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Ciro Raia
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Fausto Corace

Ciro Raia 11 Luglio 2016     No Comment    

news5884Il volto e l’anima del socialismo napoletano, quello che ancora si riconosceva, senza ambiguità, in uno schieramento di sinistra, fino al giorno della sua morte (4 novembre 2013), aveva il nome di Fausto Corace. Era un ingegnere, portava molto bene i suoi settantacinque anni; aveva affrontato e superato gli innumerevoli marosi della tempesta socialista di fine secolo scorso e si era assunto la responsabilità di guidare quanto restava di un glorioso partito fuori dai moti vorticosi di un percorso infido, dedicando la passione e il tempo necessari, senza, però, mai trascurare il proprio lavoro: “Non mi sono mai sottratto agli impegni politici assunti e, contemporaneamente, non ho mai lasciato il mio lavoro, prima alla Snia Viscosa e, poi, alle Tranvie Provinciali”.

Uno dei miei frequenti incontri con Fausto lo ebbi in una torrida mattinata di luglio di una decina di anni fa, al quinto piano di un palazzo al Centro Direzionale di Napoli, dove erano sistemati gli uffici della Regione Campania. Col suo largo sorriso, ornato da un bel baffo fluente, Corace chiese alla segretaria di non passargli telefonate per tutto il tempo che si sarebbe concesso ad un’amichevole conversazione.

