Si era appena entrati nei primi anni settanta del secolo scorso, nemmeno, poi, tanto tempo fa; in giro c’era tanta tensione civile e politica. Il ’68 ancora non s’era esaurito, anzi, viveva la sua stagione migliore; sembrava che il proposito rivoluzionario ed utopistico di una società antiautoritaria ed antigerarchica stesse per realizzarsi, specie nel microcosmo della scuola. E, poi, le riforme del primo centro-sinistra sapevano di nuovo e mettevano addosso la consapevolezza di poter convivere con rinnovati valori ed ideali.
A quei tempi stavo per lasciare l’università; il raggiungimento della laurea in lettere rappresentava un traguardo ambìto. Cominciavo appena ad interessarmi dei problemi della scuola, della partecipazione democratica dei genitori, della nascita degli organi collegiali. Una sera, ad una riunione sui problemi della scuola promossa dalla segreteria della sezione socialista del mio paese –Somma Vesuviana-, fu annunciata la partecipazione di un compagno particolarmente erudito in materia. Ci andai. Il compagno, che veniva da Napoli a parlare delle imminenti elezioni degli organi collegiali era il preside Nino Pino. Di vista già lo conoscevo. Lo avevo incontrato più volte alle manifestazioni che si tenevano, annualmente, in occasioni delle festività del 25 aprile e del 1° maggio. Che nostalgia! Cortei interminabili di lavoratori, bandiere rosse del Pci e del Psi (quelle ancora con falce e martello), la diffusione dell’Unità e dell’Avanti!, le richieste di abbonamento a Rinascita e a Mondoperaio, i compagni (allora così si chiamavano) che avanzavano lungo il Rettifilo sulle note di Bandiera rossa e dell’Internazionale, i responsabili nazionali di partito che, ciascuno sottobraccio all’altro, erano alla testa del corteo. Non ricordo con precisione in quali anni, ma sicuramente conservo negli occhi le sagome inconfondibili di Francesco De Martino, Giorgio Napolitano, Maurizio Valenzi, Pietro Lezzi, Egizio Sandomenico, Gigetto Buccico, Peppino Avolio, Gerardo Chiaromonte, Pasquale Buondonno. Di solito, poi, in piazza della Borsa, all’altezza di via Marchese Campodisola, si aggiungevano i componenti il direttivo della Federazione napoletena socialista. Era allora che scorgevo Nino, il suo volto, incorniciato dalla barba, aveva le sembianze di un dio greco. Fumava la pipa alternandola alle Gauloises; ogni tanto il fluire delle sue parole era intaccato dalla tosse da fumatore; aveva l’occhio che ti penetrava sin nei più remoti pensieri; emanava il fascino particolare e prorompente della sua dialettica e della sua cultura. Se non fosse stato un uomo di scuola, sarebbe stato sicuramente un attore, con l’ironia di un Jack Nicholson o con la malia di un Sean Connery; ma anche un cantautore con la precisa metrica di un Francesco Guccini o con la ricercata eleganza di un Paolo Conte.
Ebbene, Nino veniva a parlare degli organi collegiali, del nuovo concetto di gestione democratica della scuola, della nuova visione del distretto scolastico. Che cos’era per Nino il distretto scolastico? “Prima di tutto, un comprensorio scolastico, ovvero un bacino di utenza organizzato. In questo senso il distretto corrisponde alle esigenze di razionalità e di globalità e rappresenta un momento di programmazione dell’uso del territorio. In secondo luogo il distretto è un centro scolastico, ossia un fatto edilizio funzionale, un insieme completo di edifici di ttrezzature, coerente con una scuola intesa come “centrale di vita e di crescita giovanile e comunitariaa” e non più come modulo docenza-discenza-esami. Si deve aggiungere che il distretto, proprio in quanto centro scolastico, è per definizione la sede di una scuola comprensiva e polivslntr, secondo le proposte della Commissione Biasini. In terzo luogo il distretto va concepito come organo di propulsione della scuola sotto il profilo dell’innovazione educativa e della sperimentazione didattica. Se il “centro scolastico” è il contenente, l’innovazione riguarda i contenuti. Si tratta di prendere decisioni che rendano possibili la sperimentazione didattica, l’aggiornamento degli insegnanti, il diritto allo studio sotto il profilo dei servizi sociali che esso comporta, l’integrazione della scuola normale con i corsi speciali, la formazione professionale in relazione alla formazione generale, l’educazione permanente. In quarto luogo il distretto è un organo di gestione della scuola in modo partecipato, con un intervento diretto della famiglia, delle forze sociali, delle comunità locali”[1].
Antonino Pino era nato a Roma, il 22 agosto 1928, da Nicolò e Marianna Nicita. Era il secondogenito di tre fratelli; gli altri due si chiamavano Ippolito e Pino. La sua era una famiglia di origini siciliane, che si era trovata a Roma, nei primi anni del ventennio, per i frequenti spostamenti del capofamiglia, un maresciallo della Finanza. La famiglia Pino si era, poi, spostata, in tempo di guerra, più a sud, a Napoli e, quindi, a Nola, dove, nel 1942, al liceo “Carducci” si era formata una classe di sfollati, che ebbe la fortuna di incontrare un professore ragazzo. “Un giorno arrivò in classe un giovane professore di filosofia, poco più che un ragazzo; forse non era ancora laureato. Magro e pallido, i capelli di un rosso acceso e le mani da prstigiatore, che disegnavano nell’aria astratte geometrie. Si chiamava Aldo Masullo. Ci avvinse subito: aveva un parlare affascinante. Non evocava paesaggi o sensazioni, ma tracciava coordinate, organizzava sequenze, costruiva algoritmi con straordinaria semplicità, secondo un rigore logico essenziale. Una delle poche persone capaci di non ripetersi mai: al limite del sillogismo.[…] In quel tempo le sue parole erano tremende e scandalose: non perché attaccassero qualcosa o qualcuno, ma perché spazzavano via valanghe di conformismi, di provincialismi, di retorica, con il semplice richiamo alla limpida organizzazione del pensiero. Quelle parole ci indicavano come si fa a liberarsi dei pacchetti preconfezionati di sapere, dei convenuti, delle precomprensioni ideologiche: era il modo più naturale e vero di essere laici ”[2].
Di ritorno nella capoluogo partenopeo, Nino aveva conseguito la laurea in lettere alla Federico II, nel 1952, discutendo una tesi in Filologia Romanza su “Un poeta rumeno: Tudor Arghezi”[3]. Nello stesso anno della laurea aveva vinto una borsa i studio per un corso di perfezionamento di un mese nella Repubblica Argentina. Quindi, cominciò ad insegnare nelle scuole pubbliche per una decina d’anni, fin quando non ebbe l’incarico di presidenza nelle scuole medie di Massalubrense (1961/1964) e di Acerra (1964/65). Poi, vincitore di concorso a preside di 2^ categoria, dall’1 ottobre 1968, fu assegnato alla scuola media statale di Vietri di Potenza e, quindi, alla scuola media Statale “Giovanni Lombardi” di Napoli[4], alle Fontanelle, nel cuore del disagio e del degrado.
Nino amava il suo lavoro più di se stesso. Leggeva, aveva uno sguardo a 360 gradi, aveva mille interessi, prediligeva i classici, la politica, le delizie della vita. Era un regalo di Dio. Aveva sete di sapere, specialmente di sapere specialistico della sua professione di preside, e sempre fu attento alle iniziative ed ai confronti nazionali ed internazionali sui problemi della didattica e della scuola in generale. E tutti questi interessi, uniti alla sua immensa cultura, lo avevano fatto diventare, immediatamente, un punto di riferimento per chi lo incontrava; un maestro irrinunciabile e carismatico; ma anche un grande istrione, un capo indiano coi segni tribali dipinti sul volto, un antico dio greco baciato dal dono del possesso delle armi della parola, della dialettica, del ragionamento.
Nel 1975, Nino, per mia fortuna, fu nominato coordinatore del corso di abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nella scuola media da me frequentato. Ricordo che il primo giorno, in un’aula della scuola media “Manzoni” al corso Vittorio Emanuele, si presentò con un borsone pieno di libri. Quindi, Nino disse brevemente di sé e, tirando fuori i libri, uno a uno, cominciò a parlar a noi, giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendoci se mai ne avessimo letti qualcuno e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati…Poi, dal fondo del borsone estraendo gli ultimi due libri, disse: “Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono il Libro rosso dei pensieri di Mao Tse Tung e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani”. Successivamente Nino ci parlò più volte di don Milani e della scuola di Barbiana e non ometteva mai di sottolinearci con la sua accattivante dizione: “Pensate, sulla porta di quella scuola c’era scritto: I care (mi interessa, mi riguarda)”.
Nino Pino, da uomo colto, affamato di sapere, era dotato di una grande curiosità. Si interessava ad ogni cosa, si chiedeva il perché di tutto, cominciava sempre nuove ricerche. A volte irrompeva nelle discussioni, facendo delle domande a bruciapelo: “si dice premuta o spremuta?”, “si dice Borboni o Borbone?”. Una volta, abruciapelo, mi chiese: “ma, secondo te, la parola “bipartisan” da dove deriva?”. Ricordo, poi, che, in occasione di una mia partenza per Milano (era stato egli stesso a indirizzarmi al campo della formazione, presso l’O.P.P.I.[5]), trovò tempo per raccomandarmi di leggere (letteralmente leggere) il Dizionario etimologico della lingua italiana, di Cortellazzo-Zolli, “è bellissimo” mi disse “serve a capire la costruzione delle parole, la loro origine, la loro storia.”. D’altra parte lo studio della lingua italiana l’aveva sempre affascinato; egli era un virtuoso della parola e, per questo, gli piacevano le sfumature più sofisticate, le etimologie, la storia degli sviluppi dialettali. Nel 1970 fu componente un gruppo di studio operante presso il Seminario Didattico organizzato dalla Facoltà di Scienze dell’Università di Napoli. I risultati di quel lavoro furono presentati (giugno 1970) al Convegno Nazionale della Società Linguistica Italiana; Nino portò avanti uno studio preliminare per la predisposizione di interventi graduali nel passaggio dal dialetto alla lingua[6].
Un’altra volta, dopo aver guardato un mio lavoro di storia destinato agli alunni di scuola media, fece passare qualche giorno, poi, mi passò un foglio di appunti, che commentò abbondantemente. “I sette re di Roma, non sono propriamente sette. L’età regia si confonde tra elementi di verità ed altri di leggenda. La successione ed il numero dei re subì sicuramente alterazioni. Le figure di re come Romolo e Numa Pompilio hanno un carattere leggendario; certamente Romolo. Altre, invece, come quella di Servio Tullio, hanno avuto attribuite innovazioni nel campo politico e militare, che sono di certo posteriori”.
Nino fu un grande innovatore, un creativo e, per queste sue virtù, fu anche un pioniere della didattica. Quando la scuola di base era ancora selettiva, quando ancora l’onda del ’68 non aveva raggiunto i demagoghi, i parolai del cambiamento, il preside Pino –preside di frontiera- guardava alla necessità che la scuola dell’obbligo fosse veramente dell’obbligo, che si ponesse il problema dei ragazzi che perdeva per strada, che arginasse il fenomeno della dissipazione della didattica ed individuasse strumenti per farvi fronte. Così, dopo il Convegno di Castelfusano[7], egli si ispirò subito a don Milani, pensò al necessario battesimo della scuola integrata e scrisse: “In una dimensione che rappresenti il punto di convergenza tra scuola e ambiente, scuola e città, scuola e società, si propone la nuova figura dell’insegnante. Il vero educatore del nostro tempo deve essere dotato di una cultura che superi i limiti della disciplina che egli insegna; di apertura dinamica a tutte le sollecitazioni della vita moderna; di sensibilità ai problemi giovanili; di capacità di inserirsi nella problematica sociale e culturale del nostro tempo; di spirito di iniziativa, capacità creative e organizzative, disposizione ottimistica verso la vita, equilibrio emotivo, senso di responsabilità”[8].
Soffiava un vento nuovo nel paese; era iniziato un costruttivo dialogo riformatore tra la Dc ed il Psi. E la scuola ne usciva senz’altro bene dalla politica intrapresa dal primo centro-sinistra. Dopo un accenno sul doposcuola, non obbligatorio, nella scuola media, contenuto nella L. 31-12- 1961, n. 1859, per cause più che altro di natura economico-organizzative, si cominciava (grazie anche alle riflessioni indotte dalle proteste sensattottine) a guardare alla scuola dell’obbligo come una necessaria dimensione politico-culturale della società, da cui scaturiva una richiesta di impianto “a tempo pieno”[9]. Si respirava dappertutto un tumultuoso cambiamento; saliva da ogni parte una richiesta di partecipazione ai processi di trasformazione della società, una definizione del nuovo ruolo assunto dall’istituzione familiare, un bisogno naturale di tuffarsi nell’emergente tecnologia con il coinvolgimento attivo di tutte le energie e le intelligenze. Alla luce di queste novità – i pilastri della nuova scuola, come li aveva definiti Visalberghi[10]– Nino Pino annotava: “La scuola finalmente si riconosce chiamata ad assolvere un importante funzione in seno alla società, in quanto strumento di formazione cui si richiedono contnuti nuovi per una generazion nuova. Punto di incontro di tutte le esperienze culturali del ragazzo (e non distributrice unica di cultura), essa si riconosce la sede in cui ciscuno degli utenti organizza e matura quelle esperienze fino ad inserirle in un suo preciso ambito di acculturazione. Se la scuola mia è –come deve essere- scuola di massa, deve liquidare gli elementi discriminatori e selettivi che ancora la caratterizzano, affrancandosi dall’azione costrittiva e repressiva che ancora esercita”[11].
Ma, specie nei collegi dei docenti, c’era anche tanta diffidenza. Quando, poi, l’alunno avrebbe veramente studiato? Nei pomeriggi passati a scuola avrebbe fatto i compiti assegnati per casa? E gli allievi bravi non si sarebbero annoiati, non avrebbero perso (più che guadagnato) occasioni d’apprendimento nei tempi destinati al recupero degli allievi meno bravi? Anche in questo caso il preside Pino rispose, liberando la sua creatività didattica, offrendo piste di facile (e suggestiva) percorrenza: “A questo punto è facilmente intuibile la funzione del docente nell’attività pomeridiana. La sua collaborazione col ragazzo consiste nl guidarlo nel lavoro in cui è impegnato, nel fargli riconoscere il metodo più corretto e più efficace per la lettura di un documnto, la consultazione di un manuale, la decifrazione di un simbolo o di una formula, la ricerca del modulo razionale che sottende un esercizio, l’attenta osservazione dei diversi linguaggi attraverso cui si esprime la trasmissione delle cognizioni, la scelta degli strumenti più idonei per condurre i diversi tipi di lavoro: in una parola aiutarlo a fare le sue conquiste”[12].
L’attenzione massima ai problemi della scuola era una costante di Nino. Perché il mondo della scuola era il mondo di Nino; ed anche perché un socialista riformista non poteva non guardare alla scuola come al volano di ogni trasformazione sociale. Scuola e società dovevano necessariamente avanzare in parallelo, perché l’una era la derivante dell’altra. E perciò, specie nella prospettiva di rinascita del Mezzogiorno, l’istruzione costituiva il vero problema da risolvere. L’istruzione, infatti, era (ed è) sinonimo di libertà, di progresso, di cultura, di conquista sociale.
D’altra parte la politica socialista degli anni Sessanta del secolo scorso (un tempo così vicino cronologicamente, eppure tanto lontano nei fatti e nei risvolti!) era ispirata proprio a fare assumere all’istruzione un posto di preminenza nella coscienza popolare. Non a caso il Psi esibiva il trofeo della conquista della scuola media unica; e, sempre non a caso, l’impegno socialista al governo in materia di politica scolastica voleva significare che lo Stato stava facendo un investimento altamente produttivo. Bisognava, allora, che cambiassero i termini del discorso; che la palingenesi avvenisse in modo totale e non apparente; che la crisi della scuola non fosse più e solo ritenuta quella delle strutture. Bisognava, in altre parole, che i fenomeni negativi caratterizzanti l’eterna questione della scuola, specie nel Mezzogiorno, cominciassero ad essere eliminati. “Tali fenomeni sono: il ristagno, la ripetenza e la cosiddetta “mortalità scolastica”; il bassissimo tasso di licenziabilità nella scuola dell’obbligo; le aberranti motivazioni del successo o dell’insucceso nello studio, le quali sono spesso determinati non da attitudini e capacità personali, ma da fattori completament estranei ad esse (ad esempio, la localizzazione e le dimensioni della scuola frequentata); l’errata scelta degli indirizzi, la quale diviene una remora gravissima agli effetti del successivo inserimento nella collttività e della giusta, rapida e piena utilizzazione nel processo produttivo del paese ”[13].
Insomma, per la prima volta si cominciava a parlare dell’educazione come un problema complesso e globale. E, forse, si cominciavano a rifiutare le soluzioni episodiche tese, magari, a risolvere piccoli problemi giuridici, strutturali (specie nelle estreme periferie del paese) ed organizzativi a vantaggio di elementi che riguardavano, prioritariamente, la preparazione dei docenti, la rivisitazione del loro stato giuridico, la continuità didattica, l’organizzazione democratica delle strutture periferiche, i programmi ed i sussidi. Tutti termini e valori nuovi nella liturgia scolastica, che era chiamata ad abbandonare la pratica della superficialità, dell’assistenzialismo, del clientelismo, dell’improvvisazione e del fatalismo. Sapeva il Mezzogiorno sostenere questa sfida a cui era chiamato? “Esistono nel Sud sufficienti energie, che sono all’altezza del non facile compito cui tra breve sarà chiamata la scuola militante e non solo essa; esistono, invero, coscinze vigili, aprt, uomini che pensano e che maturano dentro di sé i problemi; esiste –che è ancora più importante- un’attitudine crscente, in questi ultimi tempi, a costituirsi in orgnismi associativi e a lavorare in éqquipe: lo dimostra lo spontaneo fiorire di gruppi culturali e di centri specializzati per l’indagine, lo studio e la ricerca”[14].
