Che ne sapevano Tommaso e Maria che, all’inizio di quell’anno, il Parlamento italiano aveva approvato una nuova legge elettorale? E della Triplice Alleanza, firmata dall’Italia con l’Austria e la Francia, cosa sapevano? Forse, erano all’oscuro pure della morte di Giuseppe Garibaldi, così come dell’elezione al Parlamento di Andrea Costa, il primo deputato socialista. E sicuramente non avrebbero mai saputo che, il giorno dopo quel fausto –per loro- 19 dicembre 1882, Guglielmo Oberdan sarebbe stato condannato a morte, per impiccagione, dalla magistratura austriaca, perché aveva progettato l’assassinio di Francesco Giuseppe. E chi era Cecco Beppe? Un sarto, un brigante, un imperatore, un santo? Chi l’aveva mai sentito quel nome!
Tommaso e Maria ci tenevano, in quel mattino di fine anno, annunciare solo la volontà di contrarre matrimonio. Tutto quanto avveniva intorno era rumore. Entrambi non erano mai andati a scuola, nemmeno per un giorno, non sapevano leggere né scrivere. Tommaso sfiorava già i quarant’anni d’età; lavorava nei campi, da mezzadro. Si spaccava la schiena dalla mattina alla sera. Talvolta, si arrampicava anche tra le balze della montagna –o come diceva lui che “andava alla selva”-, per tagliare legname o, quand’era il tempo, per raccogliere castagne. Non conosceva feste, nemmeno quelle di precetto. Si fermava, per rispetto delle tradizioni familiari, solo a Pasqua, a Natale e nel giorno dell’Assunta. Negli altri giorni, aveva sempre da fare: un terreno da dissodare, un albero da potare, un campo da seminare, un podere da zappare. Era dura quella vita! Ma a Tommaso non pesava; si annodava un fazzoletto alla testa per trattenere il sudore e per ripararsi dal sole, si sputava tra le mani per meglio garantire la presa della zappa e si fermava solo quando suonava la campanella – come dicevano tutti- di zio Armando, il sacrestano del vecchio santuario, che annunciava mezzogiorno con dodici colpi di batacchio alla grande campana. Tommaso non lo si vedeva mai in paese; non frequentava l’osteria della piazza, dove, di sera, si beveva vino e si giocava a morra; non andava a messa di domenica e nelle feste comandate; non aveva amici coi quali scambiare una parola. Tutti quelli che non lo avevano come vicino di casa ricordavano, a stento, le sembianze di quel giovane, che avevano, forse, incontrato, raramente, in occasione di qualche funerale o per la processione del Cristo morto, il venerdì santo.
Maria era una ricamatrice; aveva, come si suol dire, le mani d’oro. Quelle dita sottili, infatti, avevano appreso la preziosa arte dalle suore dell’ordine di San Vincenzo, nel convento appena fuori dal paese. A Maria non mancava mai il lavoro: cominciava all’alba e smetteva col calar del sole. A volte, quando si trattava di consegnare un corredo per una sposa, non disdegnava di completare l’ultimo ghirigoro al lume del vecchio lume a petrolio. Certo, non era quel che si dice una bella donna; era un po’ ingobbita, con il torace carenato ed il seno quasi piatto. Gli occhi erano senza gioia, stanchi e spenti e i suoi trentacinque anni, talvolta, sembravano accrescersi di altri venti. Però, Maria guadagnava bene con quella sua preziosa arte ed era riuscita, perciò, a mettere da parte un bel po’ di lire, che conservava in un sacchetto all’interno della federa del cuscino, inutile dirlo, accuratamente ricamata. E, quando la mattina, sprimacciava quel guanciale, non mancava mai di sincerarsi che il suo tesoretto fosse sempre lì.
Tommaso e Maria non si conoscevano e, forse, non si sarebbero mai conosciuti anche se abitavano nello stesso paese, a pochi isolati di distanza. Solo dopo che una mezzana, infatti, ebbe procurato il loro incontro, fu deciso –ed anche subito- che i due giovani si sarebbero sposati. Non prima, ovviamente, com’era d’uso, che fossero stati sottoscritti i patti nuziali.
