facevano preparare i popoli agli eventi che stavano per accadere. Ora, perciò, il popolo doveva essere pronto a fronteggiare i futuri –e sicuramente tristi- accadimenti. Quindi, si era seduto arcigno e soddisfatto, a guisa di un vecchio capo indiano, fonte ed esempio di saggezza.
Giovanni Fariello, un altro contadino che parlava solo in dialetto, aveva aggiunto: “quanno ‘e radice ‘e ‘na vecchia pianta fanno ‘na bella rota ‘e funghe, allora vo’ dicere ca’ ‘a pianta è morta”.
-Scusa, cosa vuoi dire? Spiegati meglio con questi tuoi paraustielli– aveva detto Vincenzo Moreno, un falegname, che, da quando gli erano stati commissionati mobiletti per cucine componibili da una noto marchio del settore, godeva nel presentarsi ai suoi clienti come un apprezzato erbanista.
-Voglio dire che il municipio è, deve essere, la casa di tutti: deve essere come una mamma che dà il latte a tutti i figli. Come una pianta che fa crescere tutti i frutti e, perciò, deve avere le radici, il tronco e i rami forti. Ora, se il tronco è fuceto e la pianta non è più mammosa, allora ‘e rote ‘e funghe sono il segnale che sta seccanno tutte cose. Se ancora non è chiaro, cerco di spiegarmi meglio: ‘o municipio s’è ‘nfracetato, nun dà chiù frutte. ‘E funghe, comme dicevano ‘e viecchie antichi, so’ portatori ‘e morte.
Dopo Giovanni Fariello aveva preso la parola anche padre Yusuf Al Hakim, un comboniano di nazionalità egiziana, a cui era stata affidata la chiesa madre del popoloso centro. Padre Yusuf inizialmente era stato guardato con molta diffidenza, per il colore scuro della pelle, perché veniva da un paese lontano, per la cadenza della sua parlata e chissà per quali altre cose. Col passare del tempo (era lì ormai da quasi dieci anni), però, si era integrato benissimo nella comunità -non solo ecclesiale-, che lo chiamava affettuosamente Akim, come l’eroe di un fumetto, di una cinquantina d’anni addietro, che viveva le sue avventure tra gli animali e gli alberi della giungla.
Padre Yusuf Al Hahim aveva detto, rivolgendosi al popolo dei suoi fratelli in Cristo, che tutto quanto era accaduto negli ultimi tempi non era altro che un palpabile segnale mandato dal Signore Dio, che aveva voluto richiamare i cristiani ad una maggiore umiltà, alla solidarietà per gli emarginati, alla presa di distanza dalle cose effimere. E, ovviamente, a una più puntuale osservanza della carità e della partecipazione cristiana attraverso la preghiera e la penitenza (non ci sarebbe stata male anche la castità!). “Fratelli, riuniamoci in adorazione, allontaniamo le tentazioni di satana e alziamo le nostre lodi al cielo. Colgo l’occasione per ricordarvi di partecipare compatti al triduo pasquale e alla successiva novena per san Vincenzo, il santo invocato contro i fulmini e i terremoti. E con questa montagna di fuoco che ci sovrasta, solo Dio sa quanto ne abbiamo bisogno”!
I cittadini, più giovani, avevano naturalmente riso del consesso degli anziani e se ne erano fatti gioco. Un po’ per la giovane età, un po’ per la cattiva educazione ricevuta e l’assenza di cultura, quei giovani erano sempre in distonia con tutto quanto avveniva nel paese e con le decisioni che si prendevano.
La massa giovanile preferiva tenersi debitamente lontana da ogni vicenda. Preferiva incontrarsi nella piazza, per organizzare comitive in partenza per le vicine discoteche. Spesso, poi, partiva per viaggi organizzati. I giovani virgulti ignoravano completamente tutti i luoghi vicini, quelli che costituivano –per storia, bellezza e cultura- patrimonio dell’umanità; conoscevano, di contro, i vizi e le virtù delle notti di Copacabana, di Formentera, di Santorini o delle Seychelles.