Non c’era occasione pubblica o privata, non c’era manifestazione scolastica o di partito che Nino non facesse un riferimento a personalità come Codignola o don Milani, Visalberghi o Pasolini. Gli premeva, infatti, dare corpo ai pensieri elaborati da quegli illustri pedagogisti e tradurre in pratica – quasi mostrare un come si può fare- situazioni, che sembravano, agli occhi di tanti, nate chissà dove e, perciò, inauttuabili. Il suo intendimento, prima che didattico, era politico. Egli teneva fortemente ad affermare la conquista dell’obbligo scolastico, della scuola (specie la scuola media) che, in quanto scuola dell’obbligo, richiedeva la partecipazione di ciascuno alla vita associativa (la scuola come comunità educante) che ne scaturiva ed il superamnto di quella visione tradizionale, selettiva, che riproponeva tra i banchi le stesse differenze della società, gli stessi rigurgiti di casta. “La scuola non può sottrarsi al compito di educare alla partecipazione di tutti i suoi componenti: docenti, alunni, famiglie. La scuola, proprio mentre educa, diventa centro comunitario, organizzando i gruppi spontanei con l’esercizio di attività liberamente scelte. Partecipazione significa capacità delle persone di essere parte attiva nelle istituzioni a cui appartengono e di non lasciare che altri decida per loro, cioè attuare un sistema di relazioni in base al quale tutti i componenti possano acquisire un responsabile potere di decisione”[15].
Sulla riforma della scuola dell’obbligo era, quindi, puntata l’attenzione del preside Pino. Sempre. Egli si preoccupava costantemente di verificare l’effettiva portata e ricaduta dei mutamenti previsti rispetto alla scuola pre-riforma; si preoccupava, inoltre, di sondare, sul campo, l’ordine delle eventuali difficoltà (ambientali? strutturali? di preparazione docenti? di volontà di applicazione da parte degli stessi docenti, rifuggendo da ogni inutile gattopardismo? di efficace funzionamento dei consigli di classe? di grado di coinvolgimento dei capi d’istituto?) incontrate nell’applicazione della riforma stessa. “Non basta puntare il dito accusatore su generici responsabili. […] E’ necessario un intervento organizzato e programmato sulla base di un’approfondita conoscenza di tutte le situazioni esistenti e di tutti gli elementi che le compongono. Al di sotto di questa soglia c’è la “scuola militante”, i ragazzi, le famiglie, la moltitudine di presidi e di insegnanti, molti senza precisa qualificazione, che si sono trovati a scuola per un caso fortuito, molti in posizione instabile, preoccupati di una carriera ancora confusa e incerta, disgregati, disinformati, alcuni sfiduciati, timorosi di fronte ai problemi che ogni innovazione porta con sé, occupati a scrivere verbali, e a copiarli. […] I “ritocchi” e gli aggiustamenti non bastano; la via difficile per un rinnovamento dell’istruzione è una nuova dimensione del rapporto tra scuola e società civile”[16].
È tacito che ogni forma di rinnovamento della scuola passi, innanzitutto, per gli insegnanti. Perciò, attorno a questi professionisti è nata una massiccia letteratura, che, spesso, li ha demonizzati più che esaltati, li ha dichiarati ignoranti[17] più che riconoscerne le capacità, sfaccendati più che preoccupati dalle responsabilità di chi è posto di fronte ai destinatari del futuro, avulsi da ogni radicamento col sociale più che centri-motore del sociale stesso. È una vecchia storia quella di scaricare tutte le colpe sulla classe docente; come se la politica non avesse mai messo mano nella scuola; come se le pressioni esercitate nei concorsi, per far andare avanti i meno meritevoli, non fossero state orientate dalla classe politica, dai loro portaborse e dal derivante sottobosco; come se l’istituto della raccomandazione appartenesse solo al mondo della scuola e, caso strano, nessuno –ma proprio nessuno- fosse mai riuscito a svellere questa tragica realtà!
Io so, per averne parlato insieme tante volte, che Nino non era tenero nei confronti d certi insegnanti adusi a ridurre al nulla ogni innovazione; ai tempi in cui si ragionava, anche animatamente, contro le bocciature, contro la scuola selettiva, contro la dettatura degli appunti, contro la valutazione espressa in voti, a loro volta frantumati in più, meno, mezzo, Nino icasticamente commentava: “Siamo nella scuola del mediocre e mezzo!”. Egli era anche fortemente feroce nei confronti dei raccomandati, che rappresentavano non solo il negativo della scuola ma la sua stessa rovina. Era solito definirli ascari, i mercenari al servizo di un esercito in cui poco credevano.
Ma Nino era anche consapevole che gli ultimi apache erano (e sono) sostanzialmente incolpevoli. “Sono circa un milione: una schiera sterminata di uomini e donne che difendono debolmente gli spazi sempre più ridotti rimasti alla funzione docente. Come gli ultimi apache, si rinchiudono nelle riserve, dove li sta confinando la sconfitta dei vecchi statuti della conoscenza”[18]. Egli, analizzando il veloce divenire della storia e le mirabolanti conquiste multimediali, riconosceva che erano cambiati gli statuti delle conoscenze mentre erano rimasti fermi i quadri di riferimento mentali; chi era nato e cresciuto, chi era stato educato in un modo, aveva difficoltà a rigenerarsi, a reinventarsi, a trovare altre strade da percorrere. “Su questo sfondo, fermi in mezzo al guado, disorientati, si trovano gli insegnanti. Da quando ho avuto l’età di ragione ho sentito parlare degli altri compiti loro affidati: legare la scuola alla vita, aprire problemi, tracciare coordinate, condurre i giovani nel cuore stesso della logica della complessità, formare coscienze, indurre i valori dell’uguaglianza, della giustizia, della solidarietà. Ma chi ha mai insegnato loro a comprendere le difficili vie dell’apprendimento, i mutamenti prodotti dai media nei processi neuronali, i nuovi quadri mentali dei giovani, le loro diverse configurazioni sensorie? Dove e quando gli insegnanti hanno mai imparato a creare la necessaria sintonia tra la rapidità dei nuovi modi dell’apprendere e la cultura, che è sempre riflessione, sistemazione, sedimentazione? Nessuno ha mai insegnato agli insegnanti come si costruiscono –giorno per giorno, sistematicamente- l’ordito e la trama i quei concetti fondanti entro i quali ogni nuova acquisizione trovi poi collocazione, alimento, senso e ragione. Nessuno ha mai insegnato loro come si fa a usare efficacemente i “programmi” per tener dietro alle rapide trasformazioni che interessano gli stili di vita e i quadri socioculturali. E nessuno ha mai posto al centro della loro attenzione, perché intendessero come si attinge funzionalmente ai saperi delle discipline, il problema principe del fare scuola: le motivazioni (reali, non indotte) dell’apprendimento”[19].
E, allora, come fare? Una strada –non certamente l’unica- è quella della formazione e dell’aggiornamento. Ma la formazione e l’aggiornamento richiamano in campo l’ingresso della ricerca. “Metodologia della ricerca e revisione del ruolo dell’insegnante diventano perciò i cardini di una proposta di lavoro alternativa, che –ponendo in una diversa relazione il conoscere e l’operare- tenda a liquidare, superandolo, uno degli obietivi-base della scuola tradizionale: quello che, alla resa dei conti, considera l’esito verbalizzato del conoscere più valido che non l’esito operativo del conoscere. Conseguenza immediata di queste premesse è ch qualsiasi progetto di attività di aggiornamento non può non avere come punti riferimento: a) le profonde modificazioni in atto nella struttura della società contemporana; b) le trasformazioni indotte nell’istituzione scolastiche e i conseguenti problemi inerenti al ruolo sociale della funzione docente ”[20].
Ed ecco che il pedagogo, l’epistemologo, l’intellettuale, fa di nuovo emergere la sua visione politica (socialista) del problema. Le questioni sul tappeto non si risolvono solo guardando ai numeri del bilancio senza nulla concedere al “nocciolo della questione”. In altre parole, l’occhio alla spesa pubblica è necessario, ma è molto più necessario che il cervello entri nella soluzione di qualsiasi problema: “l’annuale tiro alla fune tra il ministero e i sindacati intorno al piano nazionale per l’aggiornamento si è incentrato soprattutto sull’entità della spesa, con pochissimi spazi concessi ai contenuti e al merito dei problemi: qua e là qualche dichiarazione di intenti, niente di più. In realtà le controparti sono state sempre accomunate dalla stessa visione delle cose. L’ignorare l’essenza vera della questione –le scelte fondamentali che riguardano i contenuti e i modi di essere della scuola- nasconde una resistenza profonda nei confronti dei nuovi quadri mentali, dei nuovi linguaggi, dei nuovi alfabeti. Stiamo ancora inseguendo un’illusione ereditata dall’idealismo, secondo la quale l’insegnamento inizia e termina nell’afflato che lega il “maestro” all’allievo e che è magica virtù del maestro: perciò la didattica, in quanto scienza e/o tecnica dell’insegnare, è superflua, anzi non esiste ”[21].
È la scuola che è cambiata, perché è cambiata la società, sono cambiati i riferimenti culturali. Ma il cambiamento della scuola passa essenzialmente attraverso il mutamento, l’innovazione, la sperimentazione di una nuova ditattica, che integri termini come partecipazione e preveda un nuovo rapporto scuola-ambiente, scuola-territorio-società civile. “In un contesto culturale pluralistico e dinamico come il nostro, la didattica non può avere altro fine che quello di offrire occasioni significative dalle quali ognuno poss partire per elaborare propri metodi e processi di interpretazione della realtà, al fine i pervenire a sintesi personali, interpretative e operative, dinamiche e plastiche (cioè modificabili col modificarsi dell’esperinza). Si tratta di due diverse concezioni didattiche. L’assunzione dell’una o dell’altra (e, per chi opera in una scuola democratica nnon può essere che la seconda) comporta una scelta inequivocabile anche per quel che riguarda situazioni operative, modalità di comunicazione, sistemi di valutazione, verifiche dei risultati, che sono anch’esse profondamente diverse nelle due concezioni”[22].
La parola magica, quella che può far nascere un minimo di speranza e sulla quale si può tentare di scommettere diventa, perciò, formazione, una sorta di lasciapassare, di patente, di abilitazione alla professione docente. “Per quel che riguarda la formazione in servizio, bisogna avere il coraggio, una buona volta, di tirarla fuori dalla palude in cui l’ha cacciata il criterio dell’autogestione: un concentrato di approssimazione e di demagogia, basato sul presupposto demenziale che l’individuazione del bisogno reale di formazione coincida con la capacità di soddisfarlo. La questione è resa più complessa dal fatto che la formazione in servizio svolge innanzitutto un ruolo di supplenza rispetto alla formazione iniziale (che non c’è). In effetti, sia sul piano giuridico che su quello scientifico e professionale, il formatore non esiste. Non esiste, quindi, neppure sul piano deontologico: la conseguenza, sugli esiti effettuali, è che tutti si sono autoproclamati formatori”[23].
Nino era un grande affabulatore, amava i riferimenti classici e sapeva suscitare grandi emozioni, perché era capace di utilizzare immagini fantasmate di grande efficacia. Siccome, poi, era appassionato di film di avventura e di fantascienza, evocava personaggi della letteratura italiana trecentesca così come quelli della letteratura contemporanea, parlava –quasi uno della porta accanto- di Linus e Paperino, talvolta, trovava metafore strabilianti per suggerire nuovi campi d’applicazione. E così, per dare un contributo ad una scuola dei nuovi alfabeti, egli fece ricorso alla metafora di un grande capo indiano (amava molto questi riferimenti[24]; a casa sua, in un mobile del suo studio, teneva in bell’ordine innumerevoli “cassette” di film con i suoi eroi preferiti; e, quando si presentava l’occasione, gli piaceva, immancabilmente, citare qualche battuta e ricordare qualche quadro di pellicole come “Soldato blu”, “Balla coi lupi” o “Un uomo chiamato cavallo”): “Dicono che Geronimo, l’ultimo grande capo apache, alla vista del “cavallo di ferro”, il mostro che minacciava il suo popolo, il treno, abbia esclamato: il nostro tempo è finito! Ignorare ancora la questione della formazione degli insegnanti significa voler fare la fine di Geronimo ”[25].
Nino Pino concluse la sua carriera all’IRRSAE[26] della Campania. Era stato, agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, lo stesso Nino ad incoraggiarmi a concorrere per un posto di tecnico all’IRRSAE della Campania, quand’egli già c’era, in quell’istituto, da vari anni. “Vieni”, mi diceva, “potremo lavorare insieme; ci divertiremo”. E, per alcuni anni, fu così.
Ma il preside Pino sapeva bene che gli IRRSAE potevano sopravvivere solo con il compito di formare i formatori. E solo in combinato con le università, con i rappresentanti delle nuove professioni, degli esperti di managment nell’industria e nel terziario, di agenzia specialistiche. Egli immaginava, molto in anticipo sui tempi, una rete a maglie larghe con una forte ricaduta sul territorio. Il vecchio socialista, anche questa volta, aveva colto in pieno il significato ed il valore di parole come sinergia, cooperazione, concertazione.
Ma il vecchio guerriero ebbe subito un’altra delusione. Gli IRRSAE si rivelarono ben presto una nuova e grande illusione. “Tra le tante possibili definizioni non banali degli IRRSAE ne abbiamo trovato una che ci sembra calzante: una pietra miliare sulla strada delle buone intenzioni che conduce all’inferno. Nessun’altra cosa come gli IRRSAE, infatti, all’atto della sua istituzione è stata così carica di potenzialità, di aspettative e di promesse. E nessun’altra come gli iRRSAE le ha così sistematicamente deluse”[27].
Nino credeva negli IRRSAE e ne immaginava una struttura dinamica con un Consiglio Direttivo senza l’aureola dell’onnipotenza nel campo scientifico-culturale, con un segretario generale da un profilo meno indeterminato nel suo ruolo di indirizzo e di rapporti col personale tecnico-scientifico, quest’ultimo, a sua volta, subito svalutato per la temporaneità del suo comando e della sua funzione. Erano tutte queste contraddizioni che rendevano opaca la storia di questi falansteri della formazione. “L’attenzione del mondo della scuola verso gli IRRSAE è, al momento, quasi nulla: sia a livello politico e sindacale, sia di operatori scolastici. Da tempo, ormai, la maggior parte degli istituti non è più nemmeno oggetto di polemica: da quando, cioè, si è evidenziata la loro incapacità di costituire comunque dei referenti attendibili”[28].
Niente, però, accade per caso. Se gli istituti di ricerca galleggiano, perché tenerli aperti? Ma non è, perciò, che il loro cattivo funzionamento (meglio dire le condizioni in cui sono messi per mal funzionare) nasconda un preciso disegno politico[29]? “Quanto alla richiesta, periodicamente ricorrente, di spazzar via “questi inutili carrozzoni”, non si può non rilevare la sostanza conservatrice che si annida sotto il suo radicalismo. Eliminare gli IRRSAE senza prevedere un ricambio vuol dire, nei fatti, riconsegnare interamente la gestione e il controllo della ricerca, della sperimentazione e dell’aggiornamento nelle mani della struttura burocratica e verticistica del Ministero: anche quel tanto che è ancora possibile “pensare” e vitalizzare autonomamente nelle diverse realtà territoriali”[30].
È sempre la solita soluzione: quella che alla fine getta l’acqua sporca con tutto il bambino. Ed è ovvio che Nino non ci sta. Anzi, su questo terreno rischia anche la contestazione. Egli, infatti, difende a spada tratta i sindacati che, appellandosi alla professionalità docente, inaugurano il discorso sulla qualità della scuola, sull’autonomia delle strutture scolastiche, sulla revisione della didattica necessariamente adeguata ai bisogni di una società in continua evoluzione, complessa, sempre resistente, però, ai venti dell’innovazione. E quando gli stessi sindacati –in particolare la CGIL- tracciano il disegno di una progressione di carriera legata all’avvanzamento sul cosiddetto “scalone” dell’aggiornamento, è normale che i apra un fronte a sinistra, tra i Cobas della scuola, che mal digeriscono lo “scalone” e dichiarano tutta la pericolosità di una valutazione dei titoli professionali affidata alla sola valutazione del capo d’istituto.
Nino Pino è il solito entusiasta, intellettualmente onesto, generoso in ogni azione che intraprende. Anche in questa occasione, perciò, non si sottrae dall’incrociare le armi della dialettica contro i sostenitori dell’unico criterio di discrimine della professionalità docente, quello dell’anzianità di servizio. “Ma è giusto che chiniamo il capo con rassegnazione di fronte al principio iniquo secondo il quale l’unica forma di diversità tra i docenti (prescindendo dall’impegno e dal lavoro di ciascuno) sia l’anzianità, cioè lo scorrere del tempo? Questa, sì, sarebbe una conclusione arretrata per tutti”[31]. Certo, il preside Pino, capisce benessimo ch gran parte della polemica inscenata è contro il potere di valutazione del capo d’istituto, di una figura, cioè, che appartiene alla sua stessa categoria professionale. Ed ecco, allora, che riemerge lo spirito democratico del politico illuminato, dell’intellettuale sostenuto dalle buone letture, dell’antico propagatore degli organi collegiali nella scuola: la forza di ogni comunità (sociale, politica, educante) risiede solo nella collegialità. Ogni ragionamento contrario porterebbe solo all’affermazione di un sistema autoritario, che mal si sposa con la vera democrazia. “Ferma restando la capacità decisionale dei Collegi, o noi riteniamo che essi possano “crescere”, che acquistino una reale potestà per difendere gli interessi della scuola, degli alunni e degli insegnanti, o siamo costretti a riconoscere che il popolo della scuola è una categoria oggettivamente scadente, e allora dobbiamo accettare tutto quello che ci viene da chi decide per noi”[32].
