Il 23 giugno 2009 venne a mancare, a Napoli, alla soglia dei cento anni, Maurizio Valenzi: era nato a Tunisi, il 16 novembre del 1909. Della città partenopea – dove era arrivato, proveniente dall’antica colonia fenicia dell’Africa settentrionale, il 21 gennaio 1944- Valenzi è stato amatissimo ed indimenticabile sindaco di una stagione di speranza, durata dal 1975 al 1983. Precedentemente, in rappresentanza del Pci, aveva ricoperto anche le cariche di capogruppo in consiglio comunale, consigliere provinciale e Senatore della Repubblica.
Rovistando tra i miei ricordi giovanili, ho sempre associato il nome di Valenzi alla nascita di mia figlia, avvenuta nel mese di giugno del 1975. Nella città di Napoli, in quel fatidico mese di quarant’anni fa, sembrava che, con la vittoria alle amministrative dei partiti della sinistra -che avrebbe portato, per la prima volta, all’elezione di un sindaco comunista a capo di una giunta (minoritaria) Pci-Psi- si aprisse un nuovo capitolo di storia cittadina. Il mio entusiasmo di radici socialiste era inferiore solo a quello suscitato dal dono della paternità. Anche la stessa Napoli pareva rigenerata da una nuova passione civile, listata subito a lutto, però, per la morte della giovane Jolanda Palladino, vittima innocente, caduta in seguito ai tumulti provocati dai fascisti della sezione “Berta” di via Foria.
Personalmente ho conosciuto Valenzi nel lontano 1983. Collaboravo, allora, con la redazione napoletana di “Paese Sera”, il quotidiano che aveva organizzato, insieme all’Amministrazione Comunale di Napoli, il concorso per le scuole della città e della provincia “Caro Anno…1983”. Facevo parte del gruppo che coordinava le attività del concorso ed in un paio di occasioni, insieme ad altri amici di “Paese Sera”, avevo incontrato il sindaco Valenzi. Poi, l’11 aprile di quello stesso anno, il sindaco aveva accompagnato Nanni Loy al cinema “Metropolitan”, dove un migliaio di scolari erano lì per assistere alla proiezione del film “Le Quattro Giornate di Napoli”. Sindaco e regista erano seduti in prima fila: il primo fasciato in un elegante abito gessato e con un sigaro spento tra le dita, il secondo vestito in tenuta casual con gli occhialini da presbite infilati nelle asole della camicia. A fine proiezione entrambi, tra il tripudio dei ragazzi, avevano preso la parola; Loy aveva raccontato le “Quattro Giornate di Napoli” così come erano state vissute sul set; Valenzi, invece, era partito da quella sommossa di popolo di fine settembre 1943, per parlare, con semplicità e passione, di Antifascismo, Resistenza, Democrazia e Costituzione.
Nel 1996, poi, quando da qualche anno avevo l’onore di reggere l’assessorato alla Cultura del mio comune di nascita e residenza, Somma Vesuviana, Valenzi aveva da poco dato alle stampe “C’è Togliatti ” (Sellerio, 1995). Ne avevo approfittato subito per chiedergli di presentare il libro nel centro vesuviano, al Casamale, nell’antico borgo, in occasione della festa della Repubblica del 2 giugno. Valenzi, che esibiva splendidamente i suoi 87 anni, aveva accettato con entusiasmo l’invito e con Luigi Parente, professore di storia contemporanea all’Istituto Orientale di Napoli, aveva animato un incontro bello ed interessante. Lo avevano accolto i vecchi compagni comunisti e tanti cittadini incuriositi dalla presenza dell’ex sindaco del capoluogo partenopeo. Tra le volute di fumo dell’inseparabile sigaro, Maurizio aveva raccontato dell’arrivo a Napoli di Palmiro Togliatti -il compagno Ercoli proveniente da Mosca- il 27 marzo 1944, della permanenza del leader comunista nell’appartamento di via Broggia n. 11, del suo discorso tenuto al cinema “Modernissimo” –davanti ad una affollatissima platea, tra cui si notavano Benedetto Croce, Carlo Sforza, Vincenzo Arangio-Ruiz, Luigi Cacciatore, Giulio Rodinò- in preparazione di quel governo di unità nazionale a guida Pietro Badoglio (22 aprile-8 giugno 1944 ), passato alla storia come “la svolta di Salerno”.
