Confesso che ho sempre provato un piacere immenso ogni volta che ero impegnato –per un direttivo o per qualche incontro con la “mia classe” di storia- in quelle sale di via Sant’Aniello a Caponapoli, sede, per molti anni, dell’Auser Campania e dell’Ulten. Lì, a una scrivania sedeva Nino Pino, a un’altra -di fronte- Mario Melluso. Io mi sedevo al centro, tra i due, e mi lasciavo avvolgere dal fascino dei loro ragionamenti, dalla sintassi dei loro pensieri, dalla forza e dalla passione politica che ne trasudava. Nino rincorreva le parole, guardando al di sopra delle lenti da presbite; Mario, invece, le sue parole quasi le nascondeva tra le volute di fumo delle sue innumerevoli Marlboro.
Un giorno, poi, di dieci anni fa, Nino ci lasciò. Inizialmente mi fu difficile tornare con piacere agli incontri nella sede di via Sant’Aniello a Caponapoli. Inconsciamente, forse, fu proprio Mario Melluso a ridarmi la spinta per tornare in quelle sale poste al terzo piano di uno stabile nella parte alta dell’antica Neapolis.
Con Mario, che era intanto diventato Presidente dell’Auser regionale, mi incontravo, quasi tutti i giorni, in via Santa Maria di Costantinopoli. Verso le 7,30 eravamo, infatti, entrambi lì per il nostro lavoro: lui per l’Auser, io per l’Irrsae Campania. Lo salutavo con un “ecco il nostro Cofferati”, per quella sua somiglianza –a mio modo di vedere- con il “cinese” e per la sua pratica sindacale. Mario mi sorrideva con la sua figura leggermente curva, con la sua chioma fluente e brizzolata, con la sua borsa da lavoro penzolante da una mano mentre nell’altra stringeva l’immancabile Marlboro. Andavamo a prendere il caffè al “Bar degli Artisti”, scambiavamo qualche battuta con Amedeo – il proprietario del bar-, compravamo “La Repubblica” da Titina –l’edicolante di Port’Alba- e poi ci avviavamo verso le nostre rispettive sedi di lavoro, incontrando, lungo il percorso, l’editore Mario Guida, il farmacista, il libraio e il parcheggiatore abusivo di via Costantinopoli. Sapendo di fargli cosa gradita, salutavo Mario dicendogli “che bella cravatta hai stamattina!”. Mi sorrideva, mi stringeva la mano e mi augurava “Buona giornata, prufesso’ ”.
Mario era dotato di grande umanità, umiltà e sensibilità. Per certi aspetti, sembrava quasi un francescano. Stakanovista instancabile, paziente costruttore di una rete di rapporti, Mario era disponibile ad affrontare ogni situazione con disponibilità, abnegazione, competenza. E se quelle situazioni si risolvevano positivamente, era possibile, allora, cogliere un breve guizzo di soddisfazione nei suoi occhi attenti, profondi, capaci di leggere molto oltre le apparenze.
Nella vita di ciascuno di noi ci sono dei ricordi incancellabili, che costituiscono la testimonianza di un’amicizia sincera, di un affetto profondo, di una stima incondizionata. Ricordo una foto con un Mario sorridente e soddisfatto in una qualche manifestazione del “suo” terzo settore; era su un palco (doveva essere Piazza del Gesù, a Napoli) davanti a un popolo di bandiere rosse, grondante solidarietà e partecipazione. Ricordo la sua signorilità, la sua puntualità nel rispetto degli orari e degli impegni di lavoro, la sua competenza nell’affrontare percorsi, talvolta ostici, nella gestione della sua giornata di lavoro. Ricordo, infine, una serata di una decina d’anni fa: eravamo, insieme a molti altri amici (Maria Guidotti, Ettore Combattente, Federico D’Ippolito, Ciccio Cormino), riuniti nel salone dell’Istituto Italiano di Studi Filosofici a ricordare la figura e l’opera di Nino Pino. Eravamo, da organizzatori dell’evento, entrambi preoccupati. Avevo le mani sudate, la lingua allappata; lui, forse, era nelle mie stesse condizioni, però ebbe la prontezza e la calma per dirmi “non ti preoccupare, andrà tutto bene!”. Anche in quell’occasione aveva dimostrato di essere una buona guida, un capo paziente e introspettivo.
L’ultima volta che ho visto Mario è stato il pomeriggio di domenica 16 gennaio scorso. Ci incontrammo, con le rispettive consorti, all’ingresso del teatro “Diana”. Non ci vedevamo da qualche mese; ci chiedemmo reciprocamente del lavoro e della salute; mi parlò del suo pendolarismo tra Napoli e Roma; scambiamo alcune considerazioni sul triste quadro politico italiano, fino a quando disse, con la sua voce sinuosa:”Prufesso’, consentimi che prima dell’inizio dello spettacolo mi fumi un’altra sigaretta ”. “Per forza”, gli risposi con aria caricaturale, “come puoi stare, per un’ora, senza le tue Marlboro?”.
Quando, in un infausto martedì sera di marzo, arrivò quella telefonata da Maria Passalacqua, mi sembrò impossibile che potesse essere vero ciò che Maria, con emozione e commozione, cercava di comunicarmi. Riuscii solo a dirle “fammi sapere tutto e presto”.
Fu lungo quel pomeriggio davanti alla Chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini, al Vomero! Fu lungo e ventoso, come solitamente sono i pomeriggi di inizio primavera. Il vento aveva crocchiato tutti quelli che aspettavano di salutare, per l’ultima volta, un vecchio, sincero e generoso amico. Quando comparve il carro funebre, non fu il vento a far lacrimare gli occhi. Fu il dolore, represso fino a quel momento, per la perdita di una persona cara e per certi versi eccezionale. E non è retorica.
Ciao, Mario. Ti voglio bene.