Più di sempre sopravvive il problema della formazione: chi la fa, dove, con quali strategie, con quali mezzi? “Abbiamo dinanzi a noi due problemi. Il primo è quello delle grandi operazioni di formazione in servizio a carattere nazionale (il piano poliennale per la scuola elementare, il piano straordinario per la scuola elementare, l’aggiornamento dei docenti impegnati nelle sperimentazioni del piano nazionale informatica). Chi si deve scegliere per formare i colleghi? Quali competenze deve possedere? In base a quali criteri deve essere addestrato per essere formatore? Questi quesiti devono essere affrontati risolutamente e per vie dirette. Non basta contentarsi di esercitare il diritto al mugugno. Il secondo problema è quello dei Centri territoriali per insegnanti[33]. Era un adempimento del governo, prescritto dal protocollo d’intesa che aveva concluso il penultimo contratto collettivo di lavoro del comparto scuola. Ed è rimasto inevaso. Accanto ai Centri, c’è la questione, tuttora aperta, degli Irrsae: con le loro carenze, le loro inadeguatezze e le loro inadempienze, ma anche con tutte le loro potenzialità. Che cosa diciamo su tali problemi? Su questi aspetti qualificanti del nostro lavoro della nostra vita comune occorre cimentarsi. Altrimenti ci tocca subire e tacere, su tutto e per sempre”[34].
Gli Irrsae ritornano, dunque, in ogni situazione in cui si parli di formazione.
Quando fu varato il D. L. 6/8/1988, n.323, coordinato con la Legge di conversione 6 ottobre 1988, n. 426, al cui articolo 5 era prevista, per il personale soprannumerario (nel limite del 20%), la graduale utilizzazione[35] dei docenti per le attività di “coordinatore dei servizi di biblioteca e di coordinatore dei servizi di orientamento scolastico” negli istituti di istruzione secondaria superiore e di “operatore tecnologico e di operatore psicopedagogico” nella scuola dell’obbligo, il preside Pino vide negli Irrsae e nell’Università le sole istituzioni deputate alla formazione delle nuove quattro figure professionali. Pur riconoscendo, infatti, alla citata legge -nel quadro di razionalizzazione del sistema scolastico volta al contenimento della spesa- tutte le caratteristiche non di una innovazione ma di un semplice espediente, egli si chiedeva quale ente avrebbe potuto formare i “quattro moschettieri” se non “L’Irrsae (in virtù del DPR 419/74) e l’Università (a seguito della L. 341/90, che ne ha individuato i compiti specifici nella formazione iniziale dei docenti e, più in generale, nell’aggiornamento professionale) che giocano un ruolo strategico nella formazione dei docenti, che può trovare un terreno elettivo di attuazione nella formazione delle 4 figure professionali”[36].
Nino non si abbandonava mai al pessimismo. In ogni azione intravvedeva un’occasione positiva, un’opportunità da non lasciarsi scappare specie se di vantaggio per la scuola. Così anche per i “quattro moschettieri”, nell’ottica di una valenza didattico-culturale, egli immaginò un tracciato a intersezione. “Le 4 figure professionali si riferiscono ad ambiti funzionali e operativi che, sebbene diversi, presentano larghe zone di intersezioni (ad esempio, quelle riferite alle competenze organizzativo-gestionali o alla progettazione intra/interistituzionale). Prevedere, in sede di formazione, momenti comuni consente di apprendere a coordinare punti di vista e prospettive, a riconoscere identità e diversificazioni: capacità indispensabili, queste, se si vuol fare delle quattro figure il motore dei processi innovativi all’interno delle singole unità scolastiche. Una struttura a intersezione presenta, inoltre, evidenti vantaggi di tipo economico ed organizzativo: la presenza di segmenti comuni a più percorsi formativi, infatti, consente di unificare, nei quattro corsi, un numero significativo di ore di lezione “frontale” nonché la produzione di molto materiale didattico”[37]. In fondo l’obiettivo del vero uomo di scuola è sempre il miglioramento dell’offerta formativa, in qualunque situazione, anche di disagio, come quando ricordava, anni addietro, di “un prete che, su una sperduta collina del Mugello, fa lezione in una buia canonica sulla cui porta è scritto: I care”. Ed allora anche “il problema della spesa è un falso problema. La razionalizzazione può tendere alla eliminazione dello spreco senza mortificare la qualità.[…] Quel che più conta è che, per distrazione, per disinvolta sommarietà, per disappetenza non si perda un’occasione a portata di mano, che consente una possibile accelerazione dei processi di ammodernamento e di sviluppo del nostro sistema formativo”[38]. Altri tempi ed altri uomini di scuola!
Gira e rigira il leitmotiv è sempre quello della formazione degli insegnanti. Perché solo insegnanti ben formati possono garantire l’elaborazione di strategie atte a governare i grandi mutamenti che caratterizzano la modernità. Ma ogni azione va intrapresa con coscienza e secondo la cadenza di tempi effettivamenti occorrenti. Sono, infatti, la fretta e la superficialità i mali da evitare ad ogni costo; se, poi, si tratta di scuola allora i due termini devono essere estirpati all’origine. “A parte la questione, sempre aperta, degli incentivi ai docenti e la necessità di uno sforzo organizzativo notevole per la riqualificazione “a blocchi” di interi consigli di classe, c’è in agguato il rischio di una pratica deleteria che va diffondendosi a macchia d’olio: la confezioni di micro-corsi[39], scampoli e ritagli, di corto respiro, di scarsa valenza formativa e di ancora più scarsa attendibilità (sia sul piano scientifico che su quello professionale)”[40].
Nino, come precedentemente detto, non scindeva mai l’azione della scuola dal contesto, dal tempo in cui si vive, dai bisogni sociali. Con grande fermezza, a difesa della laicità della scuola pubblica e della serietà dell’insegnamento, intervenne, alle soglie del terzo millennio, sull’insegnamento della scienza –lui, uomo di lettere- nella scuola. L’occasione fu rappresentata dall’intenzione dell’allora ministro della P.I. di voler introdurre l’educazione sessuale nella scuola, a partire dalla materna. Nino prese subito, come si suol dire, il toro per le corna e ripropose, immediatamente, il fondamentale principio di Makarenko: “Ogni educatore deve per prima cosa educare se stesso”. Era chiaro il riferimento alla necessità che ogni docente dovesse, per prima cosa, rivedere la propria sessualità, rieducarsi, analizzando ciascuno l’insegnamento ricevuto in materia.
C’era in questa posizione un atteggiamento ideologico, culturale e politico-sociale. Non solo perché Nino era fatto così, doveva letteralmente entrare in ogni problema; ma maggiormente perché Nino era un socialista di formazione, di pensiero, di azione, di comportamento. L’affermazione del principio dell’insegnamento dell’educazione sessuale[41] nella scuola richiamava, infatti, la straordinaria storia dell’evoluzione (e l’accidentato percorso dell’evoluzionismo), i limiti della riproduzione agamica, le strategie per la sopravvivenza della specie, la conoscenza dei patrimoni genetici, la cancellazione di anni (secoli) di bugie, di storielle con cavoli e cicogne. È il mondo laico che si “scontra” col mondo cattolico, è il mondo dei dubbi che si scontra con quello dei dogmi. “Come si svolgerà la vicenda? Quale posizione assumeranno gli organismi culturali, i gruppi professionali e i sindacati? Come i comporteranno il governo e il Parlamento, ora che –dopo un decennio di discussioni- è ripreso l’esame di una proposta di legge in materia? È troppo presto per dirlo, anche se è facilmente prevedibile che il percorso sarà disseminato di trappole e di imboscate. Già squillano le trombe e incominciano le grandi manovre dell’esercito del dissenso, mentre vescovi e diaconi tirano fuori le armi che covavano sotto la cenere (“Dio scampi i nostri ragazzi da maestri o professori che hanno il prurito di parlare di sessualità!” esclama il vescovo)[42]. L’importante è che, di fronte all’insorgere di sussurri e grida, non vengano spente a poco a poco le luci; che il convoglio non si arresti e che tutti, uno dopo l’altro, non ammutoliscano. Così, senza un vero perché”[43].
Quello della formazione, comunque, fu sempre un tema molto caro a Nino. Nonostante le difficoltà di ogni genere, infatti, egli lo riprese più volte negli anni dell’Irrsae. Per l’istituto campano fu l’stensore di un progetto (sfortunato) di formazione sperimentale, poliennale, trasversale, “esso, infatti, intende sperimentare il delicato intreccio tra ricerca e formazione. Si propone come poliennale, poiché prevede diversi livelli sequenziali di intervento. Ha una dimensione trasversale, collocandosi nell’incrocio tra diverse linee di continuità/conguità del sistema scolastico. Questi sono i tratti di novità che lo caratterizzano. Ma sono anche i fattori di rischio”[44]. Rischio che parte dall’individuazione del profilo del formatore. Ma chi finisce con l’essere veramente il formatore? “Il termine rimanda a un campo semantico ampio ma impreciso, dai contorni spesso evanescenti e con vaste aree grigie, tuttora scarsamente definibili”[45].
Nino era abituato a guardare intorno, avanti, oltre. La sua formazione e la sua cultura gli aprivano fette di praterie incavalcabili da altri. In anticipo sui tempi –si è all’inizio degli anni novanta del secolo scorso- il preside di frontiera, dalla coscienza civile e democratica, levava il segnale di attenzione, tipico delle intelligenze superiori: “Il rafforzamento del regionalismo, ormai previsto (anche se non è possibile definirne le linee, la consistenza e l’articolazione dei poteri), determinerà certamente nella geografia della scuola italiana sperequazioni e scompensi ancor più forti di quelli attualmente esistenti…E’ un travaglio notevolmente disordinato. Si tratta di modificazioni che nascono al di fuori di un disegno unitario e completo, ch tuttavia stanno mutando progressivamente e radicalmente il volto della scuola”.
I cambiamenti in atto passavano attraverso i nuovi orientamenti della scuola materna (1991), con l’esigenza largamente riconosciuta “di una riforma strutturale ch dia risposte a problemi ormai non rinviabili, da quello di una definizione non subalterna della scuola materna all’interno del circolo didattico a quello dello scioglimento del nodo dell’obbligatorietà(almeno al quinto anno di età) e della conseguent “stabilizzazione” del raccordo con il primo anno della scuola elemenatre in un’ottica della continuità”. Ma passavano anche attraverso la complessa riforma della scuola elementare (il cui elemento più vistoso è rappresentato da una nuova organizzazione didattica dell’unità scolastica, costituita dall’introduzione del modulo. Questo, cancellando la figura dell’insegnante unico, responsabile per intero dei compiti dell’istruzione e formazione della classe a lui affidata, ha introdotto nella struttura funzionale del circolo didattico una complessa dinamica relazionale e curricolare.), la pressione sulla scuola media (la fascia del sistema formativo che prima e più delle altre è stata coinvolta in processi di innovazione significativi e radicali. Ma è anche quella che mostra segni evidenti di invecchiamento e di progressiva inadeguatezza rispetto ai mutamenti culturali e sociali) e gli eterni “lavori in corso” della scuola superiore (L’accelerazione impressa dal MPI all’adozione su vasta scala dei programmi Brocca ha prodotto, al di là delle intenzioni, un effetto di vera e propria sperimentazione di un nuovo assetto della secondaria superiore).
Quale insegnante, allora, per questa nuova scuola che sta nascendo? “Emerge una figura professionale che deve saper navigare, in un mare poco noto e non sempre calmo, usando carte nautiche che cambiano frequentemente (dal reticolo delle coordinate al valore dei simboli): così è per l’assegnazione degli ambiti disciplinari ai docenti della scuola elementare, così per l’accorpamento delle discipline nella secondaria superiore”.
Dall’anno scolastico 1973/74 Nino Pino divenne il preside della scuola media statale “Giovanni Lombardi” di Napoli, alle Fontanelle. La scuola nata nel 1965 come costola della scuola media “Carducci”, accanto a due aule di scuola elementare (direzione didattica “Onorato Fava”), in cinque padiglioni prefabbricati, acquistò la propria autonomia solo nel 1967. I padiglioni prefabbricati sopravvissero fino all’aprile del 1975, data in cui fu consegnato un nuovo edificio in muratura. L’epica “Lombardi”, prima di condurre la sperimentazione di integrazione scolastica, nel 1971, per tutte le classi funzionanti[46], aveva iniziato l’esperimento di integrazione sociale: aveva preso un bel contingente di alunni proveniente dal facoltoso quartiere Vomero e lo aveva inserito tra i ragazzi del deprivato quartiere Sanità. Presso la stessa scuola, poi, dall’anno 1974/75 funzionavano classi sperimentali per lavoratori studenti (150 ore). A partire dal 1979/80 funzionarono, addirittura quattro moduli (16 classi), di cui due presso la sede delle Fontanelle, uno con particolare sperimentazione presso l’Ospedale Psichiatrico Provinciale, e un altro presso il Centro di Medicina Sociale di Giugliano. Una vera avanguardia rivoluzionaria. Nella “sua” scuola, infatti, Nino aveva avuto la grande capacità di aver creato un vero gruppo di lavoro in cui si confrontavano e producevano docenti ed animatori delle L.A.C. (Libere Attività Complementari), docenti cosiddetti “del mattino” e docenti “del doposcuola” e “della sera”. Il preside socialista aveva costituito il Consiglio dei Genitori e il Comitato Scuola-Famiglia, del quale facevano parte anche i Consiglieri di Quartiere. Ai consigli i classe, poi, partecipavano anche le famiglie degli alunni[47].
La “Lombardi” sorgeva proprio sotto la collina del Vomero, nel vallone delle Fontanelle, tra le pendici dei colli Aminei ed uno spesso banco tufaceo. Per arrivarci, dal centro storico, bisognava attraversare la Sanità, il quartiere per il quale si immaginava un futuro di attrezzature integrate, sorretto da una nuova linfa di partecipazione convinta e costante di tutte le componenti sociali, politiche e culturali. “Nel momento in cui si apre uno sbocco concreto all’azione condotta dalle forze più vive del quartiere e della scuola, non è difficile immaginare –riuniti a discutere sui progetti, sulle tavole grafiche, intorno agli impianti in costruzione- consiglieri di quartiere, amministratori, tecnici, operatori scolastici, operai del 150 ore, giovani cittadini, svincolati dalla logica delle competenze a compartimenti stagni in cui vengono solitament costretti dl gioco di ruoli differenziali che impedisce di fatto l’unità degli insiemi. La partecipazione alla fase di realizzazione delle opere potrà cosi costituire il naturale ponte di passaggio alla successiva fase della gestione collegiale del centro: a quel punto non si tratterà di amministrare un servizio paternalisticamente elargito, ma un’istituzione comunitaria della quale ciascuno si sentirà già parte integrante, protagonista e non suddita”[48].
Spesso, gli andavo a fare visita. A volte, quando avevo qualche ora di spacco alla mia scuola, la “Salvator Rosa”, nella trafficatissima piazza Cavour; altre volte ci andavo per qualche impegno preso con Nino. Ricordo che qualche volta ho portato con me anche mia figlia, allora molto piccola. Nino la chiamava a sé e, seduto dietro la scrivania della presidenza, diceva: “vieni, che ti insegno a manovrare la martinicca. In fondo, guidare una scuola e come guidare un tram”.
La scuola “Lombardi” -con il preside Pino e tutti i docenti- fu la capofila di ogni innovazione e sperimentazione che si tenne a Napoli in quegli anni. Ma, più di ogni altra cosa, quella scuola sperimentale, che poi sarebbe scomparsa, distrutta dalle occupazioni dei senzatetto seguite al sisma del 1980, aveva un grande progetto politico: quello di eliminare nell’insegnamento la logica delle differenze sociali, la scuola dei poveri e quella dei ricchi, quella di Pierino il “figlio del dottore” contrapposta a quella del “figlio dell’operaio”. Ed il perseguimento di questo obiettivo era nei destinatari dell’insegnamento: i minori, specie in stato di disagio, in svantaggio culturale[49], in una società a forte caratterizzazione classista ed i lavoratori senza titolo di studio. Correvano gli anni di una nuova speranza: l’educazione ricorrente. “Le classi popolari si affacciano in forme sensibili sulla scena della scuola, mettendo ulteriormente in crisi tradizionali certezze dei ceti medi privi ormai di quella identità che ne faceva un sicuro supporto della classe dominante. Gli accessi all’istruzione si moltiplicano vertiginosamente, intaccando in modo irreversibile il ruolo tradizionale dei sistemi formativi. L’educazione ricorrente costituisce così una risposta avanzata, in un disegno articolato e complesso, alla crisi della scuola”[50].