Quella mattina di giugno c’era una insolita aria frizzantina, ma il sole batteva forte. La gente aveva resistito ai raggi solari e si era appassionata ai ricordi di Valenzi, alle sue considerazioni politiche, ai raffronti col presente. Al congedo, gli avevo chiesto di autografare la mia copia di “C’è Togliatti”; firmò, aggiungendo: “con fervida fraternità ed un grazie per questa bella mattinata in onore della Repubblica”.
Nel 2004, nel corso della preparazione di una mia ricerca “Socialisti a Napoli, il dopoguerra tra storia e memoria” (Libreria Dante & Descartes, Napoli, 2006), avevo telefonato di nuovo a Maurizio Valenzi, chiedendogli una testimonianza. Ci incontrammo il pomeriggio stesso della telefonata, un caldissimo 30 giugno (ed ancora in luglio, in agosto ed ottobre). Mi recai nella sua abitazione aperta sul golfo di Napoli, in via Manzoni. Mi accolse con amicizia e disponibilità, un vero galantuomo della politica nazionale e napoletana, ultranovantenne e quasi cieco, ma lucido nel pensiero, meticoloso nelle ricostruzioni, appassionato nelle parole. Accanto a Maurizio, sprofondato sul divano, era seduta sua moglie Litza Cittanova (scomparsa nel luglio del 2006, a 89 anni), che assisteva silenziosa alle nostre conversazioni, dando un suo personale contributo solo per sorreggere qualche ricordo un po’ annebbiato del marito. Litza, in verità, si era sciolta completamente solo quando si era accennato all’organizzazione delle colonie per i bambini napoletani in Romagna e all’episodio dell’assalto subìto dalla Federazione comunista, dopo i risultati del referendum istituzionale del 1946. Aveva richiamato, infatti, alla mente quei giorni e raccontato di quando era rimasta rinserrata al terzo piano del palazzo in via Medina, sede della Federazione, mentre, fuori, uno stuolo di monarchici rumoreggiava in armi.
- Maurizio, quali immagini sopravvivono di quel lontano 26 gennaio 1944, quando dalla Tunisia arrivasti a Napoli?
- Del mio arrivo nella città ricordo le folle che correvano, dalla mattina alla sera, alla ricerca di un pezzo di pane o di un lavoro. Molte navi, a seguito dei bombardamenti, erano colate a picco nel porto, sembravano delle frecce conficcate nel mare. Il Vesuvio, che aveva da poco eruttato, copriva la città di cenere, che da lontano sembrava neve e faceva il paio, sulle persone, con le dosi di Ddt con le quali gli americani cercavano di debellare le torme di parassiti. Togliatti, ricordo, ne rimase sconvolto e ne parlò, in seguito, in diverse occasioni. In quel periodo il comando della città era affidato al colonnello Charles Poletti. I presìdi sanitari abbondavano e davano lavoro a molte persone; nei bassi era stipato di tutto, anche le bare.
- Una volta giunto a Napoli cosa hai fatto?
- Ho cominciato a lavorare nel partito, perché in città mancavano i quadri esperti.
- Un altro ricordo incancellabile è quello dell’11 giugno 1946, quando lo spoglio delle schede del referendum istituzionale assegnò la vittoria alla Repubblica. I monarchici si ribellarono, poiché considerarono i risultati un tradimento, frutto di un’operazione falsata dal ministro degli Interni, Romita, con la complicità – secondo loro- dei comunisti. I monarchici napoletani, allora, inscenarono una manifestazione di massa e tentarono di occupare la Federazione del Pci. Chiedevano con veemenza che fossero deposte la bandiera tricolore e quella rossa sventolanti sopra il palazzo.
- Sì. I monarchici dalle minacce passarono ai fatti e cominciarono a sparare. I compagni comunisti, asserragliati al terzo piano, tentarono di difendersi, compresa mia moglie Litza (insieme a Luciana Viviani e Maria Antonietta Macciocchi), che quel giorno era in Federazione. Io, invece, ero con Giorgio Amendola, in Prefettura, dove si stava svolgendo una cerimonia di saluto per lo scioglimento del governo di Liberazione. Quando arrivò la notizia che stavano tentando di bruciare il portone della Federazione, ci chiedemmo cosa fare e, mentre Cacciapuoti[1] organizzava la scorta per Mario Palermo[2] –il compagno politicamente più in vista-, con la macchina di Amendola corremmo alla volta del palazzo assediato in via Medina. Ben presto fummo fermati da scalmanati, alcuni anche armati di bastoni e, forse, qualcuno di rivoltella. Scappammo di nuovo verso la Prefettura e, caricato a bordo anche il Prefetto Ventura, riuscimmo ad arrivare alla sede della Questura, proprio accanto alla Federazione. Ci furono violenti scontri, che si conclusero con 7 morti e 63 feriti.