Altri giovani, ancora più indolenti, erano soliti soggiornare sulle scale della piazza grande o negli androni dei palazzi, dove lasciavano cicche di sigarette, avanzi di pizze, qualche laccio emostatico. Le bottigliette vuote di birra o di un pessimo vino con additivi le lasciavano, invece, seguendo una moda nazionale, sui bordi dei marciapiedi, sul muretto della scuola e lungo tutta la grata di protezione al cancello d’accesso al convento del suore compassioniste serve di Maria.
Pochi erano i giovani che si appassionavano alle vicende della politica locale o nazionale che fosse. E, naturalmente, lo facevano seguendo gli schemi di pensiero e di abitudini ereditati dai loro familiari. Così, Linda vagava da una posizione all’altra; come lo facevano anche Alberto e Marco.
Marco era cresciuto tra le tonache (anche se adesso vestivano in clericeman) dei preti e ne aveva assorbito non solo gli umori ma anche i sottili ragionamenti insieme alla vocazione agli inganni. Ogni volta, per qualsiasi decisione fosse necessaria intraprendere un’azione, diceva che bisognava parlarne prima col parroco e, poi, con gli iscritti all’Azione Cattolica. Quindi, aggiungeva che era solo tempo di preghiera e che non sarebbe stato opportuno scegliere parte alcuna, in quanto era meglio capire prima eventuali schieramenti e, poi, decidere, dove collocarsi nel nome di Cristo. Il suo motto era come quello impresso sulle monete dai re di Francia: Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat.
Alberto, invece, viveva dello strascico della drammatica crisi ideologica interna alla sua stessa famiglia. Era, infatti, nato in un ambiente in cui i ceppi familiari, paterni e materni, si fronteggiavano a colpi di trasformismo e ad ogni elezione cercavano di collocare un loro consanguineo in liste e posizione utili da poter essere eletto. Una volta a destra, una volta a sinistra, una volta al centro; importante poter contare nella spartizione delle spoglie di guerra. Alberto, quindi, sin da piccolo si era dibattuto in scelte contrastanti ed ogni qualvolta si avvicinava una competizione elettorale era preso dal sacro fuoco della partecipazione: quella finalizzata a contare qualcosa. Ma sbagliava sempre il passo e restava irrimediabilmente fuori. Motivo per cui continuava a girare, come una trottola impazzita, da un capo corrente a un capoclan, da un prete a un sindacalista della Federterra.
Linda, infine, era il rampollo della dinastia dei “sempre presenti”. In paese li conoscevano tutti; da oltre un secolo praticavano la nobile arte della concia delle pelli. Politicamente avevano sempre espresso un loro rappresentante al consiglio comunale; ne reclamavano, anzi, il diritto. Così, a partire dagli avi, erano stati, di volta in volta, liberali, fascisti, antifascisti, socialisti di centrosinistra, socialisti (?) di centrodestra, italo forzisti, democratici di sinistra, di nuovo italo forzisti. Alle ultime elezioni Linda s’era proposta come candidata alla carica di sindaco. L’aveva fatto nel nome della tradizione familiare e nella certezza che “una donna al municipio è ragione di principio ma segno del nuovo che avanza”. Ma il suo slogan elettorale non aveva funzionato. E Linda era ripiombata nel dilemma di dove potersi utilmente collocare alle prossime elezioni.
Intanto, la data delle elezioni si stava avvicinando. Nella piazza del paese era riunita permanentemente un’assemblea di cittadini. Bisognava trovare una soluzione all’inghippo delle liste. Ancora una volta era stato un anziano a proporre un espediente per superare il momento di stallo. Nell’anno dei due papi perché non pensare anche a due sindaci, a due consigli comunali, a due giunte? E perché no, aggiunse sornione qualcuno, anche a due paesi?
- Ma come a due paesi?
- Un paese reale e uno di fantasia. Un sindaco reale e uno di fantasia…
- Questa proprio non la capisco. E chi sarebbe il vero, chi comanderebbe?