Oltre trent’anni fa, Nino mi ha iniziato –come precedentemente detto- all’intricante mondo della formazione. Egli era già da tempo il preside Pino con la sua pipa, le sue conoscenze, la sua cultura. Io ero un giovane insegnante, forse troppo giovane –a dire di tanti- per girare nei collegi dei docenti a parlare di programmazione. Ma avevo dalla miaa la stima di Nino ed il suo incoraggiamento. Ricordo che, talvolta, nel presentarmi ai docenti diceva che era soltanto una questione d’aspetto fisico, gli anni, invece, erano molti di più di quanti apparissero. A me, invece, raccomandava i non svelare la mia età, “perché i professori, che sono in gran numero anziani, hanno bisogno di certezze, che i giovani non possono dare ”. Così, a settembre, all’inizio dell’anno scolastico o di pomeriggio, nel corso dell’anno scolastico, spesso, Nino ed io giravamo nelle scuole, a fare aggiornamento. I momenti più belli erano quelli che precedevano o seguivano ogni incontro, quando eravamo insime in macchina: faceva, allora, dei commenti salacissimi, esilaranti, che predisponevano all’allegria e cementavano la nostra amicizia. Insieme giravamo per Napoli, insieme andavamo nelle scuole di Caserta, insieme andammo a tenere seminari a Scanzano Jonico ed in tanti altri luoghi. Il più delle volte i nostri incontri non erano retribuiti, perché avevamo a che fare con amici, perché le scuole non avevano fondi, perché Nino respirava l’aria dell’antico socialismo, del soccorso, della sussidiarietà, dello spirito di servizio, di quella che poi, in seguito, si sarebbe chiamata la cittadinanza attiva.
Ed, allora, quando arrivava Nino (ed io con lui) si parlava sicuramente di formazione degli insegnanti. “Certamente nessuno si illude su questi strumenti di riqualificazione del personale, fino a quando saranno organizzati e prodotti così come oggi. Effetti ben scarsi potranno produrre i pallidi e brevi corsi d’aggiornamento che si svolgono nelle scuole all’inizio di ogni anno: condotti alla svelta e un po “sportivamente”, con tre o quattro conversazioni del bla bla e qualche dibattito aperto sul far della sera, con un occhio all’orologio e uno alla porta d’uscita, pensando ai negozi che stanno per chiudere e alla cena da preparare. Ma non saranno stati del tutto inutili, questi corsi, se vranno indotto gli insegnanti a fare almeno una riflessione: la necessità, per operatori scolastici che si rispettano, di optare per una nuova dimensione educativa e una diversa modalità di concepire la vita e l’organizzazione dell’attività didattica”[51].
La sera del 19 febbraio 2002[52], in una sala affollata di amici ed estimatori, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, Francesco Cormino, ricordandolo a tre mesi dalla morte, raccontò del particolare fascino culturale che Nino emanava. Un fascino ed una particolare didattica, che “avevano fatto amare il latino a me, che non aveva fatto studi classici. Accadde in una visita agli scavi di Pompei, quando mi rese, con grande maestria, tutto semplice, anche le iscrizioni latine”.
Nino era proprio fatto così e non poteva esser fatto diversamente. Per l’antica Pompei, poi, nutriva una sorta di venerazione. Appena poteva ne denunciava lo scempio e l’abbandono: “Il processo di dissolvimento di così preziose testimonianze avanza in misura sempre più ampia e, nelle attuali condizioni di intervento, assolutamente inarrestabile. I funzionari e gli addetti alla custodia la chiamano la “scamiciata”: è il crollare e lo sbriciolarsi dei pezzi di intonaco e di decorazione, che si verifica puntualmnte alla fine di ogni inverno a causa dello sbalzo termico. La vegetazione spontanea –il rovo- ha avuto il tempo di fare i suoi guasti, spaccando muri, disselciando pavimenti, sgretolando intonaci. C’è voluta una campagna di stampa per indurre il Ministero della Pubblica Istruzione a intervenire, assegnando a Pompei una somma annua da utilizzare per la scerbatura”[53].
È l’epoca in cui, in campo nazionale, l’esperienza dei governi con la formula del centro-sinistra non appare più perseguibile; è l’epoca in cui la Democrazia Cristiana si ritira su posizioni di centro e vara un governo, guidato da Giulio Andreotti, con l’appoggio del PLI, del PSDI e del PRI. Allora, l’antico combattente socialista tende di nuovo l’arco e scaglia un dardo col doppio obiettivo, quello della denuncia dell’abbandono di Pompei e quello della delusione politica. “E’ veramente incredibile, oltre che scandaloso, che, mentre lungo tutta la penisola va paurosamente moltiplicandosi –come da diversi mesi sta accadendo- l’opera di devastazione e di saccheggio sistematico di uno tra i più importanti patrimoni archeologici del mondo, il ministro della pubblica istruzione[54] del governo di centro-destra persista nell’inerzia e non mostri di percepire neppure da lontano i termini reali del problema, e intanto vada proclamando con tono stentoreo i sacri valori della tradizione, non sapendo fare di meglio –in tema di scavo- che riesumare il fatidico “rosa rosae” per i ragazzi della scuola media dell’obbligo”[55].
C’è in tutto il paese l’estensione di un concetto nuovo di bene culturale (non solo musei, biblioteche, complessi monumentali e archeologici, centri storici, insediamenti urbani) teso ad inglobare al suo interno anche quello di valore artistico (riguardante l’ambiente naturale, gli ecosistemi, le istituzioni culturali [musica, letteratura, arti figurative], il folklore, gli usi e i costumi, la qualità della vita), di fronte al quale la scuola – come sempre- non può esimersi dal dire la sua. Ed in questa dimensione trova accoglienza anche la nuova relazione relazione stabilitasi, per esempio, tra la stessa scuola ed il museo visto, questa volta, come superamento di una improvvisata visita didattica. “Ma è doveroso, a questo punto, fare una considerazione a proposito della nuova pratica educativa che si va configurando. C’è il rischio che i nuovi rapporti tra la scuola e i beni culturali, senza una precisa opzione per quel che riguarda il concetto di “cultura” e di “bene culturale”, senza una chiarezza di presupposti pedagogici e delle conseguente procedure didattiche, possano imboccare la facile strada della moda, dl conveniente perché avanzato e progressista. C’è il pericolo che l’uso didattico del museo possa diventare un supporto, un sussidio, un annesso, un “più”, rispetto al consueto modo di lavorare sulla storia: si tratterebbe di una metodologia decisamente più ricca e consapevole, ma ancora in qualche modo incanalata sui binari tradizionali ”[56].
Questo assunto richiede, per la scuola, di individuare un nuovo angolo di approccio delle conoscenze, dove la ricerca abbia un ruolo fondamentale nelle scelte pedagogiche, un ruolo vivo e dinamico, “una volta che siano stati collocati correttamente nel diagramma delle coordinate fondamentali, diacronia e sincronia”[57].
Spesso, Nino mi diceva che dovevamo scrivere un libro insieme, perché dovevamo innanzitutto divertirci. Nacquero sicuramente da sue sollecitazioni alcune mie ricerche. Quando, poco prima che se ne andasse, gli proposi di preparare un corso di latino di base, per una casa editrice con la quale collaboravo, fu felicissimo. Si diede subito da fare, progettò, scrisse ed in men che non si dica consegnò un bel lavoro[58]. In fondo con quel libro di latino egli continuava il gioco degli opposti che aveva giocato tutta una vita: rigore e divertimento, complessità e seduzione, incanto e disincanto. “Questo libro raccoglie anche –e racconta- le diverse manifestazioni di quella vitalità: il pulsare di quella lingua nelle allusioni, nelle invettive, negli aneddoti che quotidianamente si narrano, nelle etimologie e nelle citazioni di cui è infiorato, nelle sentenze, giocose e sapienti, che si tramandano da una generazione all’altra”. Insomma, un libro alla Nino Pino, col fascino della parola, col gusto dell’aneddoto, con l’occhio sornione e lo sguardo profondo. Come una continua malia. Ed anche in quel suo lavoro non poteva esser taciuta la sua fede politica, i valori che la sostenevano, la solidarietà che la contraddistingueva (un tempo!): “E’ dal latino medioevale che giunge fino a noi una delle parole che esprimono molto calore e molta solidarietà: compagno. Non senza ragione questa parola è stata largamente adottata da movimenti politici, con l’intento di indicare una stretta coesione tra i militanti. La parola d’origine è “cumpanio”, composta da “cum” (con) e “panis” (pane). Significa, è facile intendere, che mangia lo stesso pane”. E, quindi, per continuare ad insegnare divertendo (ma, soprattutto, divertendosi), in quel libro di latino, comparvero i male dicta (male [cattive] parole), il latino di Chitarrella (De règulis ludendi ac solvendi in Mediatorem et Tresseptem [Rèvole de jocare e pavare lo Mediatore e lo Tressette][59]), quello dei clerici vagantes (RA RA RA ES ET IN RAM RAM RAM I I O CUR TUA TE BE BIS BIA ABIT[60]) e quello della via Gluck (Haec est narratio cuisdam nostri qui via Gluckea forte est natus[61]).
In chiusura di volume inserì, quindi, un’altra gemma: raccolse da un sito internet [62]“parole italiane moderne che non corrispondono a parole del latino classico, perché riguardano oggetti, situazioni e fenomeni che non erano ipotizzabili nel tempo in cui il latino classico fiorì”. E scovò, fior da fiore, annotando nel suo stile brioso, abbronzarsi (sole infuscari), cemento armato (lithocolla ferro durata), kamikaze (voluntarius sui interemptor), minoranza etnica (minor pars allophila), supermercato (pantopolium), tangente (questuosa largitio).
Nel marzo del 1976 Nino divenne consulente dell’Amministrazione Provinciale di Napoli per la direzione del C.P.E. (Centro per i Problemi dell’Educazione)[63] e, per tale incarico, ne diresse il Consiglio di Direzione Pedagogico-Didattica. Allora, si respirava, nel capoluogo partenopeo, una nuova aria politica e di impegno culturale; l’anno prima c’era stata “l’avanzata delle sinistre”, che avevano conquistato i vertici delle istituzioni. Maurizio Valenzi era il nuovo sindaco di Napoli; alla guida della Provincia, dopo anni di presidenze democristiane, c’era il socialista Franco Iacono.
La direzione di Nino coincise con un periodo di massima floridezza della presenza culturale e professionale dell’organo istituzionale provinciale. Il preside di frontiera, infatti, era riuscito a raccogliere intorno a sé un nugolo di docenti, che si incontravano, discutevano, proponevano, sperimentavano, producevano materiali didattici. Il punto di incontro era, appunto, il C.P.E. le cui sale erano ingombrate da mastodontiche fotocopiatrici, da sofisticati strumenti audiovisivi, dalla presenza di tanti docenti che si ispiravano –sotto la guida di Nino- alla scuola di don Milani, il prete di Barbiana. “L’impegno nei confronti delle istituzioni educative e il sostegno nei confronti dell’innovazione pedagogica e didattica ha costituito uno dei punti di riferimento più importanti del C.P.E., oltre ad esserne una delle attività istituzionali”[64].
La stanza del direttore (l’ufficio di Nino) era un locale angusto, con due sedie ed una scrivania. In quella stanza Nino si interrogò, si immerse in riflessioni, elaborò strategie e cercò di tracciare un nuovo profilo, in campo culturale, di protagonismo e di coordinamento sul territorio degli Enti Locali. Ritornavano e si riempivano di contenuti espressioni come democrazia partecipata, Repubblica delle autonomie contrapposta alla centralizzazione dei poteri dello Stato. Nino riprendeva antiche battaglie: “Partendo dalla fondata convinzione che la scuola di Stato non è la scuola gestita dallo Stato, ma –piuttosto- quella voluta dallo Stato, è necessario che gli Enti territoriali, con il concorso delle forze culturali e sociali, si impegnino a fondo per il superamento di questa linea centralistica e burocratica, attraverso gli ampliamenti degli spazi aperti dall’articolo 38 del decreto 616/77 –che prevede la possibilità di utilizzare locsli e attrezzature scolastiche per attività di formazione professionale di competenza regionale-, ma soprattutto attraverso il potenziamento degli organi collegiali, della loro autonomia, del loro reale potere di intervento e l’esaltazione di tutte le attività che determinano un’effettiva e fisiologica integrazione tra scuola e territorio ”[65].
Napoli e la Campania uscivano dal tremendo terremoto dell’anno precedente; c’era sbandamento ma anche tanta voglia di ricominciare[66]. In anticipo sui tempi, Nino tracciava la strada da seguire, lontana da ogni velleità di primazia, da logica da spoil system, da delirio da onnipotenza politica: “Nel generale impegno per la ricostruzione, l’essenza del problema –che, ancora una volta è di tipo politico- sta nell’intervenire sulle preesistenze, recuperando quanto di valido c’era in esse, ma acquisendo nuovi strumenti programmatori, nuove tipologie edilizie e tecnologie avanzate, organismi agili ed efficienti per un confronto e un raccordo costante tra contenuti culturali, pedagogia, didattica, edilizia, urbanistica, associazionismo, economia, strutture sociali, servizi. Obiettivo: pervenire ad esiti progrediti, a nuovi e più adeguati assetti della scuola nel territorio, per una più alta qualità della vita”[67].
Sembrano –a guardarle oggi- situazioni ed avvenimenti lontani anni luce dal nostro tempo. Sembra che nel quarto di secolo che ci separa da quel buio (e, perciò, tanto ricco anche di speranze[68]) periodo si sia percorsa tanta strada.
Poi, cancellando con un colpo di spugna don Milani e Pasolini, Codignola e Visalberghi, insieme a tanti altri pedagogisti e saggisti, nasce il termine –bruttissimo- essenzializzazione[69] ed ogni cosa ritorna più indietro di dove non sia partita.
Nino Pino fu tra i grandi animatori delle attività culturali dell’Istituto di Studi Carlo Pisacane, Centro di Ricerche e di Documentazione” di Napoli[70], che ebbe la sua voce nel prestigioso bimestrale “Campania Documenti”.[71] Soffiava il vento dello storico anno 1968 e “Dopo il sacco della città perpretato dal laurismo[…]ci fu una pattuglia di socialisti, non tutti eretici rispetto al partito, ma non tutti ortodossi, i quali, di propria iniziativa, senza suggerimenti sollecitazioni da parte di alcuno, meno che mai del gruppo dirigente del Psi, costituirono un centro autonomo di elaborazione di riflessione e di azione, che si chiamò “Carlo Pisacane” […] Era il segnale chiaro di un progetto politico-culturale ambizioso, al limite dell’azzardo, che conteneva in sé un’antinomia: la necessità dello studio e della ricerca rigorosa (con i conseguenti esiti documentali) e il confronto permanente tutto teso all’autogoverno delle comunità di base e al controllo delle rappresentanze che gestiscono il potere”[72].
Nino fu per tutti la vera memoria dell’Istituto. “Il nome e l’idea del Pisacane nacque dall’incontro di tre persone di scuola: il professore Clemente Bucciero, il professore Angelo Maria Quitadamo ed io. Nell’aula di una scuola di stenografia a via Duomo nacque il Pisacane. Di questa figura romantica s’era innamorato Bucciero, che doveva servirci a recuperare la storia del socialismo passato e quindi elaborare una sorta di strumentazione per il socialismo contemporaneo […] Avevamo tutti un amore appassionato per il partito, che incominciava ad entrare nel governo. L’Istituto fu, infatti, costituito alla fine del 1963. c’era stato il congresso socialista di Roma in cui s’era decisa la partecipazione al governo. Contemporaneamente ci fu anche molta attenzione al fatto che questo ingresso potesse determinare cadute dovute all’entrata nella “stanza dei bottoni”. La nostra ambizione era quella di essere allo stesso tempo supporto con idee, contributi e soluzioni anche politiche per il parito, ma senza eccessive compromissioni. Eravamo tra i demartiniani e i lombardiani. Qualcuno era anche i area nenniana. C’incontravamo poi tutti nella comune visione di come si sarebbero dovuto gestire le cose sia sul piano amministrativo comunale che politico generale. Forse solo Vera Lombardi er più a sinistra. Man mano che passava il tempo si chiarivano le nostre personali posizioni politiche, ma non venne mai meno il collante che ci aveva uniti sulle cose da fare. Alcuni passarono al Pci o ad altri schieramenti, ma tutti rimasero sempre insieme e molti continuarono a collaborare anche dopo aver assunto posizioni politiche molto più estreme ”[73].
L’stituto di Studi “Pisacane” privilegiò, tra le sue attività, quelle legate ai filoni del territorio, dei servizi e della partecipazione. Elaborò proposte e momenti di riflessione, infatti, sulle questioni urbanistiche della città di Napoli, sulla valorizzazione e l’uso intelligente dell’immenso patrimonio costituito dai beni culturali; costruì e spinse l’approvazione della legge per le Ville Vesuviane; strappò la legge per il finanziamento di Pompei; non uguale fortuna ebbe, invece, la proposta per il battesimo di un Istituto Regionale per i Beni culturali.
Alla scuola, manco a dirlo, fu dedicata un’attenzione particolare. Fu proprio Nino a proporre ed a curare ben tre numeri della rivista “Campania Documenti”. I primi due riguardarono la politica regionale per la scuola in Campania; il terzo presentò l’ambizioso progetto di un parco di attrezzature integrate nel Rione Sanità, dove “in un’area non amplissima come quella in questione, è possibile prevedere, da un lato, il recupero funzionale della preesistenza (scuola materna ed elementare “O. Fava”, scuola media “G. Lombardi”, corsi delle 150 ore per lavoratori studenti, istituto tecnico industriale “F. Giordani”), dall’altra la realizzazione di attrezzature polifunzionali, in uso alla scuola e al quartiere (sale di proiezione, biblioteche, palestre, verde, impianti per il tempo libero etc.), la cui gestione potrebbe esser devoluta, nella prospettiva dell’educazione permanente, al consiglio di quartiere e agli organi di gestione delle strutture scolastiche”[74].
Nei primi due numeri, curati da Nino e dedicati alla scuola, furono messi sotto la lente d’ingrandimento i numeri dell’istruzione in Italia e in Campania.
