Ho saputo della scomparsa di Francesco Guizzi solo poche ore fa. Se ne è andato sabato scorso. Il suo nome mi richiama alla mente la figura di uomo di classe, vestito con sobrietà e dal fisico minuto. È stato docente di Storia del Diritto Romano all’Università La Sapienza di Roma. È stato socialista da sempre, tesserato sin dal 1951e fino al 1991, anno in cui fu eletto giudice della Corte Costituzionale. È stato senatore, eletto nel 1987 nel collegio di Torre Annunziata, e presidente dell’organismo di garanzia del partito oltre che componente la Direzione. Viveva a Roma. Ogni tanto ci sentivamo a telefono. Ci incontrammo, l’ultima volta, a pochi giorni di un Natale di alcuni anni fa in un salottino riservato di un albergo partenopeo al Corso Vittorio Emanuele; causa il traffico prefestivo, arrivai a quell’appuntamento con un insolito (per me) ritardo. E lui mi aspettò per poter fare colazione insieme. Francesco Guizzi aveva un carattere aperto, la parola facile, un mare di ricordi legati ad anni lontani, a uomini “tutti di un pezzo”, ad una città e ad un tempo alla ricerca di una nuova identità. Quando ci salutammo mi fece dono di una sua pubblicazione, “Una stella fissa”, stampato per i tipi della vecchia casa editrice Guida; si componeva di tre piccoli scritti d’occasione –che riflettono la stessa temperie politica e culturale– dedicati alla memoria di tre figure storiche della Napoli del ‘900: Renato Caccioppoli, Vittorio De Caprariis e Giorgio Amendola.
- Il mio apprendistato politico è avvenuto a sedici anni, quando frequentavo la redazione napoletana dell’Unità, che aveva come responsabile un intellettuale elegante, serio e raffinato come Nino Sansone.
- Come mai, poi, ti sei ritrovato nel PSI?
- La storia familiare mi portò verso il PSI, dove c’era già un mio fratello, che scriveva anche sull’Avanti! Ricordo quegli anni della mia gioventù come un vero approccio alla cultura, seguiti al desolante isolamento del ventennio fascista. Napoli, allora, era un pullulare di iniziative e un mio punto di riferimento divenne Gaetano Arfé, brillante intellettuale, mio maestro sul piano dei diritti, riformista, con una coerenza di impegno senza pari. Ed oggi, purtroppo, concedimi questa divagazione, anche Gaetano vive il dramma di tutti quelli che hanno vissuto la diaspora socialista.
- A quando risale, invece, il tuo impegno personale.
- Ho militato nel movimento giovanile studentesco, dove sono stato eletto in una lista unitaria col PCI. Ho preso parte alla campagna elettorale del 1956, quando non fui candidato per un disguido anagrafico, e cominciai a partecipare ai primi comizi con Francesco De Martino e Vincenzo Balzamo. Si respirava un’altra aria, bella ed esaltante: il partito ti educava ad essere uomo, ti faceva vivere certi valori come una vera milizia civile. Dopo una fase molto attiva di partecipazione, ci fu, poi, un momento in cui il volontariato politico divenne episodico, dovendo io dedicare maggior tempo agli studi ed alla famiglia.
- Ritornando alla città del dopoguerra, cosa emerge dai tuoi ricordi?
- Ritengo che Napoli sia stata una città molto viva, negli anni del dopoguerra, stretta, però, in una dialettica molto evidente tra due gruppi: uno moderato, liberaldemocratico, l’altro di sinistra ma a prevalenza comunista.
- E il partito socialista come era strutturato?
- Quando sono entrato nel partito c’erano due anime e due schieramenti, che non si vedevano ma che esistevano. Un’anima seguiva l’obiettivo dell’autonomia, l’altra guardava con simpatia dalla parte del PCI. Posso dire che trovai il PSI come un partito che si andava organizzando ma che andava prendendo anche i vizi dei comunisti. Si viveva in un clima di continui sospetti, che, spesso, portavano a rapide ed infamanti colpevolizzazioni. Ricordo, a tal proposito, la persecuzione subita dal compagno Giuseppe Bucco, medico, libero docente di malattie infettive tropicali, tartassato dall’ingiusta accusa del PCI di essere stato una spia degli inglesi. Si viveva, in un certo senso, sotto tutela dei comunisti.