- Il falso sarebbe il vero… visto che il vero è sempre falso…
- Non ho capito niente…
La soluzione proposta era stata adottata all’unanimità. A capeggiare la lista falsa, in contrapposizione a quella vera, era stato chiamato Ignazio Calese. Il capolista, invece, era Ciccio, il suo vicino di terra. Gli altri nomi della lista erano stati scelti tra i componenti il consiglio degli anziani; c’erano, comunque, sia Peppe Montano (un contadino novantaquattrenne) che Giovanni Fariello (un contadino che parlava solo in dialetto) e Yusuf Al Hakim (il comboniano a cui era stata affidata la chiesa madre del popoloso centro).
Era stato, invece, escluso, all’unanimità, dalla lista falsa Gigino Infante (il sedicente intellettuale molto insoddisfatto se non proprio frustrato), che si proponeva ovunque e sempre ma finiva col parlare ripetitivamente della questione della lingua. Sostenendo di essere un vero umanista, in ogni suo intervento pubblico, egli dichiarava –c’entrasse o non c’entrasse- che il “latino era la lingua dell’eternità letteraria”. E si infervorava talmente tanto su questa sua dichiarazione che, come in trance, si rivolgeva al padre Dante –secondo lui sempre presente tra il pubblico- per contestargli quanto asserito nel “Convivio” e che citava a memoria: “il volgare è la luce nuova, sole nuovo, lo quale sorgerà là dove l’usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre o in oscuritade per lo usato sole che a loro non luce”.
Esclusi dalla lista erano stati anche Alberto, Marco e Linda, perché ondivaghi nelle idee e adusi ad essere la certezza del passato più che la speranza del futuro!
Le disponibilità a scendere nella competizione elettorale erano state, in ogni caso, in numero maggiore di quanto si fosse potuto sperare, tanto che era stato fattibile stilare anche una lista d’appoggio composta da altri contadini, prosperose operaie della locale fabbrica di confetture, molti artigiani ed alcuni poeti.
Il simbolo scelto per la lista elettorale era stato l’immagine di un monaco nell’atto di librarsi in volo; il nome, invece, era stato “Unitas”, selezionato in quanto richiamava quello della locale squadra di calcio, che aveva un buon seguito di tifosi e simpatizzanti. All’atto della presentazione pubblica Ignazio Calese aveva detto che era un’allegoria (glielo avevano suggerito i poeti presenti in lista; Giovanni Fariello, però, continuava a insistere che era meglio usare la parola paraustiello) per significare che bisognava allearsi sotto l’ombrello dell’umiltà, della povertà e un poco (scandì proprio ben bene: “un po-co”) della castità, avendo, però, il coraggio di provare a volare e di rischiare, come Icaro (anche questo glielo avevano suggerito i poeti), sempre più vicino al sole.
Gli abitanti della ridente cittadina posta ai piedi del monte sembravano non esserci nella pelle e fremevano dalla smania di andare a votare. I comizi della lista “Unitas” riempivano la piazza –che pure era grande! Anzi, sicuramente la più grande tra i paesi vicini- all’inverosimile. Era un godimento dell’animo e della mente ascoltare i pochi concetti, chiari, concisi, espressi da Ignazio Calese, Peppe Montano, Al Hakim e gli altri che, per la prima volta, si avventuravano davanti a un microfono e a una piazza e a un progetto. Uno dei poeti inseriti in lista, poi, una volta che pubblicamente aveva preso la parola, si era espresso in rima baciata: “Questa sera, credetemi, son qui presente/ solo perché ho un cuore vero e ardente./ Ciò che voglio per voi non è un mistero:/ lavoro, giustizia e un libero pensiero./ Sogno che ognuno possa, con gran serenità,/ scegliere un futuro di speranza e libertà…”. Applausi, applausi a non finire, lacrime, entusiasmo al massimo. Tutti davano ormai per certa la vittoria della lista “Unitas”. Anche perché quelli della lista del sindaco uscente e dei suoi accoliti erano proprio scomparsi dalla circolazione. Non c’era un loro manifesto, non organizzavano una manifestazione pubblica, non andavano in giro a chiedere un voto. E, in più, da parte di tutti veniva la voce unica che mai e poi mai avrebbero affidato il loro futuro a chi il futuro lo aveva già distrutto. E, spesso, aggiungevano: “mi faccio tagliare le mani, piuttosto che andare a votare quelli”.
C’era da aspettare solo l’apertura delle urne.