Partendo dai dati del censimento del 1971, emerse che, per la prima volta in Italia, lo Stato aveva sostenuto una spesa di 3.600 miliardi per l’istruzione e la cultura, superando –sempre per la prima volta- il tetto del 6% nell’incidenza sul reddito nazionale. La popolazione scolastica era di 9.395.000 unità, pari al 17% della popolazione italiana. E, poi, erano snocciolati i dati riguardanti la scuola dell’infanzia (Gli alunni della scuola materna ammontavano nel 1971-72 a 1.466.374 unità, con un tasso di scolarità del 54% rispetto al totale dei bambini in età tra 3 e 5 anni. Di essi 1.259.000 (83,6%) frequentavano la scuola privata, e solo 206.977 (16,4%) la scuola statale), la scuola dell’obbligo (Nel 1971-72 gli alunni iscritti alla scuola dell’obbligo erano distribuiti in 46.232 unità scolastiche e 393.classi), l’istruzione secondaria superiore (Gli alunni iscritti alle scuole secondarie superiori nel 1971-72 erano 1.720.496, distribuiti in 6.295 unità scolastiche e 70.417 classi), l’Università (Gli studenti iscritti alle università nell’anno accademico 1971-72 ammontavano a 759.872, di cui 631.150 in corso e 128.722 fuori corso), l’istruzione professionale (Gli alunni degli istituti professionali nel 1971-72 erano 271.261, di cui 155.066 maschi e 116.255 femmine, distribuiti in 1837 unità scolastiche e 13.793 classi), l’attività di doposcuola (L’attività di doposcuola ha interessato 620.362 alunni nella scuola elemnatre [14,4%] e 372.644 alunni nella scuola media [20%]), gli insegnanti (Nel 1970-71 il corpo insegnante era costituito da 660.793 unità. Il livello di “femminizzazione” del personale, non solo si mantiene su valori elevati [76,6% nella scuola elementare, 64% nella scuola media, 48,6% nella secondaria superiore, nell’anno 1969-70], ma mostra una tendenza al rialzo nella fascia dell’obbligo. Nel 1973 la spesa per il personale ha costituito l’87,5% della spesa corrente complessiva del Ministero della P.I.), l’edilizia (L’ultimo piano quinquennale e le procedure di esecuzione delle opere sono regolate dalla L.28/7/1967, n.641, peraltro scaduta nel 1972. Il fabbisogno di posti-alunno per i diversi tipi di scuola –considerando l’attuale situazione di doppi turni, uso di locali precari, sovraffollamento- è di circa 2.132.000 ) e la localizzazione (Nel 1970 su un totale di 35.382 sedi scolastiche per le scuole elementari, ve ne erano 556 con oltre 1000 alunni e 19.803 con meno di 50 alunni. Il 14,2% degli alunni delle scuole elementari frequentano ancora la scuola in II e III turno; ma le diffrenze tra le diverse zone sono fortissime (si passa dal 5,6% dell’Italia nord-occidentale al 32,6% dell’Italia insulare). Nelle scuole medie la percentuale è del 5,2%. Gli alunni che frequentavano pluriclassi nel 1969-70 erano ben 460.000 (10,5%)).
Ed in Campania? La situazione è ancor più tragica, perché alle note carenze delle istituzioni scolastiche si aggiungono i problemi tipici di una terra disgregata sotto il profilo sociale e depressa sotto quello economico. “La Campania è al terzultimo posto per il rapporto tra la popolazione da 0 a 3 anni e le unità di servizio: un asilo nido ogni 11.148 bambini…E’ quintultima per il numero dei bambini tra i 3 e i 5 anni che frequentano la scuola dell’infanzia. Solo, poi, l’88% dei bambini delle elementari passa alla scuola media (a fronte del 93% del nord ed il 95% del centro). Nelle scuole superiori la Campania fa segnare il più alto tasso di ripetenza nelle prime due classi; altissima è la mortalità scolastica. L’Università campana conta poco più di 97.000 iscritti (la Lombardia 86.000, il Lazio 103.000); la situazione edilizia è drammatica, le condizioni igienico-sanitarie sono precarie, la sperimentazione è scarsa”[75]. Di fronte a questo quadro a tinte fosche, cosa fa la Regione? Cerca un consenso democratico per risolvere il problema? Incoraggia la partecipazione popolare, per chiamare ad una comunità di intenti? O, nell’incapacità di rendere fruttuosi per i cittadini i poteri politici, si assiste al suicidio della democrazia? “Il discorso va tutto ricondotto sul terreno politico: è il solo che permetta di interpretare correttamente lo spirito della Costituzione, di affrontare il problema in termini nuovi (tenendo conto di tutte le “cose nuove” che si sono sviluppate nel corpo vivo della nostra società) e che quindi consenta di determinare il contributo delle Regioni, non solo nel gestire qualche potere, ma anche nell’affrontare e condurre avanti la riforma dell’apparato scolastico”[76].
Nino Pino, da uomo di sinistra, era iscritto alla CGIL-Scuola. Nel sindacato e per il sindacato aveva fatto battaglie e lavori. Negli ultimi anni, poi, in prossimità dell’età pensionabile, più forte s’era mostrata la sua necessità di rendersi utile alla conquista ed alla difesa di diritti in favore delle classi deboli. Così, senza mai perdere di vista i problemi della scuola, aveva cominciato a tendere lo sguardo verso l’mbito dell’immigrazione e le tematiche riguardanti il settore della terza età.
L’immigrazione era legata fortemente alla scuola, perché “l’avvenimento più importante e significativo del nostro tempo è costiuito dallo spostamento imponente di individui e di popoli da una parte all’altra del pianeta. Quel che va sottolineato sono le motivazioni di questo straordinario fenomeno: innanzitutto esso costituisce un modo per avviare una redistribuzione delle risorse, fino ad oggi concentrate nelle mani di una minoranza di gruppi nazionali; e, poi, ancora un modo per determinare un ridimensionamento delle culture”[77].
Venti anni fa, il fenomeno dell’immigrazione già non era controllabile e tutti coloro che erano dotati di un minimo di coscienza civica sapevano, in largo anticipo sui tempi attuali, che era destinato a crescere a dismisura. Agli individui, infatti, si sarebbero aggiunte le famiglie e, poi, si sarebbero formati i gruppi ed ancora intere comunità. “Se comprendiamo questo quadro nella sua interezza, noi abbiamo il dovere ddi individuare strategie e modalità di intervento che non siano di breve respiro, che tendano ad indurre stabilmente e radicare nella scuola l’educazione allo sviluppo, alla mondialità, alla polietnia, alla multiculturalità”[78].
Cosa può fare la scuola? Cosa deve fare la scuola? Una politica educativa valida per tutti? Un intervento saltuario sulla mondialità? Il ricorso al termine “interculturalità” assunto come riferimento di una moda ricorrente ma passeggiera? “L’interculturalità non è un modello teorico astratto, ma è un’esperienza che si vive in un ambiente e in un luogo ben definito, valorizzando il vissuto dei soggetti in formazione. Non possiamo produrre astrazioni o distillati teorici onnivalenti, perché le situazioni sono diverse, diversamente connotate e molto variegate. Basta pensare alla Lombardia e alla Campania, all’occupazione protetta dallo Statuto dei lavoratori e al lavoro nero del bracciantato sul litorale domizio, alle colf e ai vu’cumprà”.
Di nuovo l’esperienza dell’uomo di scuola faceva sì che le parole non fossero un mero esercizio mascellare. Nino individuava, infatti, nel decentramento dei poteri, nella vera autonomia scolastica, l’efficacia fattuale di programmi flessibili, adeguati a situazioni reali di territori difficili, gravidi di risorse umane e di diversità ma poveri di mezzi economici. In questo caso, specialmente, l’autonomia non poteva essere un lusso o un vuoto formalismo burocratico. L’autonomia scolastica doveva trasformarsi nell’assunzione di reali poteri decisionali, di responsabilità dirette delle scuole nel “fare” quotidiano, in un dar conto delle proprie attività, per rispondere, sì, della capacità di progettare, ma soprattutto per garantire che il capitale umano e finanziario non sia un inutile spreco di investimenti e risorse. “Che cosa deve essere rivisto e messo a punto? Certamente l’organizzazione, la sede, la struttura, i modi del fare scuola. La revisione attenta di queste cose deve consentire al sistema formativo di accogliere, assumere e far proprio quanto nel mondo c’è di nuovo e di insolito. Diversamente saremmo superati dai tempi, costretti a fingere di fare qualcosa, a varare barchette di carta in una bagnarola, agitando poi l’acqua, per simulare le tempeste reali che sono fuori. E queste, le tempeste, ci sono veramente”.
Per vivere, da una visuale diversa, i problemi dell’educazione scolastica, Nino non disdegnò di giocare il suo impegno anche fuori dall’Italia, in Europa. Così, nel 1987, se ne andò a Berlino a fare il presidente di commissione per gli esami riservati ai lavoratori. In quell’occasione, infatti, egli si trovò in un’aula al primo piano della Caritas verband, Gotzstrasse 65, Berlin 42, a leggere i temi o a valutare il colloquio di lavoratori –tutti cinquantenni ed anche ultracinquantenni- tesi nello sforzo di “mirare a obiettivi di integrazione “biculturale”, in quei Paesi europei di consolidate tradizioni, dove ragazzi e adolescenti italiani, allontanandosi sempre più dalle loro radici, finiscono per galleggiare nel vuoto pauroso della nuova condizion di apolidi culturali…Impegnativi discorsi di dimensione pluriculturale, intercultural, transculturale…”[79].
Ma per affrontare la trasformazione di una scuola multietnica, che integri, che non allontani, che non emargini, bisogna cambiare innanzitutto il sistema di valori di cui ciascuno è portatore. C’è bisogna di un nuovo e diverso approccio culturale, modificare i parametri e –non solo a parole- il punto di vista di ciascuna delle discipline. “Questo significa, ad esempio, che per la storia si deve spostare all’indietro il punto di partenza. Oggi si parte dai Romani, dai Greci o, andando più indietro, dal codice di Hammurabi. E, invece, bisognerebbe portare molto più indietro il cursore lungo l’asse della diacronia: non tanto per ricercare a tutti i costi radici comuni, ma per seguire le tracce delle migrazioni antichissime, rinvenendo, tra l’altro, crani di negroidi sulle nostre Alpi. Così dovremmo rivedere anche i parametri della sincronia, ampliando il raggio di lettura dello spazio. Basterebbe introdurre piccole innovazioni: mostrare, ad esempio, in classe carte geografiche che non siano eurocentriche. Sono prospettive nuove, a prima vista irriconoscibili (pensate alle carte dei navigatori arabi, che portavano in alto il Medio Oriente). È un fatto educativo di notevole rilevanza recuperare la convenzionalità della rappresentazione simbolica dello spazio, correlata com’è ai fattori storico-politici molto precisi, che si identificano poi con i valori di cui noi siamo, consapevolmente o inconsciamente, portatori. Perché in Sicilia, per dire che una persona è cattiva, si dice “Chiddu tintu è”? E, in siciliano, come in spagnolo, “tinto” vuol dire nero. Perché nei dipinti di alcune chiese del XVI secolo i diavoli dell’inferno hanno i volti degli aborigeni del Brasile? Ecco, bisognerebbe scoprire queste cose insieme con i ragazzi, comprendere le ragioni storico-antropologico-geografiche di questi piccoli indizi e grandi fatti. Può realizzarsi tutto questo? Io non mi faccio soverchie illusioni sul “forte impegno innovatore” della scuola, cioè di quelli che ci lavorano. Ma l’importante è muoversi in questa direzione, imboccare la strada del rinnovamento, assumere progressivamente un nuovo modo di atteggiarsi. Quel che conta –e non è poco- è che finalmente si determini il rifiuto, da parte dei docenti, della vecchia e stupida operazione di travaso nella testa degli alunni di pacchetti informativi preconfezionati e sistemi di valori predigeriti”[80].
Qualche anno dopo, da presidente dell’Auser Campania[81], Nino darà un grosso contributo al progetto BIAN[82]. Il progetto era nato dalla collaborazione fra la Sovrintendenza Scolastica della Campania, l’Auser, con partner il Comune di Napoli e tre ONG[83] operanti nel campo dell’educazione interculturale. Anche in questo progetto, volàno del cambiamento sarebbe stata la scuola; “In quale contesto di strategie formative si inserisce l’educazione interculturale? In una scuola della transizione bisognerà fare i conti, da un lato, con situazioni nelle quali processi e programmi si presentano solo parzialmente “riformati” (o quasi non scalfiti) e, dall’altro, con situazioni in cui la spinta innovativa ha già previsto l’inevitabile riduzione quantitativa dei “contenuti” in favore di un maggiore approfondimento dei “nuclei fondanti” delle discipline e dei loro statuti”[84].
A Napoli, crocevia di traffici ed incontri transnazionali oltre che snodo cruciale di tutti gli antichi mali e rimedi legati alla questione meridionale, le categorie dell’emarginazione e dell’integrazione occupano un posto di primo piano. Nello stesso capoluogo partenopeo, quindi, ancora una volta, la scuola diventa il capofila di un intervento di sarcitura tra le culture, gli uomini e le storie. E come se non con un progetto didattico rivolto all’educazione interculturale, che sistematizzi materiali multiculturali, preziose risorse per l’insegnamento? “Non è un sogno proibito l’obiettivo di garantire il diritto di ciascuno alla diversità, senza che questa precipiti in un ghetto i diversi…Mi verrebbe di parlare dei “centri scolastici socio-culturali” –poco più che una speranza- e di quello che bisognerebbe togliervi e di quello che bisognerebbe, invece, metterci dentro; perché lì, in quei centri, si potrebbero realizzare incontri non fugaci, per lavorare, studiare, produrre materiali didattici, progettare forme e modi nuovi di fare scuola”[85].
Ecco, allora, che ancora una volta termini come “pace”, “tolleranza” e “solidarietà” ritornano nella liturgia scolastica, col rischio di essere fagocitati nell’arco di una stagione di programmazione scolastica, rincorrendo una moda momentanea ed inseguendo una metodologia ed una didattica stereotipate. “In realtà, la solidarietà, la tolleranza, la non violenza, la pace non sono materie scolastiche e non possono essere insegnate come tali. Un grossolano errore fu già perpetrato ai danni della scuola media, quando fu introdotta, come disciplina affiancata alla Storia, l’Educazione Civica. Questa “educazione” e tutte le altre “educazioni” –è opportuno ripeterlo- devono, invece, pervadere diffusamente, come un plasma, le discipline. Sono pane quotidiano del fare scuola; sono incardinate in quel versante della didattica che, nei convenuti della pedagogia spicciola, erano chiamati obiettivi non cognitivi”[86]. È richiesto un accrescimento di professionalità, una rivisitazione delle certezze del sapere, una risistemazione di valori. “E’ evidente che il lavoro di appopriazione degli strumenti e degli attrezzi di lavoro da parte degli insegnanti sarà arduo. Si tratterà, infatti, di procedere a una lettura e a una revisione attenta dei contenuti –ma anche degli statuti- delle discipline: la stoia, l’economia, la geografia, le lingue e il resto. E si tratterà anche di attingere (“con coscienza e serietà”, come si dice) a un manipolo di discipline che non hanno ancora cittadinanza nella scuola: la sociologia, l’etnologia e l’antropologia. E ci scusiamo se è poco. Solo con un impegno serio di ri-fondazione professional sarà possibile prevedere la modernizzazione di curricolo mono e interdisciplinari, nei quali l’interculturalità sia una costante, innervata nel profondo degli apprendimenti ”.
In questo rinnovato piano di formazione gli anziani si pongono come una risorsa. Essi rapprsentano, infatti, i testimoni di una cultura di cui, ogni giorno, si vanno perdendo consistenti pezzi. Gli anziani sono, perciò, memoria e conoscenza, passato e presente, cultura ed esperienza. “Ora chi, se non gli anziani, preziosi scrigni di conoscenze e memoria, può svolgere un ruolo centrale nel recupero del passato, per una chiara comprensione del presente, al fine di costruire un lucido e realistico progetto futuro? Depositari, spessocinconsapevoli, di un patrimonio culturale autentico (cultura materiale, sapienza popolare, sonorità linguistiche) proprio i vecchi sono, quasi naturalmente, i primi –e autentici- testimoni privilegiati, referenti principali di un percorso di riscoperta delle radici”[87]. Perché, questi testimoni privilegiati, non individuarli, consultarli, reclutarli, renderli funzionali ad un progetto educativo? Tra le associazioni di volontariato, che vivono e operano nella prospettiva di recuperare potenzialità e capacità (ma anche di prolungare –con le attività- la vita) anche “a Napoli, c’è, tra le altre, l’Auser, una Onlus di dimensione nazionale che opera in favore di gruppi sociali più deboli ed esposti, come gli anziani. In Italia ha 160.000 soci ed è in fase di continua crescita. A Napoli ha quattro strutture molto attive. E l’Auser è promotrice del progetto BIAN.[…] Per l’Auser, poi, c’è un altro ambizioso obiettivo, non pedagogico né didattico, ma ricco di valenze sociali: un incontro tra generazioni, non banale e non fittizio. Potrà essere un modo per restituire un senso e un fine alla vita dei vecchi –un popolo sempre più numeroso- troppo presto e troppo sommariamente e ingiustamente emarginati e messi in angolo, come appendice residuale, fastidiosa e ingombrante ”[88].
L’Auser Campania è, come detto, un’associazione di volontariato che opera per la protezione e la tutela dei gruppi sociali più deboli ed esposti, soprattutto gli anziani. A Napoli, dove operavano ed ancora sono attive quattro strutture, una sede dell’Auser era alloggiata al primo piano di un antichissimo palazzo in via Santa Maria di Costantinopoli, nel cuore del centro storico. Proprio nella stessa strada in cui, a qualche numero civico più avanti -in un appartemento al secondo piano di un altrettanto antico palazzo che era stato l’abitazione-studio del giurista Nicola Amore-, era posta la prestigiosa sede dell’Irrsae Campania.