  • Faccio politica da quasi sessant’anni. Ho cominciato ragazzo, avevo appena quindici anni. Sono nato in una famiglia che aveva seguito Saragat e mi ritrovai subito coinvolto, con molta passione, nei giovani del Psdi. Nella giovanile di allora c’erano compagni, che, poi, ho avuto modo di frequentare anche nel prosieguo della mia attività politica come Alberto La Volpe, Antonio Ciampaglia –fratello di Alberto- e Mario Carfagna, un ragazzo splendido, poi, passato col Pci.
  • Come e quando è avvenuto il tuo passaggio nel Psi?
  • Sono approdato nel Partito socialista con l’unificazione del 1966, quando avevo già ricoperto dei ruoli di responsabilità tra i giovani del Psdi. Avevo, infatti, una mia storia politica interessante all’Università, dove ero stato eletto vicepresidente dell’ORUN (Organismo Rappresentativo Universitario Napoletano), dopo essere stato promotore di una lista unitaria di sinistra, che andava dai liberali di sinistra ai cattolici, agli stessi socialisti e comunisti. Fu un’esperienza importante, perché, per la prima volta, si riuscì a organizzare assemblee su problemi riguardanti l’università, con la partecipazione di docenti, assistenti e studenti. Tra gli animatori di quella lista –che aveva l’ispiratore in Lino Iannuzzi- ricordo c’erano Memo Contestabile (poi diventato vicepresidente del Senato), Pasquale Nonno (giornalista e, da ultimo, direttore de Il Mattino), Mario Forte (uno degli ultimi sindaci democristiani di Napoli). Insomma, una frequentazione abbastanza significativa e, quindi, una grande palestra politica. Con questa compagnia era inevitabile che io assumessi, nel mio essere socialista, un grande spirito unitario. Il mio ideale era di vedere, già da allora, tutta la sinistra unita. E, in quei tempi, nel Psdi, avendo questa aspirazione, quasi ero considerato eretico. Ho sempre creduto all’unificazione socialista, anche precedentemente al 1966, e quando avvenne davvero mi riconobbi –da subito- nelle posizioni politiche di Francesco de Martino.
  • L’unificazione tra il Psi e il Psdi del 1966 fu, però, annullata dalla nuova scissione del 1969. Tu quale fronte scegliesti?
  • Io rimasi nel Psi e nella componente di De Martino.
  • Ricopristi incarichi nel partito socialista?
  • In quegli anni mi nominarono subito responsabile della commissione economica del partito, subentrando a Roberto Laviano, una splendida figura di socialista, che era andato alla vicepresidenza del Banco di Napoli. Quello fu, sicuramente, uno dei momenti migliori del partito sul piano della produzione culturale. Si stava preparando il nuovo P.R.G. di Napoli e il partito era frequentato da tecnici dello spessore di Luigi Piccinato e Lorenzo Pagliuca. Le discussioni sul P.R.G. servirono molto a far crescere, sul piano del prestigio culturale, l’intero partito in rapporto a tutto un mondo che fino a quel momento era egemonizzato solo dai comunisti.
  • C’erano, in quel momento di “restyling culturale”, anche dei gruppi esterni?
  • Era l’epoca del Circolo Pisacane -con tanti intellettuali capeggiati da Nino Pino-, che divenne per noi una sorta di mito.
  • Intanto, quali scenari si aprivano per te?
  • Io diventai coordinatore cittadino del partito, una carica che i mass media semplificarono in segretario cittadino. Mi impegnai per reimpostare una politica per la città. In quegli anni c’erano in consiglio comunale Silvano Labriola, Antonio Carpino, Luigi Buccico e Luigi Locoratolo, una compagine niente affatto male. Erano ancora gli anni del centro-sinistra nazionale vecchia maniera, cioè dell’alleanza Dc-Psi. E noi decretammo che, a Napoli, quella formula non reggeva più e preparammo l’intesa con i comunisti. Così, alle amministrative del 1975, pur senza essere premiati dall’elettorato, partecipammo a una campagna elettorale entusiasmante con i compagni comunisti e fummo tra i sostenitori della giunta minoritaria guidata da Maurizio Valenzi.
  • Il 1975 fu un anno cruciale per te.
  • Sì, perché contemporaneamente ci furono anche le elezioni regionali. Avendo il Psi candidato come capolista alla Regione il segretario della Federazione, Umberto Palmieri, io puntai a prenderne il posto. Il partito, però, decise di affidare la Federazione provinciale a Guido De Martino. Non digerii bene la decisione. Mi candidai, allora, al Comune, dove fui eletto insieme a Labriola, Carpino, Buccico e Giulio Di Donato. Mentre gli altri compagni assunsero la carica di assessori nella giunta minoritaria di sinistra, io restai nel Consiglio a ricoprire la carica di capogruppo. Furono due anni splendidi. Dico sempre che noi, allora, fummo capaci di colmare due vuoti: quello tra la città (isolata dalle vicende del colera e della cattiva gestione politica) e il resto del mondo e quello tra il Palazzo e la gente.
  • Finita l’esperienza amministrativa, che tu non hai più voluto ripetere, come continuò la tua vicenda all’interno del Psi?
  • Dopo il nuovo corso socialista, il Midas e il Congresso di Torino, dove io partecipai da demartiniano, il “professore” inopinatamente sciolse la sua corrente. Non credendo a quella sinistra del partito, che aveva assunto i caratteri di Signorile e Cicchitto –non più di Lombardi- mi ritrovai anch’io craxiano.
  • In seguito sei stato segretario di Federazione.
