Addio papà, ti voglio bene,
è tanto che te lo volevo dire:
non siamo stati granché insieme;
ma ho visto il mondo coi tuoi occhi
e l’ho chiamato col tuo nome;
addio papà, vado in un sogno,
ma il vero sogno è stato già vissuto
bruciando tutte le stazioni,
e alla stazione del saluto
avere ancora più canzoni.
(Stagioni nel sole, R. Vecchioni)
Oggi suo padre avrebbe compiuto cent’anni! Se fosse stato ancora in vita gli avrebbero preparato una bella festa. Anche se suo padre non amava molto le feste. Certo, avrebbe guardato la torta di compleanno con desiderio e ne avrebbe addentato una bella fetta. Gli piaceva dire, “tagliami una fetta di dorge”. Tutto ciò che sapeva di zucchero, uova e farina per lui era dorge. Sapeva benissimo che si diceva dolce ma amava ripetere “tagliami una fetta di dorge!”.
Suo padre era nato all’inizio del secolo scorso. Aveva un’altra mentalità, un’altra educazione. Aveva attraversato quasi un secolo di vita ma in punta di piedi. In fondo non c’era stato troppo bene in quel tempo del secolo di vita. Le novità, il progresso non lo entusiasmavano. Di fronte a manifestazione di modernità era solito ripetere, con molto sarcasmo, “che ha fatto la guerra! Figlieme Pascale con due mogli!”.
Non si lasciava ammaliare dal progresso nemmeno per le situazioni più personali, quelle che gli avrebbero potuto migliorare, per esempio, la qualità della vita. La prevenzione dalle malattie? E cos’era la prevenzione? Era stato sottoposto ad un elettrocardiogramma solo pochi anni prima che morisse ed era morto ad ottantasei anni. Ed ancora un anno prima della morte aveva subito, come una violenza, la prima ed unica visita alla prostata. L’urologo s’era meravigliato quando gli era stato detto che quel paziente di ottantacinque anni si sottoponeva (meglio, era stato costretto a sottoporsi), per la prima volta, ad un’esplorazione manuale della prostata. Suo padre, invece, guardando il medico, tra l’offeso e l’arrabbiato, aveva sibilato che non aveva mai avuto bisogno di una visita. L’urologo, al termine dell’esplorazione, mentre si sfilava il guanto, aveva detto che c’era una grossa massa e che, forse, sarebbe stato meglio richiedere una biopsia. Suo padre aveva fatto la sua espressione tipica, come a dire “questo è proprio scemo”; poi, aveva aggiunto “biopsia…non so nemmeno che significa questa parola e non mi interessa… Non mi faccio un bel niente. Nessuno ci può togliere i giorni che il Padreterno ci ha dato”.
Sì, suo padre era fatto così, tutto d’un pezzo. Aveva intimità solo con la moglie, la compagna della sua vita; si vergognava di mostrarsi in mutande anche di fronte a lei, Francesca, unica sua figlia. Era un maniaco della puntualità e mai sarebbe venuto meno ad una parola data.
Come tutti i giovani dell’epoca era stato chiamato alle armi; anzi, per la sua età, era stato richiamato e obbligato ad andare in guerra. La guerra, per lui, era guerra e basta; non sarebbe mai riuscito a capire le tante sfumature, che le si vogliono attribuire oggi. E lui le avrebbe rifiutato tutte, quelle insulse sfumature: guerra giusta, guerra umanitaria, guerra salvifica. Ma chi bisognava far ridere! La guerra era guerra: brutta, inutile, malvagia, feroce, assassina, fratricida, disumana, ingiusta.
Comunque, aveva dovuto rispondere alla cartolina precetto; destinazione: il fronte africano. Non aveva partecipato alle scene di giubilo, che c’erano state nella piazza del paese all’annuncio dell’entrata in guerra. Che giorno infausto quel 10 giugno 1940! Eppure, le coppole dei contadini, degli artigiani, insieme a qualche cappello da notabile e ai fez dei fascisti avevano toccato il cielo con festosa gioia. Suo padre, quel giorno, aveva pianto: non di paura (anche se legittima) ma di rabbia. Quel giorno aveva provocato in lui una frattura insanabile: cosa c’entrava lui con quella tessera fascista, che serbava nel suo portafoglio? E chi era veramente Mussolini, l’uomo nel quale aveva creduto o, meglio, era stato educato a credere fin dalla più tenera età? Era stato avanguardista, s’era crogiolato nella sua divisa nera. Ricordava ancora le adunate nella piazza del paese: erano piacevoli –quasi un gioco- e non facevano male a nessuno. Gli squadristi, allora, appartenevano a un altro mondo, lontano, forse, inesistente.