Così Nino, quando nel 1993, per raggiunti limiti di età, lasciò il suo lavoro di ricercatore all’Irrsae, si trasferì, armi e bagagli, alla presidenza dell’Auser Campania. Sembrava un ragazzino al primo impiego, tanto era l’entusiasmo che connotava la sua giornata nell’associazione di volontariato. Anzi, l’esperienza dell’Auser gli garantì la possibilità di restare nel campo dell’educazione –l’educazione permanente- e rivolgersi agli anziani con gli stessi strumenti, che aveva maneggiato per una vita: l’affabulazione della parola, la profondità del sapere, il fascino della conoscenza. Insomma, con una leggerezza unica, operò una vera rivoluzione nel campo del volontariato e nella tutela degli anziani, del terzo settore. “Senza di loro –quelli del terzo settore, del non profit-, della solidarietà, il patto sul lavoro sarebbe stato diverso…a loro ci si dovrà riferire come ad attori protagonisti tutte le volte che si disegneranno nuove politiche per l’occupazione e per il lavoro; in loro essenzialmente si accenderà il motore per la riforma dello stato sociale”[89].
Gli anziani, in questa nuova ottica, non sono merce residuale. Bisognava insistere su questo concetto e Nino Pino sapeva farlo bene, era uno che non demordeva facilmente. Il suo intento era quello di dimostrare che con gli anziani si potevano rianimare gli spazi agricoli, ripulire le spiagge, far funzionare le biblioteche, valorizzare piccole realtà museali (altrimenti precluse ai visitatori) o, più semplicemente, governare il traffico davanti alle scuole (i nonni civici). Insomma, gli anziani diventano i capofila di un processo di sviluppo, che poteva configurarsi come un nuovo indotto produttivo, perché capace di procurare nuove occasioni di lavoro ai giovani. “E quegli anziani -soprattutto le donne- che si ritrovano ancora energie residue (e volontà di ferro), si rimboccano le maniche e rinforzano il circuito della solidarietà, affrontando i disagi dell’assistenza materiale alle persone non più autosufficienti. Lo fanno gratis. Colmano così, questi vecchi, l’assenza di un servizio, ben più articolato e costoso, che le istituzioni avrebbero l’obbligo di fornire. Quando il loro impegno avrà fatto crescere e consolidare la domanda di servizi e avrà indotto i Comuni a destinare a essi risorse reali, sarà il momento in cui il discreto “passo indietro” degli anziani lascerà spazio ai giovani, alle cooperative sociali, al lavoro retribuito. Terribili vecchi ”[90].
Agli inizi degli anni novanta dello scorso secolo Nino Pino cominciò a parlare dell’università della terza età. Facemmo molti incontri, discutemmo a lungo. Ci presentò l’idea che gli frullava per la testa: un luogo di incontro per anziani stimolati e motivati ad apprendere, senza, però, mai smettere di divertirsi. Un sapere con leggerezza, senza farlo pesare, come era nello stile di Nino.
Nel 1996 nacque, per iniziativa dell’Auser Campania e dello SPI CGIL Campania, l’Ulten (Università Libera per Tutte le Età), associazione non profit. La nuova sede fu individuata in vico S. Aniello a Caponapoli, nel centro antico, ancora una volta ad un tiro di schioppo dal palazzo dell’IRRSAE Campania. Per l’Università Libera Nino coniò il motto “Sapere è bello, ricordare anche di più”. Furono giornate entusiasmanti, con anziani entusiasti di apprendere con leggerezza. In quei giorni Nino riprese –ma non aveva mai smesso- ad essere maestro. Curò i testi di una messa in scena, “Nemmeno gli dei”, sulla drammatica distruzione subita da Pompei, nel 79 d.C.; intrattenne i suoi coetanei parlando della cena di Trimalchione, dei miti dei Campi Flegrei, della Solfatara e della Grotta del cane, dei Libri sibillini, di Baia secondo Orazio (Nullus in orbe sinus Bajis praelucet amoenis)[91]. Nel 1999, in occasione del bicentenario della Repubblica napoletana, l’Ulten organizzò una caccia al tesoro a mo’ di incontri intergerazionali. “Siamo stati anche noi, con i nostri giochi “Alla ricerca del ‘99”, i nostri volontari e le nostre postazioni nei luoghi memorabili della città, da Castelnuovo a porta Capuana a piazza del Mercato, dove passavano a volo le diverse pattuglie dei “cacciatori”, ognuna composta da sette campioni, quattro ragazzi, un genitore, due nonni: l’intreccio di tre generazioni. Era il 22 maggio, una giornata con qualche rovescio di pioggia e molte coccarde e bandiere della repubblica (blu, giallo e rosso). Hanno corso, si sono bagnati, si sono diveriti un mondo, ragazzi, adulti e vecchi. Hanno ritrovato il sapore dello stare insieme, risolvere enigmi, cercare immagini e oggetti, frugare nei fatti della regina Maria Carolina e di san Gennaro quando si alleò con i giacobini(!)”[92].
Ecco, quello dell’intreccio intergenerazionale –come ipotesi di lavoro- era il vero filo conduttore di tutto l’impegno profuso all’Auser ed all’Ulten. In effetti, l’uomo di scuola illuminato, con basi da autentico socialista, si batteva per realizzare la sua utopia: un rinnovato stato sociale, in cui i protagonisti diventavano quelli considerati più deboli. “Da qualche anno, tra i luoghi comuni più spesso citati, a proposito o a sproposito, ce n’è uno che in breve tempo è diventato addirittura logoro: “Gli anziani non sono un peso, sono una risorsa”. Ecco: forse il progetto BIAN è un’occasione per dimostrarlo. Un’ipotesi non peregrina è ch, proprio sul piano della formazione dei giovani, gli anziani siano una risorsa preziosa, se è vero che essi sono depositari, spesso inconsapevoli, di un patrimonio culturale autentico, del quale troppo velocemente vanno disperdendosi e cancellandosi i tratti essenziali. Noi stiamo –pericolosamente- perdendo “pezzi” di quella cultura material (fatta di sapienza popolare, riti religiosi pagani e controriformisti, miti, peculiarità linguistiche suggestive, arguzia e salacità fescennina, cultura della mensa, della convivenza, dell’amore e della morte), che costituisce l’essenza originale e irripetibile del nostro essere napoletani e campani”[93].
Ancora oggi, a distanza di tanti anni e con un vissuto abbastanza lungo alle spalle, mi sorprendo a chiedermi: ma che significa essere socialista? Come deve essere un socialista? Perché, nell’era della globalizzazione ed in piena crisi dei partiti, ancora c’è quella sottile linea di demarcazione tra chi si professa di sinistra e chi, all’interno della stessa sinistra, si dichiara, con orgoglio, socialista?
Se penso a modelli nazionali, non posso non pensare a Lombardi, a Pertini, a Nenni; se penso a modelli più vicini, alla tradizione socialista meridionale nella quale sono cresciuto, allora i nomi sono quelli di Francesco De Martino, Gaetano Arfè e Nino Pino. In particolare Nino mi ha insegnato il socialismo delle piccole cose, degli atti quotidiani, dei rapporti tra gli umili, del riscatto sociale. Egli ha militato per anni nel Psi ed ha ricoperto anche ruoli di responsabilità all’interno della Federazione napoletana. Nel 1970 fu anche il candidato del Psi alle elezioni provinciali nei collegi napoletani IX ed X (Vomero)[94]; la sua propaganda elettorale si racchiudeva in un semplice slogan. “Una scuola per l’uomo di domani”. Come sempre, Nino vedeva più avanti degli altri; nel suo biglietto di propaganda, infatti, era chiaramente scritto: “Non basta fare più scuole: occorre farle subito, farle bene, nelle dimensioni giuste, nei posti giusti. Un’edilizia nata vecchia distrugge ogni possibilità di realizzare domani una scuola moderna. Sarebbe un’altra occasione perduta per Napoli”.
Per quelle stesse elezioni del 1970 –quelle in cui si eleggeva per la prima volta il Consiglio Regionale- l’Istituto di Studi “Carlo Pisacane” produsse un proprio documento in cui già si denunciava l’irrimediabile frattura tra la società civile e quella politica. L’accusa, infatti, partiva dalla constatazione che, sempre più spesso, il venticinquennio repubblicano, pur nella consapevolezza di una “questione meridionale”, aveva agito, spesso, per interessi di parte, con analisi parziali, con una strategia politica priva di interventi riformistici, gonfia di pratiche trasformistiche, lontana da effettivi movimenti di massa. “Causa ed effetto di questa pratica politica è stato il distacco fra società politica e società civile, che è andato sempre più accentuandosi via via che si esauriva la potente spinta rinnovatrice degli anni della Resistenza e della fondazione della Repubblica. Dai movimenti di massa si è passati alla egemonia dei gruppi dirigenti dei partiti e del notabilato politico: esauritosi questo sistema si è passati alla lotta per il potere di gruppi sempre più clientelari ed organizzati e sempre meno motivati da reali diversificazioni politiche”[95].
Si era già alla crisi dei partiti; si metteva già in discussione il valore aggiunto della partecipazione dei cittadini per non mettere in discussione i piccoli poteri personali, le clientele elettorali, i favori ai clan. Insomma, gli ideali della Resistenza, la valorizzazione delle conquiste dei lavoratori, le libertà civili erano in messe in forte pericolo dalla spinta silente alla spoliticizzazione dell’individuo. “Le condizioni di partecipazione di base sono oggi tali che ogni individuo è costretto a scindersi in tre momenti diversi: come componente di un sistema sociale esso è una unità che, attraverso la propria classe sociale, è ricondotto nella struttura della società, ma nell’ambito di un sistema economico, le struttre, e cioè le imprese, gli affidano un ruolo che comunque è di lavoratore-consumatore. Il sistema politico-ideologico, attraverso le proprie strutture (partiti ed apparati), non sa far altro che immetterlo in un sistema di clientele, più o meno politicizzate, alle quali non si partecipa che come elettori”[96]. L’antidoto a questa errata idea della politica è la partecipazione popolare, “la sola in grado di evergere il sistma dei comportamenti stagni, per riunire i tre elementi individuali di base, in modo da riproporre come protagonista il cittadino, partecipe di un sistema sociale, economico e politico generale, in cui strutture e ruoli appaiano nella attuale alienante divisione, ma vengano coinvolte in una serie di reciproci controlli e compensazioni”[97].
L’appello è, quindi, ad una rivisitazione del modo del fare politica; ad una rivalutazione delle politica delle riforme messa in atto dal primo centro-sinsitra; ad una reinterpretazione dello stesso termine di “politica, che deve contenere nel suo significato un “qualcosa in più”. “Più politica significa lotta al fascismo ed alla repressione, ovunque si annidi[…] Più politica significa più rappresentatività […] Più politica significa l’analisi delle cause profonde dello squilibrio territoriale, significa una urbanistica che non solo decentri le attività produttive, ma, attraverso la realizzazione dell’assetto territoriale, elimini la differenza fra centro e periferia nel territorio e nella città. Più politica significa indirizzare risorse verso incentivi pubblici e consumi collettivi comprimendo, senza eccezioni, lo sperpero parassitario derivante dagli incentivi privati, che non possono per la loro natura, non rivolgersi ai consumi individuali. Più politica significa riformismo aggressivo capace di legarsi agli aspetti più vivi e rivalutabili della realtà locale ”[98]. C’è un partito che può garantire, per autonoma scelta ma con grande apertura i orizzonti, l’opera di revisione critica, che gli consenta di diventare protagonista di un processo di profonda e radicale ristrutturazione della sinistra italiana? Gli intellettuali dell’Istituto “Pisacane”[99] di Napoli individuano nel Psi la struttura politica capace di garantire la trasformazione richiesta “Un avvenimento degli ultimi tempi, la scissione socialdemocratica, restituisce al Psi tutta intera la forza per irproporre al paese il suo legame con la matrice operaia e popolare, l’apertura verso i movimenti spontanei e verso la partecipazione di massa, la coerenza e la fermezza nella politica delle riforme, che offrono le garanzie necessarie perché in Campania, nel Mezzogiorno, nel Paese, si avanzi verso più politica, verso più libertà”[100].
Nino Pino fu a lungo segretario della sezione Vomero-Arenella e componente del direttivo provinciale del partito socialista. Fu quello che si definisce un “vero socialista”, coerente, onesto, ricco di dignità, con lo sguardo alle masse lavoratrici d alle classi meno abbienti, convinto che solo la cultura – e quindi la scuola- poteva avviare un serio processo di trasformazione nella società. Fu molto pasoliniano e più di uno, fuori e dentro del partito socialista, gli mosse l’accusa di giacobinismo. In effetti, Nino ed il suo “Pisacane”[101] furono un vero tormento per l’apparato del partito; i suoi (i loro) richiami ad un rigore di comportamenti, ad una evidente sensibilità per le questioni sociali, ad un rifiuto di una politica assimilabile a quella laurina e gavianea, lo (li) faceva vivere come una sorta di Cassandra. “In realtà la nostra produzione intellettuale risultò sempre fastidiosa per il partito. I politici ci vedevano come il grillo parlante. Non venivamo accettati. Allora De Martino non era più a Napoli. Erano gli anni di lotta tra Lezzi e Caldoro. Erano entrambi autonomisti, ma si davano grande battaglia. Antonio Caldoro era il maestro dell’organizzazione del gruppo strutturato, del gruppo di potere. Caldoro decideva decideva chi doveva andare a fare il deputato o il consigliere provinciale. Era un maestro dell’organizzazione delle clintele. Aveva fatto il bigliettaio nelle Ferrovie dello Stato, alla stazione centrale, e abitava in una via popolare alla Pigna. Apparteneva alla sezione Vomero. Lezzi invece rappresentava un gruppo di intellettuali socialisti che aveva “amoreggiato” anche con Compagna. È stato prima segretario della federazione, poi deputato. Noi avremmo voluto essere quelli dell’ufficio studi del Psi, ma i politici del Psi non ci considerarono mai tali né ricevemmo mai finanziamenti”[102].
Regnava, quindi, nel partito una grande confusione, che portava ad una paralisi delle attività politiche ed orgnizzative con un contemporaneo riferimento ad un esangue –per idee ed azioni- e ristretto gruppo dirigente, “importanti energie culturali sono state emarginate ed offese, privilegiando i portaborse asurti a compiti di “consiglieri” politici, economici o culturali”[103]. Le sezioni erano spesso chiuse e quando aprivano, il più delle volte, “si parlavano addosso”, vivendo, come una faida, le appartenenza alle varie correnti e sottocorrenti. La cultura era totalmente assente. Anche nella formazione delle liste i candidati “intellettuali” erano tenuti fuori o collocati in posizione di retroguardia. Ricordo, a tal proposito, che una volta Nino mi chiese (non so più per qual elezione) di impegnarmi a favore del professor Gnoli, rettore dell’Istituto Universitario Orientale, “una persona di quel livello”, mi disse, “rischia una bruttissima figura, perché il partito non gli procura alcun voto anzi, se lo trova, glieli toglie pure”. Insomma, si era arrivati all’era del partito delle tessere, degli assessoratii, delle presidenze e delle vicepresidenze nei consigli di amministrazione delle municipalizzate, degli ospedali, delle banche.
Poteva un uomo, un intellettuale, un socialista come Nino Pino condividere un simile percorso? Certo che no! Così, il 13 dicembre 1977, egli, insieme ad altri quattro esponenti[104], sottopose al dibattito ed alla votazione del comitato provinciale socialista un duro documento[105], che preannunciava una posizione[106] ancora più forte nell’imminenza del 3° Congresso Regionale da celebrarsi prima del 41° Congresso Nazionale del Psi.
Si apriva la fase di confusione. I partiti erano alle soglie del disfacimento. Nino, come tantissimi compagni, assaporarono il pane della sconfitta, della perdita, quasi di un lutto.
Nino Pino è morto, in una notte del mese di novembre del 2001, a settantatre anni.
Si era nel mese di giugno, quando di buon mattino, prima di andare a scuola a presiedere gli esami di licenza media, mi presentai a casa sua, in via Girolamo Santacroce 8. Sapendo di fargli cosa gradita, gli portai una cesta di albicocche del monte Somma. Mi accolse, come sempre, con i sentimenti ed i comportamenti di una solare amicizia. Poi, mi chiese di accompagnarlo ad una laboratorio medico, nel cuore del suo Vomero, a ritirare delle analisi cliniche. Da un po’ di tempo, infatti, accusava un dolore dalle parti dell’ascella sinistra; “vorrà dire” aggiunse “che dovrò stare un po’ più attento e decidermi ad avere più attenzione per la mia salute”. Prima di lasciarlo dalle parti di Piazza Imamcolata, entrammo in un bar, consumammo caffè e cornetti. Nino era molto contento di quella inusuale passeggiata fatta insieme; non si decideva a lasciarmi andare; raccontava di tutto, pur di trattenermi. Alla fine fece anche una delle imitazioni che più gli piaceva gli riusciva: quella del vecchietto dei film western. Ci salutammo, abbracciandoci. Dal finestrino dell’automobile già in moto, gli dissi: “Poi ti chiamo, per sapere il risultato delle analisi. Vedrai, non è niente”.
Lo chiamai dopo qualche giorno. Mi disse con voce dura: “Ho un cancro!”.