  • Beh, nei periodi di emergenza, lasciami questa punta di presunzione, mi hanno sempre chiamato. Ho diretto al Federazione in due periodi, nel 1983 e nel 1987. Poi, nel difficile periodo seguito a tangentopoli, quando scomparve tutto il gruppo dirigente socialista, bisognava preparare le liste al Comune per le elezioni del 1993 e Franco Iacono, nelle vesti di commissario del partito, non riusciva molto gradito agli altri partiti. Da Roma, allora, arrivò un altro commissario, che su indicazione dello stesso Iacono mi chiamò e mi chiese di collaborare alla stesura della lista. Fu una brutta tornata elettorale con una sconfitta clamorosa: il Psi passò da 16 consiglieri comunali a 1, che, ironia della sorte, l’anno successivo trasmigrò in Forza Italia.
  • Non puoi negare, però, che, nel drammatico momento che attraversava il partito, tu ti trovasti al posto giusto nel momento giusto.
  • Sì, è vero, perché scomparso il gruppo dirigente napoletano e sconfitto lo stesso Craxi, il nuovo segretario –Ottaviano del Turco- mi nominò, in previsione anche delle elezioni politiche del 1994, prima commissario della Federazione provinciale e, poi, anche di quella regionale del partito.
  • Cominciò una nuova vita?
  • Una nuova vita con la lista del Psi della rosa, poi, col Si con Enrico Boselli e, da ultimo, con lo Sdi.
  • Tra i compagni che ti hanno segnato, vuoi ricordare qualcuno in particolare?
  • Gaetano Arfé, che definire un maestro per tutti è poco. Personalmente credo di non aver perso nessuno dei suoi scritti politici sull’Avanti!, oltre che molti altri anche di natura storica. Egli offriva continui spunti di riflessione. Ricordo che ritagliavo quegli articoli e, poi, utilizzavo frasi, concetti; più che un maestro Arfé è stato una vera guida nella vita di tutti i giorni. Non che sposassi acriticamente tutto ciò che diceva Gaetano, del quale non condividevo, per esempio, il pessimismo sullo stato del partito e sulla sinistra stessa. Ma sottolineo che nelle sue riflessioni c’era una sostanza straordinaria, che farebbe bene a tutti quelli che oggi si avvicinano alla politica.
  • Qualche altro nome?
  • Francesco De Martino, col quale –io giovane- non ho avuto molti rapporti. Ne ho avuti di più dopo, negli ultimi anni. Era un uomo di grande fascino e di grande spessore politico. Nei suoi confronti si era sempre in soggezione. Il suo essere socialista autonomo rispetto a tutti, mi faceva intuire che i tempi cominciavano a essere maturi per una riflessione che superasse le divisioni tra comunisti e socialisti. Si era reso conto che di comunisti, di comunismo, nel partito comunista –con lo strappo di Berlinguer, la pratica quotidiana di governo che il Pci aveva negli enti locali e le posizioni nei confronti della politica nazionale, dove il partito non si pose mai come una reale alternativa- era rimasto ben poco ormai. Francesco si poneva, quindi, il problema di pensare a una grande forza che fosse il partito dei lavoratori, il partito unitario della sinistra, che se realizzato allora –e realizzato bene- avrebbe cambiato la storia del paese e l’avrebbe portato nell’alveo degli altri paesi europei. E, poi, non si sarebbe conservata quell’anomalia tutta italiana di un partito –il Pci- escluso da ogni possibilità di governo, perché tacciato di essere ancora di vecchio stampo comunista e di un partito socialista, che data la sua reale forza elettorale, non riusciva ad essere una credibile alternativa alla Dc e al suo conservatorismo. Da ultimo, nella sua casa al Vomero, ho avuto con De Martino incontri che mi hanno lasciato profondamente segnato. Egli aveva la grande capacità, a onta dell’età avanzata, di saper guardare sempre avanti, di interessarsi delle nuove generazioni; le sue erano riflessioni piene di preoccupazioni ma anche piene di fiducia.
  • E Pietro Lezzi?
  • Con lui ho avuto rapporti di collaborazione e di amicizia. In questi ultimi anni, quando in pochi abbiamo tentato faticosamente di mantenere la barra diritta, di tenere ancora un’aggregazione intorno al socialismo, lui è stato con noi; e per noi è stato preziosissimo. Pietro è una bandiera che si può sempre sventolare e, per questo, gliene siamo tutti infinitamente grati.
  • Qual è, oggi, il posto dei socialisti? Come ritrovarsi?
  • Il posto dei socialisti, senza ombra di equivoco, è a sinistra. Tutte le altre posizioni sono fuori della storia e dalla possibilità concreta di poter incidere per la rinascita di una forte componente socialista. Credo che, oggi, non ci siano più le condizioni per immaginare un partito socialista come lo fu il Psi (come non ci sono condizioni per ripensare a una Dc o a un Pci). Questi vecchi partiti hanno avuto un compito straordinari nel cambiamento della storia e della cultura del nostro paese, ma tangentopoli ha dimostrato che essi vivevano in un sistema ormai deteriorato e asfittico. Quei partiti andavano riformati in tempo, ma non ne ebbero la capacità e la conseguenza fu che sono stati travolti da uno tsunami incredibile. Oggi bisogna, nella consapevolezza dei valori e della cultura che esprimono, avere il coraggio e l’intelligenza di pensare a partiti nuovi, ad aggregazioni nuove. Di fronte a una destra, infatti, che si va consolidando attorno a valori liberisti (tradizionali di una destra di carattere europeo), si deve immaginare un’aggregazione di sinistra massiccia, unitaria, di natura riformista, che in sé sappia raccogliere le culture dei grandi partiti del Novecento, sfrondati dalle liturgie interne e dalle innumerevoli –quanto inutili- sovrastrutture.
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ArféDe Martinofausto coraceFederazione socialista di Napoli

Autore: Ciro Raia

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