Così, quella mattina del 19 dicembre 1882, Tommaso e Maria, accompagnati dai rispettivi padri (perché le mamme -le donne-, dovevano badare alle faccende di casa), si avviarono allo studio del notaio, che esercitava la sua professione nello stesso luogo in cui abitava. Ed il notaio Fedele Aurigemma esercitava in Ottajano, paese in cui Tommaso e Maria, insieme ai propri genitori, erano arrivati seduti sulle panche di un calesse, di proprietà del papà di lui. Ottajano sorgeva abbarbicato ai piedi del Somma-Vesuvio, era tutto in salita e anche il civico 42 di via Piediterra, dove c’erano l’abitazione e lo studio del notaio, era in salita. All’entrata del paese il calesse si era fermato, per consentire agli infreddoliti viaggiatori di chiedere esattamente dove si trovasse via Piediterra. Era stato un militare a fornire le indicazioni richieste; non si capiva bene se era un graduato dell’esercito o un carabiniere. Indossava una mantella, lunga nera, sopra una divisa chiusa, in doppia fila, da bottoni dorati. Il colletto, in velluto nero, adorno di mostrine anch’esse dorate, era tenuto chiuso da una catenina, che fungeva anche da sottogola.
Lo studio del notaio Aurigemma era composto da un piccolo ambiente, che fungeva da sala d’attesa e da un altro ambiente, più spazioso, ingombro di pandette e varie carte un po’ ingiallite. Oltre al notaio, -in un completo grigio di flanella, camicia bianca con colletto inamidato, soprammaniche nere a salvaguardia dei polsini, laccetto di seta grigia a mo’ di cravatta ed occhialini pince nez- c’erano altri due uomini, che fungevano da testimoni idonei, ambedue cittadini di Ottajano. Uno, Antonio Tuccillo, abitava in Piazza Mercato; l’altro, Fortunato Iervolino, abitava invece alla Salita San Michele Arcangelo. Tuccilo e Iervolino erano persone di fiducia di Aurigemma, stazionavano nel suo studio per comparire da testimoni negli atti notarili e, all’occorrenza, si rendevano utili per svolgere accurate quanto seccanti ricerche presso gli uffici del catasto o delle successioni.
No, non si respiravano sentimenti d’amore tra quei due promessi sposi. Ed anche i loro genitori non avevano gran voglia di apparire meno formali di quanto già non lo fossero nel ruolo di prossimi donatari. Il notaio Aurigemma, perciò, aduso a vergar contratti, non impiegò il suo tempo in convenevoli e cominciò subito, a scrivere di proprio pugno, su carta da bollo da lire 2, il richiesto patto matrimoniale.
“Istrumento di fogli nuziali e donazione, regnando Umberto primo per Grazia di Dio e per Volontà della Nazione Re d’Italia, il giorno diciannove dicembre milleottocentottantadue, in Ottajano.
Avanti di noi Fedele Aurigemma, notaio iscritto presso il Consiglio Notarile del Distretto di Napoli, residente in Ottajano, in presenza di due testimoni, a me noti, si sono personalmente costituiti: da una parte, Gaetano Cutolo nonché la sua figlia nubile Maria, e dall’altra i signori Giuseppe e Tommaso Ragosta, padre e figlio.
Essendosi progettato matrimonio tra i detti costituiti Tommaso Ragosta e Maria Cutolo, col pieno consenso dei rispettivi genitori, prima di procedersi alla celebrazione dello stesso, hanno voluto stabilire i patti nuziali e le clausole civili che regolar debbono la loro società sotto i seguenti patti ed articoli.
Primo
I futuri sposi Tommaso Ragosta e Maria Cutolo non solo promettono di contrar matrimonio al più presto possibile, secondo il rito della Cattolica, Romana Chiesa e leggi vigenti, ma di contrarlo ancora sotto il regime dotale esclusa ogni idea di comunione di beni, dovendo essere il futuro sposo Tommaso Ragosta l’amministratore dei beni dotali della futura sua sposa Maria Cutolo.