Poi, era stato costretto a partire per quella brutta, inutile, malvagia, feroce, assassina, fratricida, disumana, ingiusta guerra. Era stato fortunato: si era trovato in condizioni difficili e paurose ma si era sempre salvato, per fortuna, come diceva lui, “perché la Madonna mi voleva bene”. Anzi, alla Madonna di Castello si era votato e ne aveva chiesto la protezione proprio poco prima che il paese entrasse in guerra. Con un gruppo di suoi coetanei aveva passato una giornata in giro per le balze della montagna; poi, s’era fermato in quella sperduta cappella, tra le ginestre, e aveva trovato l’ardire di parlare con la Madonna a tu per tu. Aveva paura e con lui i suoi amici. Non voleva andare in guerra, non credeva nelle ragioni di quella scelta politica, non voleva lasciare la sua terra, le sue donne di casa, i suoi affetti. E, soprattutto, temeva di non tornare più. E allora aveva chiesto, come si fa nei momenti di grande debolezza, l’aiuto alla Madonna, le aveva promesso di tornare in pellegrinaggio, a scadenze fisse, e aveva sottoscritto un patto di fede, apponendo il suo nome dietro la statua di gesso.
In guerra non aveva mai sparato un colpo. E come avrebbe potuto sparare se gli tremavano le dita solo a sfiorare un’arma? Aveva visto, però, compagni cadere accanto a lui, sotto il fuoco nemico, sotto il fuoco amico, per rappresaglia, in imboscate, come bersagli al tiro a segno nella festa del santo patrono. Aveva sofferto la fame e la sete. Aveva sofferto la lontananza, la nostalgia, il rimpianto, la paura, il caldo, il freddo, i pidocchi, la puzza della morte. Era stato fatto prigioniero dagli Inglesi e si era chiesto come mai gli Inglesi fossero nemici. Perché per lui era impossibile che ci fossero nemici: tedeschi o francesi, russi o americani, polacchi o marocchini non comprendeva le ragioni dell’inimicizia! Aveva temuto di non far mai più ritorno nella sua terra, dalle sue donne –sua madre, le sue sorelle-, tra i suoi affetti. Ma alla fine ce l’aveva fatta. Era riuscito a tornare.
Il problema vero era stato il lavoro. Tutto il paese doveva ricostruirsi e non era semplice trovare occupazione. Lo tiravano per la giacca continuamente:
- Vai in parrocchia, vai a parlare con don Luigi. Loro c’hanno mani in pasta dappertutto.
- Vai al Comune, vai a parlare col sindaco e, ti raccomando, dici che hai votato democrazia cristiana.
- Vai dall’onorevole e ricordati di dirgli che hai votato la lista del Fronte Popolare.
Non era andato da nessuna parte: non aveva la faccia, non sapeva mentire. Era salito, qualche mese prima, sulla sezione del partito socialista e lì era rimasto. L’avevano portato alcuni suoi amici; gli avevano detto che quello era il partito degli operai; gli avevano detto che quello era il partito del Professore (il deputato del collegio); gli avevano detto che il maestro massone ed il figlio partigiano erano socialisti. E lui c’era andato e s’era trovato anche bene. Perché la sezione del partito era un luogo accogliente, era una sorta di piazza del paese: si discuteva, si mettevano in circuito i problemi personali, si educava a una coscienza pubblica collettiva, plurale, solidale.
Quando era venuto il compagno dalla federazione di Napoli a parlare delle scelte da fare in seguito alla scissione di Palazzo Barberini, suo padre era caduto in un’ansia spaventosa. Si macerava, si chiedeva continuamente perché quell’imperativo della scelta; si ripeteva che i socialisti erano tutti uguali; si consolava pensando che Nenni era un grande oratore ma anche Saragat. E non aveva scelto. Era rimasto nella sezione e non si era mai preoccupato di sapere se era una sezione di nenniani o di saragattiani. Alle pareti della sezione, in ogni caso, non era cambiato niente: continuavano ad esserci, come prima, i ritratti di Giacomo Matteotti, di Filippo Turati, di Carlo Marx insieme alle foto della nazionale di calcio di Vittorio Pozzi, campione del mondo del 1938, e di Gino Bartali, vincitore del Giro d’Italia del 1946.