In quei due o tre mesi che gli restarono da vivere lo chiamai svariate volte, gli andai a fare visita a casa. Ebbe la capacità di tenere il “suo male” come lontano da sé. Ne parlava con Stefania, la moglie, già su una sedia a rotelle; ne parlava con me; ne parlava con qualche amico. Parlava delle medicine che doveva prendere l’ammalato, non lui. In un giorno di fine ottobre mi trovai a casa sua, proprio quando era arrivato uno specialista per una visita. Nino era, sofferente, a letto, ma non lo dava a vedere; Stefania aveva difficoltà, con quella sedia a rotelle, ad incunearsi negli angusti spazi tra il letto ed i mobili. Ricordo che, mentre io rovistavo in un cassetto, indicatomi da Nino, per tirare fuori qualche ultima radiografia o TAC, egli, come a tenere lontano il “suo male”, parlava col medico della storia del mondo, che era cambiata con l’attacco terroristico dei kamikaze islamici alle Twin Towers di New York.
Quando le sue condizioni di salute si aggravarono, per una strana combinazione del destino -ma, forse, anche per rendere più saldo il suo ricordo dentro di me-, Nino fu ricoverato in una struttura sanitaria a Somma Vesuviana. La finestra della sua stanza, all’ultimo piano, si affacciava proprio sull’asse stradario Somma-Napoli, che io percorrevo ogni mattina. Ogni pomeriggio, alle diciotto, gli andavo a fare visita; nei primi giorni appariva vigile, ancora capace di tenere una discussione. Mi chiese di fargli capitare una copia del suo libro di latino, pubblicato pochi mesi prima; ne doveva fare omaggio ad un medico che lo assisteva.
Il mercoledì pomeriggio lo trovai strano; non riusciva a parlare bene; le parole si componevano quasi incomprensibili. Mi guardava con i suoi occhi intensi, profondi, come a volermi comunicare qualcosa che non volevo capire o, forse, accettare. Il giorno successivo fu ancora peggio.
Il sabato mattina arrivò la notizia, che non avrei voluto mai ricevere. Nino se ne era andato. Le sue spoglie mortali erano state già portate nella sua casa di Napoli. Innumerevoli amici, allievi, compagni, docenti, colleghi gli tributarono l’estremo saluto. Poi, la domenica mattina, in una città priva dei caotici rumori settimanali, un commosso corteo funebre, senza rito religioso, accompagnò Nino in un’anonima fossa del cimitero di Poggioreale.
Ogni tanto mi sembra di risentire ancora la sua voce, come quando argomentava, quando invitava a far qualcosa, quando scandiva le parole misurandole nel significato, quando recitava poesie: Nella stazione di Monza/ c’è un treno che ronza./ Hanno ucciso il re,/ con palle tre. Quella stessa voce impostata, sonora, calda, che ogni tanto, ripeteva, a memoria, un brano degli Scritti giovanili di Gramsci: “Odio gli indifferenti, perché mi dà noia il loro piagnisteio di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime…Vivo. Sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.
Da quel novembre del 2001, ogni mattina ed ogni sera, quando percorro la Somma-Napoli, passando accanto alla struttura sanitaria, non posso non guardare a quella finestra dell’ultimo piano. È in quel preciso momento che ci salutiamo, ci scambiamo impressioni, ci immergiamo in discorsi e ci prendiamo in giro. Come sempre.
Grazie di tutto, Nino.
[1] Regione Campania-Assessorato alla Pubblica Istruzione, Progetto di istituzione dei distretti scolastici nel territorio del Comune di Napoli, Istituto di Studi “Carlo Pisacane”, Napoli, dicembre 1974.
[2] A. Pino, Le utopie di Aldo…, La Repubblica (Napoli Cronaca), 24 settembre 1992. A distanza di pochi giorni dalla pubblicazione dell’articolo, il professore Masullo indirizzò una lettera di ringraziamento a Nino Pino: “Carissimo Nino, lessi con grande emozione il profilo di me giovanissimo insegnante da te tracciato su “Repubblica”. Ti confesso che, ancor più che gratitudine, forte è la mia ammirazione per la qualità, insieme rigorosa e lieve, precisa e immaginosa della tua scrittura, in cui l’eleganza non è turbata dal sentimento, né il sentimento raggelato dall’eleganza. Attraverso le tue parole ho ritrovato un tempo della mia vita, che sembrava perduto ed è invece ancora vibrante, ed un inaudito me stesso visto con gli occhi stupiti ed entusiasti di un adolescente di allora. Soprattutto mi è caro aver scoperto che un tal “adolescente di allora” eri tu: è come aver ritrovato il tesoro di un’amicizia smarrita, uno degli innumerevoli fili di cui, come scrisse Proust, è intessuta la nostra vita. Un grazie ancora, ed un abbraccio dal tuo Aldo ”.
[3] Arghezi Tudor, pseudonimo di Ion Teodorescu, scrittore rumeno (Bucarest 1880-1967) considerato un miracolo letterario nel campo della lirica romena moderna, per aver dominato con la sua vastissima opera la metà del secolo XX. Tra le sue pubblicazioni si ricordano Cuvinte Potrivite (Parole Appaiate) opere in versi del 1927, il poema Cintare Omului (Inno all’uomo) del 1956, Carte cu Jucari (Libro dei giocattoli) del 1931, Hore del 1931 e Stihuri-Noi (Versi Nuovi) del 1955.
[4] Una delle poche scuole medie napoletane con sperimentazion di integrazione scolastica, D.M. 20/9/1974.
[5] Organizzazione per la Preparazione Professionale degli Insegnanti.
[6] A. Pino, Su alcune significative forme devianti presenti nell’area napoletana e ascrivibili a modello dialettale, in Rassegna Italiana di Linguistica Applicata, n.2, 1970, Bulzoni, Roma.
[7] Ministero della Pubblica Istruzione, Centro Didattico Nazionale per la Scuola Media, Incontro di studio per animatori delle attività del doposcuola, (Castelfusano, 3-16 dicembre 1968).
[8] A. Pino, La scuola integrata, in Scuola Lucana rivista bimestrale di critica, di informazione e di orientamento scolastico e professionale, Anno V, n.1, febbraio 1969.
[9] “Non trascurabile rilievo dovrà essere riconosciuto alle attività integrative previste dalla legge, sia pure in forma facoltativa, per creare nella classe e nell’intera scuola una serena atmosfera, la quale dia senso di sicurezza e incoraggi le iniziative personali e associative degli alunni, con speciale riguardo a libere forme di esperienza espressiva e creativa e al rapporto operante con l’mbiente”, D. M. P.I. 24 aprile 1963.
[10] “Il largo ventaglio di materie, poste orizzontalmente sullo stesso piano con pari dignità; i nuovi compiti del consiglio di classe; le materie facoltative; le classi differenziali e di aggiornamento; il doposcuola”, in Aldo Visalbergi, intervento al Convegno dell’EUR sulla scuola media, organizzato dal M.P.I. a Roma nel 1966.
[11] A. Pino, Le attività integrative come momento fodamentale dell’azione educativa, in Scuola Lucana, Anno VI, n.1, febbraio 1970.
[12] A. Pino, “Fare i compiti”, in Scuola Lucana, Anno VI, n.1, febbraio 1970.
[13] A. Pino, Necessità di una svolta per la scuola nel Sud, in Avanti!, pag. 3, 26 luglio 1967.
[14] A. Pino, articolo citato, in Avanti!, 26 luglio 1967.
[15] P. Spremolla (a cura di), Un colloquio diretto tra scuola e famiglia, intervista a N. Pino, in Il Mattino (cronaca della Lucania), 19 febbraio 1969.
[16] A. Pino, Verifica di una riforma, in Scuola e Città (La Nuova Italia), n.1, gennaio 1969.
[17] “Abbiamo definito ignorante chi non sa farsi capire dagli altri e non riesce a comprenderli, definizione che si attaglia bene anche a molti che hanno studiato tanto.[…] Una persona colta ha una mente aperta e critica, pronta ad ascoltare le soluzioni che vengono da altrove e disponibile a correggere i propri errori. Una persona che sa argomentare le proprie tesi e che ha gli strumenti per capire gli altri. Possiamo poi dire che la cultura di un Paese si stabilisce misurando le capacità di chi esce dalle scuole. Se scopriamo che i nostri laureandi non sanno argomentare una tesi, oppure che i nostri maturandi non sanno fare un riassunto, scoprriamo che il nostro livello culturale è insoddisfacente”, in G. Floris, La fabbrica degli ignoranti, Rizzoli, Milano, 2008.
[18]A. Pino, Devono diventare cercatori di piste, in Nemo News (Bollettino di informazione interno dell’Associazione Nemo, Società per le riforme), Napoli, Anno I, n. 3, settembre 1994.
[19] A. Pino, Devono diventare cercatori di piste, cit.
[20] A. Pino, Il seminario permanente per la sperimentazione e l’innovazione pedagogica e didattica presso il CPE, in V. Gaudiello, V. E. Aloia, A. Pino, La formazione continua degli insegnanti, Quaderni CPE (Centro per i Problemi dell’Educazione dell’Amministrazione Provinciale di Napoli), n.1, 1977.
[21] A. Pino, Devono diventare cercatori di piste, cit.
[22] A. Pino, Il seminario permanente per la sperimentazione e l’innovazione pedagogica e didattica presso il CPE, cit.
[23] A. Pino, Devono diventare cercatori di piste, cit.
[24] Fu in omaggio a questa sua ammirazione per gli uomini delle riserve, che si scelse un canto indiano per ricordarlo a tre mesi dalla morte: “E’stato il vento a darci la vita, e quando il vento cessa, quello per noi è il momento di morire”. Le parole di un canto tradizionale navajo fanno da degna introduzione alla giornata “Per Nino Pino” in programma oggi pomeriggio all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici”, in Corriere del Mezzogiorno, 19 febbraio 2002.
[25] A. Pino, Devono diventare cercatori di piste, cit.
[26] Acronimo di Istituto Regionale di Ricerca Sperimentazione Aggiornamento Educativi, istituti con D.P.R. 419, 31/5/1974, col compito di raccogliere, elaborare e diffondere la documentazione pedagogico-didattica; condurre studi e ricerche in campo educativo; promuovere ed assistere progetti di sperimentazione; organizzare ed attuare iniziative di aggiornamento per il personale direttivo e docente della scuola; fornire consulenza tecnica sui progetti di sperimentazione e sui programmi, sui metodi e sui servizi di aggiornamento culturale e professionale dei docenti. Nel 2000 gli IRRSAE diventano IRRE (Istituto Regionale di Ricerca Educativa); nel 2007, infine, gli istituti di ricerca sono stati soppressi per essere assorbiti in ANSAS (Agenzia Nazionale per lo Sviluppo dell’Autonomia Scolastica).
[27] A. Casiello e A. Pino, IRRSAE e dintorni, in Valorescuola (Quotidiano del Sindacato Nazionale Scuola della CGIL), n. 70, 24 marzo 1990.
[28] A. Casiello e A. Pino, IRRSAE e dintorni, cit.
[29] “Il Parlamento è come il Paese. Presenta delle eccellenze e delle vergogne, ed è difficile separare le une dalle altre ricorrendo ai titoli di studio. Se ci lamentiamo del Parlamento, vuol dire che ci lamentiamo del Paese. Se non ci piace il primo, dovrebbe non piacerci anche il secondo.”, in G. Floris, La fabbrica degli ignoranti, cit.
[30] A. Casiello e A. Pino, IRRSAE e dintorni, cit.
[31] A. Pino, Qualche risposta ai nostri critici, in Valore Scuola n. 174 del 29 luglio 1991.
[32] A. Pino, Qualche risposta ai nostri critici, cit.
[34] A. Pino, Qualche risposta ai nostri critici, cit.
[35] “In una scuola come quella italiana, tanto impermeabile alle novità di “sistema”, spunta talvolta –quasi per caso- un fiore solitario: improvviso, inatteso, insolito. Così è avvenuto per le quattro nuove figure professionali, che hanno avuto il loro sommesso avvio in una decina di righi di un decreto-legge, concepito soprattutto per raschiare il fondo della botte della spesa pubblica per l’istruzione. Se di un fiore si tratta, è certamente un fiore di cactus: non solo perché raro e perché circondato da molte spine; ma, soprattutto, perché fragile ed esposto a tutti i venti del deserto. ”, P. Giugliano, introduzione a Una marcia in più? Nuove figure professionali nel sistema scolastico (a cura di A. Pino), supplemento al n. 4 del periodico CGIL & SCUOLA, Napoli, 1990.
[36] A. Casiello e A. Pino, Le figure professionali per una scuola delle autonomie, in Valore Scuola n. 231 del 9/11/1993.
[37] A. Casiello e A. Pino, Le figure professionali per una scuola delle autonomie, cit.
[38] A. Casiello e A. Pino, Le nuove figure professionali per una scuola delle autonomie, cit.
[39] Dopo 15 anni, il governo italiano, in un piano di ridimensionamento delle unità scolastiche, scrive: “Riconversione professionale dei docenti: saranno attivati corsi di riconversione professional per i docenti, facenti parte delle classi di concorso in esubero, nonché corsi relativi ad altre tipologie di docenti, ai fini dell’inserimento in classi di concorso più ampie”, in Schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze di cui all’art. 64 del D.L. 25 giugno 2008, n.112, convertito dalla L. 6 agosto 2008, n.133, a firma dei ministri Gelmini e Tremonti.
[40] A. Pino, L’ameba, il semìno, la cicogna e la coperta, inserto in Valore Scuola, n.18 del 26 gennaio 1993.
[41] All’epoca della discussione sull’introduzione dell’insegnamento dell’educazione sessuale nella scuola, il principio era chiaramente espresso nei programmi della scuola elementare (1985), nei programmi di scienze, “Verranno compiute osservazioni sulle differenze tra gli individui di diversa età, tra i due sessi, che consentiranno di svolgere considerazioni sulla riproduzione, l’accrescimento e lo sviluppo, la maturità e l’invecchiamento”; nei programmi della scuola media (1979), nell’insegnamento delle scienze matematiche, chimiche, fisiche e naturali, “Nello sviluppare il tema “l’uomo e l’ambiente” l’insegnante avrà occasione per soffermarsi sugli aspetti biologici della sessualità: questo momento educativo andrà curato nell’ambito di una pedagogia d’insieme assunta dall’intero consiglio di classe nel rispetto del grado di maturità fisico-psichica dei singoli allievi e con un coinvolgimento attivo e responsabile delle singole famiglie. Esso potrà contribuire a far sì che l’alunno prenda coscienza del proprio corpo in modo equilibrato e corretto”; nei programmi (licenziati dalla commissione Brocca nel 1990) della scuola secondaria superiore nei bienni, programmi di biologia, “Trattando del ciclo biologio della specie umana, si possono dare informazioni sulla sessualità e sulla procreazione e si possono illustrare le modificazioni dell’organismo alle varie età” e nei trienni , programmi di biologia, “La sessualità ed il suo diverso significato nelle varie fasi del ciclo della vita”.
[42] Analoga preoccupazione era stata manifestata
[43] A. Pino, L’ameba, il semìno, la cicogna e la coperta, cit.
[44] IRRSAE della Campania, Formazione di formatori, ciclostilato inedito.
[45] IRRSAE della Campania, ciclostilato cit.
[46] A Napoli e provincia funzionavano dieci scuole medie“con sperimentazione di integrazione scolastica”; in città erano la “Confalonieri” (S.Biagio dei Librai), la “De Sanctis” (Riviera di Chiaia), la “Lombardi” (Sanità), la “Moscati” (Masseria Cardone), la “Salvator Rosa” (piazza Cavour), la “Santa Maria di Costantinopoli” (Museo), la “Sogliano” (Ferrovia); in provincia, invece, erano la “Romeo” di Casavatore, la “Cirillo” di Grumo Nevano e la “Serao” di Volla.
[47] “Nei locali della scuola meedia “Lombardi” si è tenuta ieri una seconda assemblea promossa dal Comitato Scuola-Famiglia a cui hanno partecipato anche i consiglieri di quartiere […] L’assemblea ha deciso di portare avanti una vasta mobilitazione affinché non venga tolto il diritto, già conquistato, della scuola a tempo pieno, nonché di promuovere –insieme con i partiti e le organizzazioni che sono sensibili al problema- una più incisiva azione di protesta e di lotta.”, Il Mattino, 27 maggio 1973.
[48] A. Pino, Un parco di attrezzature integrate nel Rione Sanità, in Campania Documenti, periodico bimestrale, S.E.N., Napoli, n.3-4, 1975.
[49] “Pur riconoscendo che il soggetto di diritto è la popolazione scolastica, il criterio di discriminazione continua ad essere il merito e non lo stato di bisogno. In altri termini, il principio ispiratore del diritto allo studio, quello delle parti diseguali (n.d.r. Lettera a una professoressa) per poi intervenire in maniera “diseguale”, dando di più a chi ha avuto di meno, è ancora una declinazione di intenti. L’evasione/allontanamento, poi, degli alunni “ribelli” è l’accettazione di una sfida date di chi rifiuta l’istituzione e le sue leggi, la sua organizzazione e riesce ad ottenere da quella istituzione stessa la legittimazione alla non frequenza. Per essere più chiari, quando il ribellismo appare incorreggibile, la scuola interviene allontanando l’alunno”, C. Raia, Scuola e territorio: per un progetto di formazione culturale e sociale, in supplemento al n. 4-6 de La Provincia di Napoli (Convegno: Il disadattamento scolastico: aspetti psicologici e sociali).
[50] A. Pino, Un parco di attrezzature integrate nel Rione Sanità, in Campania Documenti, periodico bimestrale, S.E.N., Napoli, n.3-4, 1975.
[51] A. Pino, Io programmo, tu programmi, egli programma, in La Provincia di Napoli, Rivista dell’Amministrazione Provinciale, n. 1-2/1981.