Secondo
La costituita Maria Cutolo, per sopportare i pesi che comporta il matrimonio se stessa dotante, si costituisce in dote e sotto titolo di dote la somma di lire italiane millenovecentododici e centesimi cinquanta, prezzo e valore di diversi oggetti di oro lavorato. Della quale dote distinta come sopra lire millesettecento si pagano prontamente dalla dotante Maria Cutolo in tante carte monete correnti in Regno italiano al suo futuro sposo Tommaso Ragosta, che ne accusa ricezione e, in presenza di testimoni, rinunziante a qualunque eccezione di legge, e lire duecentododici e centesimi cinquanta prezzo e valore di diversi oggetti di oro si intendono ricezionati dal futuro sposo, appena che la futura sposa sarà entrata nella casa maritale.
Terzo
La futura sposa Maria Cutolo porta con lei un corredo extradotale composto dei seguenti generi pannini: lenzuola numero sedici di tela di canapa e mussolo, camicie ventisei, cusciniere trentadue, sottanini di mussolo quattro, sottanini di tela quattro, calze paia trenta, fazzoletti di diversa qualità ventuno, fazzoletti di seta dodici, fazzoletti per sacca venti, scolle sei, mensali a pepariello tre, salvietti a pepariello quattordici, tovaglie dieci, mensale di fiandra uno, salvietti simili dodici, grembiali cinque, vesti sei. I suddetti oggetti sono del valore complessivo di lire trecento, la cui proprietà resta in potere della futura sposa, essendo il marito tenuto a restituirle, prima del decennio, uso consunti et invetarati. La stima data tanto agli oggetti di oro che agli oggetti pannini non produce la vendita ma solo per conoscerne il valore.
Quarto
Il costituito Giuseppe Ragosta pel compiacimento del sunnominato matrimonio e per l’amore ed affetto che nutre verso il suo figliolo Tommaso, dona, a titolo di donazione irrevocabile fra vivi al detto figlio Tommaso ed in conto della successione di esso Giuseppe, in piena proprietà ed usufrutto, due bassi con due stanze superiori e piccola stanzetta sovrapposta al portone, scala di fabbrica per ascendere e discendere in dette stanze e con tutti gli usi e i diritti annessi al cortile, cisterna, lavatoio e forno. Nonché un moggio di terreno vigneto, antica misura pari ad are quaranta e metriquadrati trentadue, sito in luogo denominato Fossa.
Quinto
Il donatario Tommaso Ragosta fin da questo momento resta immesso nel possesso reale, civile e materiale dei stabili ricevuti in dono, percependone i frutti e le rendite e disporne come cosa tutta sua propria con obbligo ad esso, però, di pagare il peso fondiario.
Sesto
Il donatario Tommaso Ragosta accetta nei modi più estesi di legge la donazione ricevuta come sopra da detto padre Giuseppe, ringranziandolo di tutto cuore e se ne mostra grato e riconoscente.
Settimo
I beni di sopra menzionati sono del valore venale di lire italiane millecinquecento.
Ottavo
Il costituito Tommaso Ragosta onde cautelare la dote anzidetta in lire millenovecentododici e centesimi cinquanta, sottopone a speciale ipoteca legale a favore della sua futura sposa Maria, i cennati due bassi, due camere, stanzetta con diritti annessi, nonché il cennato moggio di terreno.
Le spese del presente istrumento sono per metà a carico di Maria Cutolo e per l’altra del detto Tommaso Ragosta. Del che è verbale, sottoscritto dai testimoni, da noi notaio, dai genitori degli sposi meno che da Tommaso Ragosta e Maria Cutolo, che hanno dichiarato di non saper scrivere né sottoscrivere per non averlo mai imparato.
Specifica: (carta e ruoli lire 7,80 -repertorio 2,00 -dritto 5,00), totale =lire 14,80”.