In realtà, il sol dell’avvenire non era mai spuntato per lui. Sacrificio, coerenza, rispetto, devozione erano gli archetipi della sua giornata. Sacrificio significava che qualsiasi lavoro, anche il più umile e faticoso, era un dono per ogni uomo. Coerenza voleva dire che mai si doveva venir meno a una parola data, a un impegno preso, a un patto sottoscritto. Rispetto era il riconoscimento che si doveva a chi ne sapeva di più, a chi aveva un ruolo ed una responsabilità nella comunità, a chi rappresentava un modello; non a caso ripeteva, come una giaculatoria, “accompagnati a chi è meglio ‘e te e fagli ‘e spese”. E, quindi, la devozione diventava, di volta in volta, una sorta di lucida sottomissione a un credo, a un’idea, a un’immagine, a una persona, al destino o anche alla Madonna.
Suo padre non era mai stato un buon lettore. Aveva letto qualcosa su Calamity Jean e, poi, si era lasciato prendere, per caso, dalle pagine de “La cieca di Sorrento” e de “La sepolta viva” di Francesco Mastriani. Sapeva tutto di Beatrice Rionero e di Eva De Rossi; forse, aveva anche sognato di essere Giorgio Capecci, l’ufficiale garibaldino, che salva e sposa la sepolta viva. Un giorno, curiosando tra i libri di Francesca, sua figlia, aveva scoperto un titolo intrigante “Memorie di Adriano” della Yourcenar. Chissà perché aveva pensato che Adriano avesse potuto essere una sorta di Tom Mix, l’attore western di cui egli era stato un grande fan. Aveva, perciò, preso il libro e, cominciato a leggerlo, anche se con difficoltà, non se ne era staccato più. Lo aveva tenuto sempre sul suo comodino, fino alla fine, con la copertina ormai sgualcita e con delle pagine ingombre di appunti illeggibili. All’indomani della sua morte, la figlia aveva sfogliato quel libro, per ritrovare ancora l’odore -un misto tra fumo di sigarette Linda e dopobarba Aqua Velva Ice Blue– di suo padre. Vi aveva scoperto, con grande sorpresa, che alcune frasi erano sottolineate, evidenziate, quasi marcate ed erano tanto simili ad alcuni pensieri espressi da suo padre negli ultimi giorni di vita, che, prima sembravano vaneggiamenti e, in quei momenti, invece, avevano un preciso riferimento: “sono giunto a quell’età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata”; “la parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare la voce umana”; “aveva ragione Cesare a preferire d’essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma”; “ciascuno ha la sua china; ciascuno il suo fine, la sua ambizione, se si vuole, il gusto più segreto, l’ideale più aperto”; “la natura ci tradisce, la fortuna muta, un dio dall’alto guarda ogni cosa”; “cerchiamo d’entrare nella morte a occhi aperti”.
Suo padre era stata una persona normalissima, metodica, di una metodicità quasi irritante. Mai una sbavatura, mai una deviazione. Era capace di salire sul treno della circumvesuviana, anche più volte in una settimana, per andare a comprare un fior di latte d’Agerola dai fratelli Scarciello (perché l’avevano sempre fresco); di domenica, per ascoltare la messa, si recava al santuario della Madonna dell’Arco (una predica essenziale; non come quell’affamato di monsignore, che chiede sempre soldi); appena aveva un po’ di tempo correva, invece, a Ponticelli, da Andrea, il tabaccaio, che gli era stato compagno di lavoro nella vecchia fabbrica di Iacobucci (Andre’ ti ricordi quando andavamo in aperta campagna per provare i piattelli e, invece, ci mettevamo a trovare i funghi?).
Nella sua vita aveva avuto poche passioni. Una su tutte era stato il cinema. Era cresciuto a pane e pellicola: tutte quelle in bianco e nero e, poi, quelle in cinemascope; un’arena estiva e un vecchio locale che, come in ogni posto d’Italia, si chiamava “Impero” o “Splendor”. E, poi i film, “Processo alla città” e “Il bandito”, “Duello al sole” e “Un dollaro d’onore”; e gli attori John Wayne e Anna Magnani, Gregory Peck e Amedeo Nazzari.