[52] “Bisogna farsi coraggio e cominciare”. Per iniziare la “giornata per Nino Pino”, Ciro Raia, l’amico di sempre del preside e del politico di recente scomparso, ha scelto le parole giuste. Che sarebbero piaciute anche a lui, magari per prendersi in giro –lo faceva spesso- e per spaziare, subito dopo, nelle praterie infinite del sapere lungo le quali solo lui riusciva a galoppare senza mai smarrire l’orientamento. Nino Pino è stato un vulcano di idee ed un geniale affabulatore. […] A ricordare il preside rivoluzionario e l’indomito “combattente” della politica, ieri sera all’Istituto di Studi Filosofici c’era la Napoli nella quale Nino Pino si è sempre riconosciuto con una coerenza esemplare, i colleghi della storia scuola media sperimentale “Giovanni Lombardi” alle Fontanelle della quale fu preside per dieci anni e che oggi è staata, purtroppo, “cancellata per incorporazione” –lui, statene certi- non lo averebbe consentito ed avrebbe fatto le barricate- i compagni del “Pisacane”, il circolo politio che per anni, sooto la sua direzione, è stato il luogo, anche scomodo come ha opportunamente ricordato Federico D’Ippolito, in cui la sinistra ha dibattuto e si è formata come forza di governo, oltre che di lotta. E poi c’erano quelli che hanno sostenuto le ultime sue battaglie, i soci dell’Auser e dell’Università libera per tutte le età. Con i quali, nl bicentenario della Repubblica Napoletana, Nino Pino organizzò la “caccia al tesoro della rivoluzione” alla quale si iscrissero squadre composte da nonni, figli e nipoti con l’obbligo di visitare e commentare i luoghi della rivoluzione. Come definire uno che è stato capace di questo e di tanto altro ancora? Francesco Cormino lo ha fatto egregiamente, ricordando che Nino pino ha incarnato “l’essenza dell’educatore” praticando il culto della parola che insieme “diceva e affascinava”. Ma anche il giudizio di Gilberto Marselli, confuso tra la folla insieme a Gustavo Minervini, a Pietro Lezzi, a Giovanni Bisogni e a tanti altri compagni di viaggio, ci è sembrato tra i più apprpriati: “la vita e l’opera di Nino Pino” ha detto il sociologo “rappresentano una testimonianza continua, tenace, appassionata e realista che gli altri hanno il dovere di continuare”, Carlo Franco, Omaggio al preside rivoluzionario: una scuola intitolata a Nino Pino, in Corriere del Mezzogiorno, 20 febbraio 2002.
[53] A. Pino, Pompei? Nel duemila la distrussero i barbari, in NdR, Numero unico, Napoli, 10 maggio 1973.
[54] Si tratta di Oscar Luigi Scalfaro.
[55] A. Pino, Mentre i ladri scavano Scalfaro declina la rosa, in NdR, cit.
[56] A. Pino, Beni culturali e scuola: un discorso aperto, in La provincia di Napoli, n. 2 marzo-aprile 1980.
[57] A. Pino, Beni culturali e scuola: un discorso aperto, cit.
[58] A. Pino, i latini, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2001.
[59] Luigi Chiaruzzi, Napoli, 1866.
[60] terRA – es et in – terRAM- I bis- O super BE- Cur super BIS- TUA super BIA- TE super ABIT (Terra sei e in terra andrai. O superbo, perché ti insuperbisci? La tua superbia ti sopraffarà).
[61] Questa è la storia di uno di noi, anch lui nato per caso in via Gluck.
[62] www. pesaro.com
[63] Il Centro era stato istituito nel 1972, come servizio dell’Amministrazione Provinciale nel campo della formazione e dell’orientamento scolastico e professionale.
[64] A. Pino, Innovazione e sperimentazione: ma qualcosa si fa, in La Provincia di Napoli (Dossier Scuola), settembre 1981.
[65] A. Pino, Ricostruire, anche la scuola. Il ruolo degli Enti Locali, in La Provincia di Napoli (Dossier Scuola), settembre 1981.
[66] “E’ passato un anno dal terremoto. Mobilitazioni, appelli, proposte, molta retorica, e, poi, il lento scorrere e lo sfilacciarsi di giorni sempre uguali, mentre va sedimentandosi una situazione di crisi permanente e di drammatici problemi irrisolti, della quale è obiettivamente difficile intravedere gli esiti […] E la scuola? Una didattica dell’emergenza non può consistere in formule […]o schemi preconfezionati buoni per tutte le circostanze, ma deve trovare consistenza in pratica della ricerca capace di aggredire frontalmente, caso per caso, le situazioni reali, attivare processi di programmazione a misura dei problemi presenti e controllarne rigorosamente le fasi di attuazione e di verifica. In questo momento delicatissimo della vita della scuola non ha giustificazione una stanca e disimpegnata routine, come non trova motivi di legittimazione la presunzione di chi ritiene di possedere a priori formule risolutive onnivalenti. È difficile, certo, non commettere errori. Ma l’importante è che ciascuno, a seconda del proprio ruolo e della propria competenza, svolga la sua parte. Senza riserve mentali, onestamente e fino in fondo. ”, A. Pino, Cari insegnanti…, in La Provincia di Napoli (Dossier Scuola), settembre 1981.
[67] A. Pino, Ricostruire, anche la scuola, Il ruolo degli Enti Locali, cit.
[68] “In un momento in cui la società italiana è stretta nella morsa di una crisi globale, appare assolutamente inderogabile restituire una precisa funzione ai sistemi educativi, in particolare alla scuola. Respingendo le involuzioni restauratrici che lo stallo del processo di riforma sta inducendo in misura crescente, occorre puntare al recupero delle potenzialità innovative di cui la scuola è portatrice.”, E. Gaudiello, Educazione: dove?, in La Provincia di Napoli (Dossier Scuola), settembre 1981.
[69] “Le riforme e le innovazioni introdotte negli ultimi decnni hanno conosciuto vicende altern e spesso tormentate, spinte in avanti, ritorni al passato e rifacimenti ch ne hanno impedito la completa attuazione, generando confusione e sensiili ritardi nel processo di modernizzazione. Si rende perciò necessario e sereno ripensamnto dell’impanto complessivo del nostro sistma scolatico, e l’avvio e la gestione di una fase di revisione, riordino ed essenzializzazione dell’intero quadro normativo, ordinamntal, organizzativo e operativo.”, in Schema di piano programmatico del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca di concerto con il Ministro dell’Economia delle Finanze, di cui all’art. 64 del D.L. 25 giugno 2008, n.112 convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.
[70] L’Istituto di Studi “Carlo Pisacane” si avvalse del prezioso contributo di intellettuali -tra gli altri- dello spessore di Vera Lombardi, Mario Benvenuto, Lorenzo Pagliuca, Giulio Buonpane, Gilberto Antonio Marselli, Federico d’Ippolito, Pasquale Coppola, Gennaro Biondi, Franco Capotorti, Gustavo Minervini. E ad affollare le sale dell’Istituto, con le loro conferenze, contribuirono i prestigiosi nomi (tra tanti) di Sandro Pertini, Francesco De Martino, Riccardo Lombardi, Andreas Papandreu, Gaetano Arfè, Giorgio Napolitano, Ferdinando Isabella, Carlo Giliberti, Gherardo Gnoli, Alfredo Guarino, Manlio Rossi Doria, Raffaello Causa, Giacomo Cives, Federico Coen, Giuliano Vassalli, Girgio Ruffolo, Sandro Petriccione, Lombardi-Satriani, Lucio Lombardi Radice, Eugenio Scalfari, Giuseppe Tamburrano, Paolo Murialdi, Antonio Ghirelli, Walter Pedullà.
[71] La rivista nacque nel 1973 ed ebbe vita fino al 1978. In essa furono riversate le argomentazioni, le tesi, le elaborazioni, le linee di azione che caratterizzarono la vita del “Pisacane”. Non a caso il profilo della rivista, riportato nella seconda di copertina, ricordava: “è una pubblicazione i critica documentaria che esce bimestralmente a cura dell’Istituto di Studi “Carlo Pisacane” di Napoli. Essa si propone di trattare –per documenti- fatti politici e amministrativi nei loro esiti effettuali, nei loro riflessi culturali, nei loro ulteriori sviluppi politici”.
[72] A. Pino, Il movimento del ’68 a Napoli, in Nord e Sud, nuova serie, anno XLV, giugno luglio 1998, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli.
[73] Intervista a Nino Pino in Luigi Musella, Il riformismo socialista nell’esperienza dell’Istituto Pisacane 1962-1988, dattiloscritto.
[74] “Scuola e Quartiere: una proposta concreta per l’uso pubblico del territorio”, documento del consiglio d’istituto della S.M.S. “G. Lombardi”, approvato nel giugno del 1975.
[75] A. Pino, La politica regionale per la scuola I, in Campania Documenti, n.1, 1973.
[76] A. Pino, La politica regionale per la scuola II, in Campania Documenti, n.1-2, 1974.
[77] A.Pino, Educazione alla mondialità nella scuola: una costante per i prossimi anni, in Atti del Convegno “Scuola e strutture formative: l’inserimento degli extracomunitari”, organizzato dal Provveditorato agli Studi di Caserta e dal Servizio Istruzione e Cultura della Regione Campania, Caserta, 27 marzo 1990.
[78] A. Pino, Educazione alla mondialità nella scuola, cit.
[79] A. Pino, Esami a Berlino, in Il Cittadino (bimestrale di argomenti meridionali), Napoli, anno VIII, novembre/dicembre 1987.
[80] A. Pino, Educazione alla mondialità nella scuola: una costante per i prossimi anni, cit.
[81] Associazione di volontariato, che opera per la protezione e la tutela dei gruppi sociali più deboli ed esposti, soprattutto gli anziani.
[82] Per una biblioteca interculturale nell’area metropolitana di Napoli.
[83] Organizzazioni Non Governative: una spagnola (FUNCOE), una lussemburghese (ASTI) ed una belga (SSE).
[84] F. Cormino e A. Pino, Le coordinate del Progetto BIAN, in Sovrintendenza Scolastica Regionale Campania e Auser Campania, Longitudini (Repertorio per una biblioteca interculturale, Guida Editore, Napoli, 1998.
[85] A. Pino, Esami a Berlino, in Il Cittadino, cit.
[86] A. Pino, Fare scuola con l’intercultura, in Longitudini cit.
[87] A. Pino, La solidarietà degli anziani come “indotto produttivo”, in Campania Liberetà, marzo 1999.
[88] A. Pino, Fare scuola con l’intercultura, in Longitudini cit.
[89] A. Pino, Quel certo non so che del Terzo Settore, in Campania Liberetà, n.11, novembre 1996.
[90] A. Pino, La solidarietà degli anziani come “indotto produttivo”, cit.
[91] Nessun golfo al mondo supera in bellezza la bellissima Baia.
[92] A. Pino, Di meringhe, pifferai, tesori nascosti e Pulcinella…, in Campania Liberetà, settembre 1999.
[93] A. Pino, Fare scuola con l’intercultura, cit.
[94] “La sezione Vomero del partito rappresentò un punto di riferimento per noi. Tenendo conto della nostra provenienza medio-borghese (noi cercavamo un operaio disperatamente!), il Vomero risultò inevitabilmente il quartiere di residenza di molti di noi. Eravamo tutti lì, ci incontravamo tutti lì. A quel tmpo quella sezione divenne un caso a sè stante e anche molto potente all’interno del partito cittadino. Eravamo i pensatori del Psi, i radical-massimalisti del Vomero, come ci segnalavano all’interno del parito, e quindi un po’ indigesti per coloro che avevano una concezione popolare del partito”, A. Pino in L. Musella, Il riformismo socialista nell’esperienza dell’Istituto Pisacane, cit.
[95] Istituto di Studi “Carlo Pisacane”, Un documento per le elezioni, Napoli, giugno 1970.
[96] Un documento per le elezioni, cit.
[97] Un documento per le elezioni, cit.
[98] Un documento per le elezioni, cit.
[99] “La storia dell’Istituto Pisacane è in fondo la storia di un gruppo di intellettuali di cultura socialista e riformista che partecipò ad un momento particolarmente creativo e di grandi speranze, ma che di esso ne visse anche tutte le difficoltà e infine la sconfitta.”, in L. Musella, Il riformismo socialista nell’esperienza dell’Istituto Pisacane 1962-1988, cit.
[100] Un documento per le elezioni, cit.
[101] “La lucida intelligenza e la voce affabulante di Pino hanno accompagnato una grande stagione di lotte civili a Napoli. Per oltre un ventennio intorno a questo appassionato intellettuale, formatosi come filologo alla scuola di Salvatore Battaglia, si è coagulato un gruppo di studiosi, di docenti, di operatori pubblici, che avevavo il comune disegno di aprire la società locale alle spinte più innovative e alle regole “rivoluzionarie” della buona amministrazione. Dalle stanze dell’Istituto “Carlo Pisacane” e dalle colonne della rivista “Campania-Documenti” mossero coraggiosi dibattiti sul divorzio, sul fermo di polizia, sulla condizione della sanità e della scuola, sulla nascente coscienza ecologica, sulla tutela dei beni culturali. Tutti i temi di frontiera furono portati avanti da un gruppo di amici entusiasti nel corso di sofferti scontri con un ambiente cittadino allora assai poco recettivo rispetto alle pratiche virtuose di governo. Il loro cemento fu un’idea socialista, che oggi sembra una bandiera logora e abbandonata ma non sconfitta”, P. Coppola, Nino Pino l’intelligenza al servizio delle idee, in La Repubblica (Napoli Cronaca), 21 febbraio 2002.
[102] A. Pino, in L. Musella, Il riformismo socialista nell’esperienza dell’Istituto Pisacane, cit.
[103] Resoconto della tavola rotonda organizzata, l’8 e 9 febbraio 1966 dall’Istituto Pisacane, su “I partiti politici e la struttura della odierna società italiana”, in Carte Istituto Pisacane.
[104] Franco Belli, Michele Cecere, Pasquale Esposito, Vincenzo Esposito.
[105] “Il Comitato Direttivo della Federazione napoletana del Psi, a cinque mesi dalla conclusione del congresso provinciale, giudica negativamente e con seria preoccupazione la situazione di grave immobilismo esistnte in tutta la vita e gli organismi di partito. Questo immobilismo si manifesta principalmente: a) nell’assenza di iniziative del Psi a Napoli e nella provincia sui pesanti problemi della crisi economica ed occupazionale che investe tutto il sistema produttivo napoletano; b) nell’ulteriore divaricazione tra una struttura sempre più asfittica e verticistica della Federazione e il restante delle strutture di base relegate in una triste condizione di inesistnza di ruolo politico; c) nella mancata ristrutturazione dei settori di lavoro e nella mancata nomina, da parte della maggioranza, dei responsabili; d) nel protrarsi di una mentalità e di un metodo che intendono esautorare il comitato direttivo e il comitato esecutivo dei loro compiti politici e istituzionali; e) nel ritardo della realizzazione di nuove strutture di base, a cominciare dai comitati di zona. Tutto ciò consente di fatto la sopravvivenza del vecchio schema di gestione del Partito: i gruppi di potere governano per interesse di parte e a spese del partito. Emblematici al riguardo sono i risultati del tesseramento del 1977 e i modi con i quali si sta procedendo per la designazione delle rappresentanze nelle aziende municipalizzate. Per quanto riguarda il tesseramento, gestito nell’assurda e burocratica maniera di sempre, basta citare che a fronte di una perdita complessiva di vecchi iscritti si registrano abnormi rigonfiamenti nelle nuove iscrizioni in determinate sezioni, che non possono non essere addebitati alle manovre dei vecchi gruppi di potere. Per quanto riguarda, poi, le nomine, a pochi giorni dalle deliberazioni del consiglio comunale, non c’è stata alcuna riunione degli organismi competenti per procedere ad un’analisi approfondita della situazione delle aziende municipalizzate, dalla quale far scaturire i criteri di individuazione dei rappresentanti del partito. D’altronde tale situazione complesiva contrasta con linderogabile esigenza di modificare ed adeguare tempestivamente il partito e le sue strutture alla politica dell’alternativa. […] In questi mesi si è evidenziata tutta la responsabilità della maggioranza e la sua incapacità a gestire il partito. […] Sulla base di tali considerazioni e al fine di superare la situazione di grave immobilismo e per fare affermar l’esigenza di rinnovamento e di rilievo del partito, il comitato direttivo ritiene che occorre individuare e costruire una nuova gestione della Federazione con la partecipazione di tutto il partito […] ”.
[106] Mozione n.5, primo firmatario Alfredo Testi, “Una scelta di campo per il rinnovamento e per l’alternativa”, che esprimeva l’adesione alla dichiarazione dei compagni della Sinistra Socialista (Lombardi, Signorile etc), in quanto rappresentante un importante approfondimento dei principali temi ed aspetti della politica di alternativa, primo fra tutti quello della continuità dell’ipirzione Socialista, consolidata di contributi culturali e ideali di 80 anni di lotte della classe operaia. Il documento, oltre agli stessi cinque compagni –tra cui Pino- che avevano presentato in discussione al direttivo della Federazione provinciale il documento del dicembre 1977, era sottoscritto, tra gli altri, da Gilberto Marselli, Antonio Lombardi e Sergio Cinque (segretari Regionali CGIL), Salvatore Arnese e Antimo Manzo (Segretari Camera del Lavoro CGIL di Napoli), Vincenzo Rea (segretario Regionale UIL), Marcello Tocco (segretario Provinciale FIOM), Andrea America (Segretario Provinciale Commercio CGIL), Pasquale Gianturco (Segretario Regionale CGIL-Scuola).