- Oltre Arfé ci sono stati altri compagni, che hanno avuto un ruolo significativo nella tua formazione politica?
- Nenni ammoniva di non fare mai elenchi, perché si rischia di dimenticare sempre qualcuno. Ci provo, comunque, cercando di non fare torto a nessuno. Un nome su tutti è quello di Antonio Lombardi, sicuramente il più grande compagno che abbia mai conosciuto per dedizione, saggezza, disinteresse, sacrifici, saldezza morale. Ricordo che, invitato dalla Direzione nazionale del partito a candidarsi come capolista alla Regione, ebbe la forza di rifiutare, ammonendo che il suo posto era nel sindacato. E, poi, come non pensare a Peppino Avolio, uomo di grande statura politica, giornalista, sindacalista, deputato al Parlamento, un vero “irregolare” del socialismo. E l’operaio pastaio di Torre Annunziata, Nicola Corretto, autentica guida per noi giovani, giunto sino al laticlavio senatoriale col PSIUP e poi tornato nel PSI?
- Ci saranno sicuramente altri nomi.
- Sì. Nino Gaeta, che era stato direttore dell’Avanti! a Napoli; l’avvocato Luigi Renato Sansone, un vero riformista, firmatario di un disegno di legge sul cosiddetto “piccolo divorzio” (per i coniugi degli ergastolani, dei malati di mente inguaribili e simili), uomo di una grande sensibilità umana e sociale. E, poi, Lelio Porzio, segretario del PSI all’epoca della storica svolta di Salerno, gran galantuomo, buon giornalista, sempre vicino alle posizioni politiche di Nenni. Altri due nomi che mi vengono in mente sono quelli di Pietro Lezzi e Luigi Locoratolo. Pietro ha avuto il grande merito di aver riorganizzato il partito a Napoli e, da parlamentare, di essere riuscito a salvaguardare l’immenso patrimonio delle Ville Vesuviane. Locoratolo, affettuosamente chiamato Gigino, era il focoso oratore, che trascinava i compagni all’entusiasmo, ma anche un amministratore attento, scrupoloso e stacanovista.
- Vuoi ritagliarti due medaglioni ancora?
- Sì, uno per Roberto Laviano e l’altro per Anna Pagliuca. Roberto aveva scelto di essere al servizio del partito, ed anche quando i tempi erano mutati continuò a sentirsi un “funzionario della rivoluzione”. Svanito, però, il sogno, si laureò, fece l’avvocato ed il partito lo portò alla guida del Banco di Napoli, dove ebbe solo amarezze. Ma dopo fu indicato come esempio in un’inchiesta giudiziaria; egli, infatti, benché tenuto sulla corda, ebbe sempre un comportamento lineare, tanto che, quando altri funzionari furono rinviati a giudizio, si diceva che “si sarebbero dovuti comportare come l’avvocato Laviano”. Anna Pagliuca, infine, ha avuto il grande merito di aver puntato a valorizzare le donne, in un momento in cui il loro ruolo ancora non era inserito, a pieno titolo, nella società e nella politica. E, poi, Anna, con la sua intelligenza e preparazione, era solita dare credito ai compagni, spingerli ad impegnarsi in ogni momento della propria giornata. Lo so bene io, che con lei ho lavorato ad alcune inchieste sull’Avanti!
- E De Martino?
- Non ha bisogno di entrare nel mio elenco. A parte la preparazione, lo spessore morale, l’impegno politico, egli è stato un esempio di umiltà: stava dove il partito lo destinava. Così, umilmente diventò segretario della federazione napoletana, cumulando l’incarico a quelli già ricoperti nella Direzione del partito, al Parlamento e all’Università.