All’uscita dallo studio del notaio Aurigemma i promessi sposi si avviarono verso il calesse separatamente, come due estranei. Quindi, fecero ritorno nelle rispettive abitazioni, senza un segno di festa, senza una briciola di entusiasmo.
Dopo le feste natalizie, all’inizio del nuovo anno, fu celebrato il matrimonio religioso, alla presenza di pochi parenti. Tommaso aveva avuto in prestito, da un suo cugino, un abito scuro, ormai un po’ lucido per avere, da anni, accompagnato molti sposi all’altare. Tommaso si sentiva impacciato in un abbigliamento per lui inconsueto: gli mancavano i pantaloni capienti, la camicia a quadroni e il fazzoletto in testa. Maria, invece, si beava in quell’abito bianco: era appartenuto alla signora Florinda Casaferri, una discendente da nobile famiglia, abituale committente di innumerevoli corredi ricamati. La signora Casaferri era stata contenta di fare quell’omaggio a Maria; le aveva anche detto di non restituirglielo e che le avrebbe fatto piacere se l’avesse portato, per devozione, alla Madonna di Pompei.
Subito dopo il matrimonio in chiesa –una cerimonia semplice, senza un fiore, un canto o un applauso- gli sposi si ritirarono nella loro abitazione. Non che Maria si aspettasse chissà quale gesto d’amore, però Tommaso agì con un distacco unico, senza una carezza, un bacio o una parola che, ostinatamente, si fermava in gola.
Un lume a petrolio emanava una luce fioca e tremolante, che allungava le ombre sulla parete. Ambedue gli sposi indossavano una lunga camicia da notte, che li faceva somiglianti più a fantasmi che a due in procinto di, per la prima volta nella loro vita, di dormire insieme, nello stesso letto.
Non ci fu entusiasmo quella notte né passione! Ma nemmeno nelle notti successive. Fu sempre più routine, abitudine, tradizione.
L’unica cosa di cui si preoccupò Maria, il mattino seguente alla prima notte di nozze, fu di mettere ad asciugare dei ruvidi panni, con qualche inequivocabile traccia di sangue, a dimostrazione che era arrivata vergine al matrimonio. I parenti, i vicini di casa, tutti dovevano sapere che era stata una donna virtuosa. Poi, ancora quella mattina Maria, sempre senza entusiasmo, aveva chiesto a Tommaso cosa volesse mangiare. Lo sposo, abituato ai lavori dei campi, aveva espresso il desiderio di una zuppa di fagioli. E Maria non si era fatta pregare; aveva preso una sarcinella asciutta, l’aveva depositata nelle fauci capienti del focolare, aveva appiccato il fuoco e vi aveva posto sopra un pentola di rame già annerita dalle fiamme.
Non ci fu mai una vita di coppia felice. Tommaso usciva all’alba, per i suoi lavori nei campi o tra le balze del Somma-Vesuvio. Rincasava al calar del sole, stanco, distrutto, inguardabile, con gli zigomi sempre più appuntiti, le muscolose braccia segnate dal gonfiore delle vene ed il volto bruciato dai raggi del sole. Maria anche si alzava all’alba, preparava una tazza d’orzo per il marito e appena dopo la sua uscita riprendeva a ricamare. C’era sempre qualche lavoro da completare e consegnare ai tanti committenti. Anche le domeniche erano tutte uguali: la mattina al lavoro, poi, un piatto di pasta –almeno una volta alla settimana si poteva fare!- ed il cortile, insieme a un paio di vicini, a parlare del raccolto, del nuovo secolo che si profilava all’orizzonte, della ferocia di Menelik e dei suoi uomini, che –dicevano i soliti informati- mangiavano vivi i prigionieri di guerra in Etiopia. Ma chissà dov’era l’Etiopia!