Un’altra sua passione erano stati cani. Escluso il periodo in cui era stato in guerra, si era sempre lasciato accompagnare da qualche meticcio. Sin’anche nel periodo in cui era stato prigioniero degli Inglesi, a Manchester, aveva diviso il suo pane con un simpatico cane, che si era infilato sotto la rete del campo in cui era stato confinato. Da ultimo aveva avuto un altro meticcio, un incrocio tra un cane lupo ed un husky. Quando Vincenzino, il finanziere in pensione, gli aveva proposto di prendersi un cucciolo di quell’ultima nidiata, non se l’era fatto dire due volte. La mattina successiva, infatti, era andato a vedere la cucciolata mentre Vincenzino gli diceva: “scegli quello vuoi”. Tutti i cuccioli erano scappati dietro la madre; solo uno era rimasto fermo, quasi a sfidarlo; anzi, gli si era fatto incontro esibendo zampe ben tornite, uno sguardo da ladro d’affetto, una coda che non stava ferma un momento. Non aveva avuto dubbi, aveva subito detto: “prendo questo”. Non aveva avuto nemmeno dubbi a scegliergli un nome; l’avrebbe chiamato Eddy, perché quel cane gli aveva riportato alla mente i fotogrammi di Eddy lo svelto-Paul Newman del film “Lo spaccone”. Una volta a casa, però, Francesca, ancora inebriata di studi classici, gli aveva suggerito di chiamarlo Pirgopolinice, come il soldato vantone, lo spaccone, il miles gloriosus di Plauto. E lui, saggiamente, aveva detto che non gli sembrava un nome per cani. Però non la voleva far dispiacere. Ed, allora, aveva scelto di chiamarlo Pirgo, che gli sembrava un nome più adatto a un cane.
Suo padre era stato un gran lavoratore. Aveva avuto anche la tessera del sindacato ma non aveva mai messo in discussione le direttive del padrone, in fondo, bisognava essergli grato al padrone, perché ci metteva il capitale e, poi, il suo datore di lavoro era un vero signore, non meritava alcuna contestazione. Così aveva passato tutta la vita a subire o ad aspettare che qualcosa cambiasse per miracolo. Qualcosa che fosse azionato da qualcuno ma non sapeva bene da chi. Quell’eterna attesa l’aveva portato ad attendere anche la morte. Sua figlia, spesso, ricordava che, quando lui era costretto ad assentarsi da casa per molte ore –in occasione di una ricorrenza o di un invito a pranzo- aveva cura di portarsi appresso un pacchetto arrotolato in una carta di giornale. Di ritorno a casa, poi, quel misterioso involucro lo riponeva subito nella tasca interna di un vecchio vestito. Una volta Francesca, che aveva assistito più volte a quel teatrino, gli aveva chiesto:
- Ma cosa c’hai di tanto prezioso in questo rotolino?
- Ci sono trenta banconote da centomila lire l’una. Fanno tre milioni… Li ho messi a posto per il mio funerale… non voglio gravare sulle tue spalle, per una cosa che spetta solo a me!
E quando quella “cosa che gli spettava” stava per arrivare, gli avevano cercato di dire che sarebbe stato opportuno chiamare monsignore, che lo avrebbe confessato, lo avrebbe comunicato e gli avrebbe impartito il sacramento dell’estrema unzione.
Era stata, quest’ultima, l’unica occasione in cui suo padre aveva trovato la forza di opporsi e di chiedere perché mai si sarebbe dovuto affidare a quell’inutile farsa. Gli avevano risposto, con grande difficoltà, che era giunto il momento di chiedere perdono a Dio di tutti i peccati e di implorare la sua misericordia, per non essere costretto a subire le pene dell’inferno. Aveva semplicemente risposto che nella sua vita aveva sempre fatto del bene e che non credeva, comunque, in un Dio cattivo. Se Dio esisteva doveva essere per forza un Dio buono. E, fino alla fine, non aveva più aperto bocca.
Oggi suo padre avrebbe compiuto cent’anni! Se fosse stato ancora in vita gli avrebbero preparato una bella festa. Anche se suo padre non amava molto le feste.