- Quanto ha contato la nascita a Napoli del “Gruppo Gramsci”?
- No, il “Gruppo Gramsci” non fu una cosa che ha contato realmente nella vita politica italiana e napoletana. Forse, ha contato all’interno del Pci, visto che quei giovani fecero la critica a Togliatti. Essi erano dei compagni molto intelligenti e preparati, ma non dal punto di vista politico. Non capirono, infatti, che era necessario trovare le vie delle alleanze e tutti quelli che ostacolavano tale disegno non lavoravano per la reale ricostruzione del paese. Devo, però, ammettere che fu un peccato per il Pci non riuscire a recuperare gente come Piegari[3].
- Nell’immediato dopoguerra c’è stata un’intesa politica con rappresentanti del partito socialista?
- Fra le persone del movimento democratico cittadino risaltava la figura di Francesco De Martino, che sapevamo essere ormai esitante nella permanenza nel PdA ed in qualche modo in rapporto con Saragat. Allora, Amendola chiese a Palermo ed a me di contattare Francesco e cercare di convincerlo a spostare le forze socialiste verso un solo movimento. L’idea di fondo era quella di non perdere il legame con le persone ancora indecise, che potevano diventare parte della base comunista e consentire al partito di conquistare parti più forti e rappresentative del ceto medio. Ci sembrava un momento favorevole, ma ci sbagliavamo, tanto che fummo, poi, battuti alle elezioni del A Napoli c’era un gruppo di socialisti fatto di persone perbene e colte, ma legate a vecchie e superate esperienze politiche. Serviva, secondo noi, un ariete, una personalità in grado di accorciare le distanze tra i partiti della sinistra e questo poteva essere sicuramente De Martino. Che, poi, divenne –a ragione di quanto aveva intuito Amendola- un dirigente socialista di grande spessore.
- Altre figure di socialisti napoletani?
- Nino Gaeta[4] fu un socialista importante di cui si parla sempre molto poco. Egli svolse una parte importante dal punto di vista storico e da quello dell’orientamento politico del partito. Importanti furono anche Renato Sansone[5] e Lelio Porzio[6], che erano favorevoli ad alleanze con i comunisti. Un vero signore, poi, prodigo e disponibile, era il medico Gabriele Jannelli[7]. Ricordo che in occasione di un viaggio a Varsavia, da parte di una delegazione del Movimento per la Pace, mi recai da lui per dirgli che avevo bisogno di soldi per organizzare la spedizione. Mi chiese la cifra che serviva. Risposi che necessitavano 20.000 lire. Mi firmò subito uno cheque e mi augurò un tranquillo viaggio.
- Qualche socialista più giovane?
- Pietro Lezzi; l’ho incontrato dopo De Martino e, fra i socialisti, è quello che ho conosciuto meglio. Ancora oggi ho con lui rapporti estremamente amichevoli e fraterni. Pietro faceva parte della giunta d’intesa Pci-Psi (uno strumento del patto di unità d’azione), di cui io ero presidente e lui vice. Forse, col senno di poi, noi comunisti commettemmo la leggerezza di costringere i socialisti ad una unità, come dire, molto fraterna, che indebolì sicuramente il movimento della sinistra.
- E fra i socialisti non napoletani, chi ti ha segnato nel ricordo?
- Pietro Nenni, che ho conosciuto a Parigi, nel 1937, insieme alla figlia Giuliana e a Giuseppe Di Vittorio. Ma ricordo anche Rodolfo Morandi, persona stimabile ed aperta a costruire una collaborazione con noi comunisti. E come non ricordare Riccardo Lombardi? Un personaggio molto interessante, da un modo affascinante di discutere, polemizzare e presentare opinioni che si rivelavano, poi, molto convincenti.
- E Sandro Pertini l’hai conosciuto?
- Pertini, indimenticabile, l’ho conosciuto per la prima volta ad un congresso socialista, tenuto a Napoli, a Pizzofalcone. Io andai con Velio Spano, per portare il saluto del Pci; all’entrata ci incontrammo con Pertini e cominciò una discussione che per poco non finì a cazzotti. Perché Spano era abbastanza aggressivo e Pertini nemmeno scherzava. Poi, Sandro è tornato a Napoli, quando io ero sindaco, da Presidente della Repubblica, nei giorni seguenti al terremoto dell’80. Fu affettuosissimo; lo accompagnai in giro per la città ferita. Quindi, volle andare a testimoniare la sua solidarietà nei luoghi più colpiti dal sisma. Ricordo che, al ritorno, in Prefettura riunì tutti i politici –ministri e sottosegretari- che frattanto si erano aggiunti al seguito e, con veemenza, li affrontò, dicendo loro: “Vergognatevi! Che uomini e dirigenti siete? C’è gente che sta morendo di fame e voi non siete capaci di portare nemmeno un pezzo di pane!”.