Una mattina di maggio del 1892, Tommaso disse che era stanco e non se la sentiva di alzarsi per andare a lavorare. Maria non ci fece molto caso; in fondo, quel pover’uomo se la meritava una mattinata a letto! Invece, si aggiunsero giorni a giorni. Tommaso appariva di un pallore sempre più terreo, con gli arti scarnificati e il ventre alquanto deforme. Aveva appena compiuto cinquant’anni e sembrava invecchiato precocemente. Sovente era scosso da improvvisi brividi e la sua temperatura raggiungeva picchi anche di quaranta gradi; poi, quando la temperatura scendeva, era tutto un bagno di sudore. Inizialmente, Maria, i parenti e qualche vicino di casa dicevano si potessero ritenere sintomi di cattiva digestione; prepararono purghe e clisteri, ma senza esito. Qualcuno mandò a chiamare don Ciccio, il barbiere, che portava con sé le sanguisughe: probabilmente si trattava, come dicevano gli anziani, di sangue pazzo che bisognava eliminare. Erminia, la più anziana delle vicine, disse, invece, che Tommaso era vittima di una fattura e che bisognava ricorrere ad antiche arti magiche. Così, un pomeriggio, le donne del vicinato prepararono un piatto, col fondo pieno d’olio, all’interno del quale misero a bruciare un moccolo di candela; poi, mentre Erminia cantilenava parole incomprensibili, diedero da bere al povero Tommaso un bicchiere d’acqua mista a cenere del focolare. Niente, non ci fu miracolo. Quindi, le vicine di casa suggerirono di ricorrere a un antico sortilegio: a mezzanotte in punto, Maria avrebbe dovuto pronunciare alcune parole quasi impronunciabili, per ricevere un responso certo sul futuro del suo sposo. Ed anche questo fece la disperata ricamatrice. Alla mezzanotte di un giorno qualunque pronunciò, con la convinzione dei disperati, una demoniaca invocazione: “San Cristo, San Crosto/, me tremmano carne, pile e ossa,/ comme tremmavano alla Vergine Maria,/ quanno ieve truvann’’o figlio mmiez’’a via”; recitò un’Ave Maria ed aggiunse “damme un segno, pe’carità”. Le parve solo di udire un pianto sommesso di donna, un brusio come di un funerale, una voce cantilenante “Libera me, Domine, de morte aeterna…”. E, poi, uno sferragliamento di catene. Erano i messaggi dei condannati all’inferno? O le anime del purgatorio?
Fu allora che Maria si decise a far chiamare il dottor Siciliano, un vecchio luminare dell’area vesuviana (alla bisogna ginecologo, neurologo, internista e chirurgo), che non ebbe alcun dubbio nell’emettere la sua diagnosi: malaria! E, aveva solennemente dichiarato Siciliano, gli sembrava inutile, anche se non andava escluso alcun tentativo, pure il ricorso al chinino! Concludendo la visita, il dottore Siciliano aggiunse, poi, che Tommaso presto sarebbe caduto in delirio conseguente alla febbre, che gli si sarebbe ingrossato ancor di più il fegato (veramente parlò di epatomegalia, ma si corresse subito di fronte agli occhi sgranati di Maria) e si sarebbe aggravato per insufficienza renale.
A visita finita, Maria non aveva trovato di meglio che porre, accanto al povero ammalato, un quadro di San Rocco de la Croix, il protettore dei contagiati. Pregava giorno e notte e non ricamava più. Passava il suo tempo accanto al letto di Tommaso, invocando San Rocco per la grazia, per il miracolo. Una notte lo sognò anche san Rocco. Era preceduto dal cane che gli portava da mangiare, mentre egli avanzava nel suo abito da pellegrino, col cappello a tesa larga, il tabarro, il bastone, la scarsella e la zucca per borraccia. Si era fermato davanti a Tommaso, che stava tornando dai campi, gli aveva offerto da bere dalla sua zucca-borraccia e lo aveva carezzato sulla testa. Ma era stato solo un sogno e non ci fu miracolo.
Il pover’uomo si spense il giorno di ferragosto del 1892, a meno di dieci anni dal suo matrimonio. Anche il funerale, come il matrimonio, fu semplice e sbrigativo. La salma, infatti, restò in casa il minimo indispensabile; poi, a bordo di un carrettino, fu avviato per l’inumazione verso il locale cimitero, nella nuda terra.
