Capita sempre più spesso che, alla fine di puntuali quanto sofisticate analisi sullo stato di salute della società napoletana e meridionale in genere, la scuola ne esca come l’unica istituzione, che – a seconda di come fa più comodo- è responsabile assoluta del male o della creazione del bello, è riferimento di ogni lassismo o speranza certa di cambiamento. Credo, però, che le cose non stiano esattamente così. Negli oltre quarant’anni di servizio (da docente, ricercatore e, negli ultimi dieci anni, da preside) ho assistito alla demolizione sistematica della scuola da parte della politica e della stessa società. Le famiglie, in percentuale altissima, hanno chiesto una scuola facile, senza gravosi impegni e senza sacrifici nello studio. Quando le famiglie, infatti, sono state chiamate per essere edotte sullo scarso o nullo profitto dei figli, in percentuale altissima hanno risposto che, in fondo, ai propri rampolli serviva solo un pezzo di carta, non certo una conoscenza acquisita e verificabile in matematica, latino o arte. E, poi, hanno aggiunto –sempre in percentuale altissima- che se la scuola di Stato aveva difficoltà a fornire quel (purtroppo!) necessario pezzo di carta, tanto valeva chiedere subito un salvifico nulla osta per un istituto privato!
La politica non è stata da meno. Dopo gli anni delle sperimentazioni, delle innovazioni didattiche, dei tentativi fatti per migliorare gli studi e definire un profilo di studente in uscita nella società del terzo millennio, i decisori del presente e del futuro – i politici- hanno mostrato tutta la loro incapacità insensibilità e mancanza di indirizzo di senso. La politica ed i politicanti si sono affaccendati nel rincorrere modelli educativo-didattici di matrice anglosassone, nell’imprimere uno stampino aziandalistico (quello che scarta i materiali di risulta) ad una comunità formata da persone con sentimenti e problemi propri. Fino ad arrivare al bluff della Buona scuola, che contrabbanda alcune regole (discutibilissime) della governance come una riforma epocale! Non è possibile, non se ne può più! Se le cosiddette riforme scolastiche –quelle che si sono succedute negli ultimi venti anni ad opera dei vari responsabili pro tempore del dicastero dell’Istruzione (privo dell’aggettivo pubblico)- avessero dato minimi risultati, oggi, non si dovrebbero invocare ancora scuole al centro di tutto, politiche per l’infanzia ed eserciti di maestri e professori. Perché anche gli eserciti dei maestri e professori, oltre ai difetti di una scuola ormai resa leggera al massimo, hanno un peccato originale, che nessun battesimo può emendare. Fin quando esisterà –oltre ai tanti diplomifici privati- lo statuto della raccomandazione (politica, sindacale, parrocchiale, amicale, camorristica), molti asini continueranno a volare. In tutti campi e in tutte le professioni.
Gaetano Arfé ricordava sempre che Federico Chabod, a proposito delle baronie accademiche (ma è un concetto estensibile ad ogni categoria professionale) sosteneva che non era scandaloso “che nella terna dei vincitori di concorso figurassero studiosi di cui era previsto il successo, ma che vi entrassero personaggi, che nessuno nel mondo scientifico aveva mai sentito nominare”. La scuola deve essere fatta da legioni votate al sacrificio, non importa il posto occupato, con hastati, principes o triarii.
Lucio Magri, nel 2000, aveva scritto un interessante e bel saggio sulla scuola, intitolandolo “La madre di tutte le riforme” (La rivista del Manifesto, aprile 2000). La riflessione, avviata da una delle intelligenze più critiche e vivaci (e, perciò, eretica) degli ultimi anni, era tesa a sostenere che la trasformazione della scuola di massa –nel mentre si attraversava un periodo di profondissima crisi sociale, culturale, politica, economica (niente di nuovo sotto il sole!)- dovesse essere alla base di tutte le riforme. Ragionando, infatti, sulla necessità di una scuola adeguata ai bisogni dei tempi, Magri enunciava alcune idee alternative, che, volendo costituire una piattaforma di intenti da condividere, dovevano passare per forza attraverso due o tre processi innovativi quali 1)la formazione permanente, 2)l’autonomia delle scuole, 3)la costruzione di nuovi assi formativi.
Per sconfiggere, infatti, la pratica usuale di affidare l’acquisizione delle nuove conoscenze (il presente e il futuro) o il rafforzamento delle pregresse (il passato, la memoria) unicamente alla televisione, nel saggio citato si invocava una nuova idea di scuola e della sua funzione, “rivolta alla effettiva promozione sociale e a fare di tutti realmente degli intellettuali”. Laddove l’intellettualità non era sinonimo della traduzione di un requisito culturale elitario ma, semplicemente, la capacità di saper affrontare i problemi complessi con le armi fornite da una generale crescita culturale e professionale.
La nuova finalità educativa richiedeva, innanzitutto, che lo spazio dell’elaborazione dei “significati” non fosse calato dall’alto ma potesse vivere di una sua indipendenza. Era, in altre parole, l’esigenza di un’autonomia didattica, in grado di creare una cooperazione competitiva dei saperi con metodi e progetti culturali di ampio spessore. Posizione intrigante e per niente utopistica, opposta ad ogni tentativo di logica aziendale.
Così, la scuola di massa non era (e non poteva essere, visto lo spessore culturale e politico dei suoi ideatori) quella che, poi, è diventata l’incolpevole responsabile di tutti i mali e di tutti gli insuccessi sociali, culturali e politici contemporanei! Poi, a meglio definire l’idea significativa e profondamente innovativa di alternatività –non solo nella differenza tra scuola pubblica e scuola privata ma, soprattutto, tra scuola pubblica e scuola statale- “la madre di tutte le riforme” doveva garantire una scuola di massa dura, difficile, che non indulgesse a perseverare negli aspetti ludici o ad esaltarsi unicamente per percorsi di creatività, di socializzazione o di scontata scolarizzazione. E, per fronteggiare i denigratori arroccati nelle cittadelle oltranziste –per fede o per appartenenza- del Dio, Patria e Famiglia o dell’ideologia dei Buoni Sentimenti o del Mercato del Consumismo, doveva garantire un rinforzo a una visione gramsciana di una scuola che “doveva far capire la –e abituare alla- fatica (perfino muscolare) del lavoro intellettuale”.
Seguire il suggerimento (che resta anche un’ultima spiaggia) di una scuola “faticosa”, forse, potrebbe dare buoni risultati. E, forse, metterebbe fine anche ai tempi degli spot.