- Sindaco a Napoli, un’esperienza bella ed onerosa…
- Sì, certo. Sin dalla nascita una bella esperienza. Nel 1975, a 58 anni, tutti quelli che sentivano di poter essere candidati in pectore dicevano che avevo ricoperto già troppi incarichi ed ero troppo anziano per una carica così importante. Ci fu battaglia nel partito. Poi, una volta sindaco, si presentò la città con tutti i suoi drammatici ed antichi problemi: banche che non prestavano più soldi ad un comune con un deficit di oltre 1600 miliardi di lire, crisi degli alloggi, disoccupazione operaia e salari bassi, organizzazione comunale smembrata ed ancora ispirata ad un modello laurino…Pensa che sotto Palazzo San Giacomo c’era come una sorta di mercato. Ricordo, a tal proposito, che una mattina dovetti far allontanare una prosperosa popolana seduta proprio davanti all’ufficio di un assessore: era un’usuraia che prestava soldi e teneva banco nel comune!
- E come hai fatto per cambiare indirizzo?
- Ho fatto il burbero benefico. C’erano anche molte persone perbene, però, che dettero una mano per una svolta significativa. Ed alla mia Giunta ripetevo sempre: “Ci vuole un comune sano per governare una città malata”.
Sono stato sempre affascinato dalla grande passione politica e civile di Maurizio Valenzi, così come dalla sua eccezionale tempra di combattente antifascista, mai venuta meno né col carcere né con gli stenti e le sevizie. Del periodo in cui l’ho frequentato più da vicino, fra i tanti miei ricordi, ne emerge uno –in particolare- legato anche alla sua profonda umanità. Nell’ottobre del 2004 Maurizio contava già 95 anni, accompagnati da inevitabili e seri problemi di salute. Ci saremmo dovuti incontrare un venerdì 15, per proseguire le nostre conversazioni. Quel venerdì 15 ottobre, però, venne a mancare mia madre ed io, naturalmente, non mi presentai all’appuntamento né fui tempestivo nell’avvertire Valenzi o qualche suo familiare per quell’improvvisa assenza. Il lunedì successivo, di prima mattina, ricevetti una telefonata da Maurizio: “Perché non sei venuto?…Coma sta tua madre?…Oh Signore, l’avevo immaginato. Mi dispiace davvero tanto! ”.
Da allora, con Valenzi c’era stata solo qualche telefonata insieme ad un affettuoso saluto a fine settembre 2005, all’Istituto Campano di Storia della Resistenza, quando, in occasione del sessantatreesimo anniversario delle “Quattro Giornate”, un affanno insistente non gli aveva consentito di accedere al salone delle conferenze. Nel luglio del 2007, infine, gli avevo inviato un biglietto di condoglianze, in occasione della morte della moglie Litza. Dopo pochi giorni, mi aveva scritto. “ti sono grato per la tua testimonianza al mio dolore”. Poi, il silenzio. Ma non quello dei buoni sentimenti nei confronti di un uomo ed un compagno (parola, purtroppo, in disuso!) onesto, coerente, combattivo e antifascista.
[1] Salvatore Cacciapuoti, segretario della Federazione comunista napoletana.
[2] Mario Palermo (1898-1965), consigliere comunale, a Napoli, sin dalle prime elezioni amministrative del 1946, senatore della Repubblica dal 1948 al 1968. Fu sottosegretario alla Guerra nel governo Badoglio.
[3] Guido Piegari, fondatore del “Gruppo Gramsci”.
[4] Nino Gaeta, avvocato, si adoperò per la ricostruzione del partito socialista a Napoli, nel dopoguerra. Fu membro del CLN e direttore dell’Avanti!
[5] Luigi Renato Sansone, avvocato, dalla fine del 1943 fu Alto commissario all’alimentazione, membro del direzione nazionale del partito socialista. Fu eletto alla Costituente, alla Camera ed al Senato.
[6] Lelio Porzio, avvocato, alla fine del 1943 fu eletto segretario nazionale del Partito socialista.
[7] Gabriele Jannelli, chirurgo di fama internazionale, senatore della Repubblica per il partito socialista.