E, nel pomeriggio di un fatidico lunedì postelettorale, le urne erano state finalmente aperte. La lista “Unitas” aveva avuto sì e no i voti dei familiari di quanti avevano accettato di candidarsi; niente di più! Calese, Montano, Hakim e gli altri erano lo specchio della delusione. Ma come? C’erano stati cortei, auguri, canti; sembrava che il comune fosse stato già conquistato…
Mariarca Aliperti –che a dire di tutti aveva le mani d’oro- aveva personalmente preparato una fascia tricolore, lavorandola con l’antica arte del tombolo. Certo, non sarebbe stata mai indossata dal “sindaco Calese”, perché troppo pesante e poco funzionale; però, era stata esposta –“perché ogni cittadino potesse ammirare il simbolo del cambiamento”- ai piedi dell’altare della chiesa madre del popoloso centro, dove era stata benedetta da padre Akim.
La candidata al consiglio comunale Rosa Canzanelli, proprietaria dell’esercizio commerciale pomposamente chiamato “Boutique de la morue sechée et salée” (lo aveva fatto perché in quella strada una chincaglieria, una pasticceria ed una macelleria l’avevano già chiamate, rispettivamente “Bibelots”, “Patisserie” e “Boucherie”), che durante la campagna elettorale aveva regalato chili e chili di baccalà e stoccafisso (i suoi mussilli erano richiesti da tutti i ristoratori della zona), piangeva, per rabbia, in un angolo della sacrestia, che padre Hakim aveva messo a disposizione di quelli della lista “Unitas”.
Festeggiavano, invece, Imma Lomonaco e Carmela Fragliasso; la prima -dopo essere stata l’amante del locale presidente degli autotrasportatori e poi del segretario del vescovo della vicina diocesi- era, da ultimo, la fidanzata di Carlo Sorvillo, deputato da tre legislature e sempre per partiti politici diversi. Carmela, invece, conviveva con Lucio Caiazzo, biscazziere, consigliere comunale uscente che, negli ultimi cinque anni, aveva cambiato quattro partiti e due movimenti civici e si era battuto per le primarie di coalizione (una volta per il centrosinistra e una volta per il centrodestra). Lomonaco e Fragliasso erano state elette con un vero plebiscito di voti. Erano state superate solo dalla new entry Consiglia Restivo, custode del macello comunale e figlia di un vigile urbano, noto procacciatore d’affari e concessionario di un distributore di benzina.
Alla fine, quindi, non era successo proprio niente. La ridente cittadina posta ai piedi del monte aveva scelto di non cambiare, di continuare a vivere nel consueto grigiore delle idee e nella paura innata di rischiare. Ma, forse, aveva soprattutto scelto di continuare a vivere nel torpore di un sistema, che faceva (ed aveva fatto da tempo immemorabile) comodo a tutti.
Erano, intanto, tornati tutti i vecchi fantasmi. Il monte aveva ingoiato anni ed anni di rifiuti tossici, di scarti industriali, di plastica, di amianto, di carcasse d’automobili, di pneumatici, di scorie di varia provenienza, che avevano trovato una via d’uscita nella falda dell’acqua e stavano procurando morti su morti. La produzione della frutta, un tempo rigogliosa, era ridotta all’osso, perché i pochi acini di catalanesca come le pellecchielle, le mele annurche e pomodorini del piennolo avvizzivano subito. Dalle fontane sgorgava acqua color del vino ma senza il sapore del vino. Le vetrine dei negozi avevano spento le luci, avevano abbassato le serrande (ma alcuni negozianti lo avevano fatto per protestare contro gruppi di sbandati che esigevano il pizzo), mentre la gente (quella che aveva votato con speranza e quella che aveva votato per interesse) seguiva attentamente tutti i programmi televisivi in cui si parlava di cibo.
Nella sede comunale, anzi, la nuova amministrazione aveva voluto invitare tutta la popolazione a partecipare ad un evento artistico di eccezionale valore culturale (così era stato scritto sul manifesto a firma del neo sindaco e della nuova assessora all’istruzione) le cui madrine erano Imma Lomonaco e Carmela Fragliasso. Nel vecchio cinema cittadino, ormai chiuso da anni, erano stati montati stand con fornelli, per poter consentire ai cuochi (e agli aspiranti tali) di tutto il paese di cimentarsi nella preparazione della frittata di maccheroni, delle salsicce al coriandolo, del baccalà fritto e di quello lessato e imbottito nella sacca di un calamaro (ma si trattava di totani di pezzatura media), dei fiori di zucca con ricotta, del casatiello con la sugna, della pastiera di grano.
Nella piazza del paese della ridente cittadina posta ai piedi del monte passeggiavano, intanto, come inebetiti –di fronte a tanta improvvisa voglia di partecipazione- Ignazio Calese, Peppe Montano e Giovanni Fariello. Alle spalle del monumento ai caduti, all’ombra di una statua equestre che lo sormontava, padre Yusuf Al Hakim e Vincenzo Moreno cercavano di asciugare le lacrime di sconforto di Rosa Canzanelli, che, a dire il vero, era più amareggiata per i chili di stocco e baccalà utilizzati, invano, come voto di scambio che non per il risultato del voto stesso.
Gigino Infante e Simone De Franco, intanto, avevano iniziato una delle loro interminabili discussioni. Il primo sosteneva con grande enfasi che il sermo vulgaris (il latino volgare) aveva relegato la lingua colta latina in una sorta di recinto elitario, che, nonostante la diffusione delle forme statuali della Roma caput mundi, non era riuscita a trionfare sulla parlata del popolo. E Simone De Franco, a tal proposito, citava l’Appendix Probi, l’elenco delle forme corrette ed inesatte di 227 parole latine stilato da un anonimo del III secolo d.C. e, a mo’ di esempio, cantilenava: calda invece che calida, febrarius invece che februarius, autoritas al posto di auctoritas.
Poco lontano, dei giovani tiravano calci ad un pallone non per emulare i divi dei campi verdi ma per mirare alle lampade dell’illuminazione pubblica. Dal vecchio bar –l’insegna ricordava che era stato fondato nel 1861- uscivano frotte di avventori; alcuni discutevano dell’Unitas e dei problemi connessi alla gestione di una squadra di calcio in un tempo in cui nessuno era più disposto a sacrificarsi atleticamente e finanziariamente; altri si passavano informazioni sui benefici che la nuova banca aveva concesso ai suoi correntisti; altri, infine, commentavano, torcendosi dalle risate, la decisione presa da Nunzio Bastico, consigliere comunale con delega al cimitero, con la quale si stabiliva che l’interro delle salme poteva avvenire solo nei pomeriggi di lunedì e venerdì. E siccome il locale cimitero, da anni in attesa di ampliamento, non possedeva né obitori in numero sufficiente ad ospitare le bare né i necessari locali refrigerati, la decisione di Bastico aveva indotto un sedicente comitato civico per la difesa della morte ad affiggere un manifesto da un titolo esilarante: C’è anche chi decide il giorno in cui si può morire!
Dopo qualche tempo, una mattina, al sorgere del sole Ignazio Calese era già nel suo podere; puliva sotto gli alberi, apprestandosi a tirare dei solchi per la messa a dimora delle piantine di pomodori. Mentre menava fendenti con la zappa e con la vanga, aveva intravisto, tra le erbe, la pelle di un serpente in muta, anzi sembrava fosse la pelle di due serpenti, perché c’erano due teste e due code. Si era ricordato che la pelle di serpente, trovata intera, è di buon auspicio; trovata, poi, con la testa è un talismano che rende immuni da pesti e malattie. Aveva, perciò, aguzzato la vista e aveva cercato di capire come mai sembrava ci fossero due teste in un unico corpo di serpente. E, quando si era deciso a chiamare Ciccio, il suo vicino di terra, aveva quasi biascicato: “vieni a vedere questa pelle di serpente a due teste e senza coda. No…, non so come devo dire, perché una testa è la coda dell’altra testa”. E Ciccio, spontaneo in ogni sua manifestazione, sarcasticamente aveva commentato, nemmeno tanto sottovoce: “stai già fatto a vino, di primo mattino?.. Figurati quando scenderà ‘o sole!”