La prima notte senza il marito Maria la passò in compagnia dei familiari; quindi, fu lasciata sola con il suo dolore o, forse, solo con la mancanza di un uomo che girasse per la casa.
Il tempo lenisce ogni pena, specie quando non sopravvivono ricordi forti. Infatti, a meno di dieci giorni dalla morte di Tommaso, tutto tornò nella norma, nella consuetudine. Maria aveva ripreso i suoi ricami, i familiari le proprie faccende, i vicini di casa i loro soliti lavori.
Solo il vecchio Giuseppe, il padre di Tommaso, sembrava non trovar pace per quella dolorosa scomparsa. Passava il suo tempo con lo sguardo fisso nel vuoto; muoveva le labbra come se stesse impegnato in un continuo dialogo; talvolta, muoveva le dita della mano come se stesse contando. A vederlo faceva quasi pena, povero vecchio! Ma in realtà il vecchio Giuseppe, non soffriva per la scomparsa del figliolo: inseguiva ben altri pensieri. Si struggeva nel ripetersi che aveva ereditato tutte le proprietà dal suo genitore, che, a sua volta, aveva riunito –in seguito a un paio di compravendite- piccole proprietà di alcuni antichi familiari. Ed ora quei due bassi e quelle due camere con stanza sovrapposta, con l’uso delle pertinenze del cortile, dovevano passare a una donna, che, grazie a un contratto notarile più che a un vincolo matrimoniale, era stata la moglie di suo figlio? Un estranea, tutto sommato.
E pensa oggi, pensa domani, ecco che a Giuseppe si profilò una via di soluzione. In fondo suo figlio quella donna, Maria, non l’aveva mai amata; il loro era stato un matrimonio combinato. Sì è vero, c’era stato qualche anno di vita comune, nel senso che avevano passato insieme alcune ore della giornata. Forse, delle nottate, considerando che abbandonavano i loro corpi stanchi di fatica nello stesso giaciglio ma senza amore, senza passione. Per convenienza, per consuetudine sociale.
Una mattina, allora, Giuseppe andò a casa di Maria, la stessa casa che aveva donato a suo figlio Tommaso. Inizialmente disse che s’era trovato a passare per puro caso e aveva pensato di fermarsi a bere un bicchiere d’acqua. Si sedette sua una vecchia sedia di paglia dal fondo anche un po’ sfondato. Appoggiò tutti e due i gomiti a un tavolo dall’equilibrio instabile, sorseggiò l’acqua, cacciò via un insistente mosca e, poi, fissò negli occhi quella donna, che, per contratto notarile, era la sua nuora ma che, per tutto quanto atteneva ai sentieri dei sentimenti –ma anche degli interessi, delle proprietà- non era che un’estranea. Anzi, quasi, un’usurpatrice. Come era potuto accadere, infatti, che Maria si fosse ritrovata padrona di quei due bassi e di quelle due camere sovrastanti con tutte le pertinenze nel cortile?
- Lo so, è brutto. Non riesco nemmeno a trovare le parole per dirti ciò che ho intenzione di dirti… però, sai, è giusto affrontarla, una buona volta, la questione.
- Quale questione?.. Non capisco.
- Come faccio a dirtelo. Insomma, tu in questa casa non ci stai bene… No, volevo dire che non ci stai bene, perché non ti appartiene.
- Ma è la casa di mio marito Tommaso!
- È una proprietà dei Ragosta e ai Ragosta deve tornare. Tu sei solo una Cutolo, che non ha potuto nemmeno dare un erede ai Ragosta!.. Te ne devi andare, devi liberare questa roba dalla tua presenza. Altrimenti l’anima di mio figlio non troverà pace.
- Ma come potete dire una cosa simile? Come potete solo pensarla?
- La penso, la dico, la voglio. Te ne devi andare!
Non ci furono mediazioni. Non ci furono altre soluzioni. La donna dovette cedere, e in fretta. Dopo meno di una settimana Giuseppe accompagnò col suo calesse Maria, la vedova di suo figlio, alla vecchia casa paterna. Il calesse aveva vari fagotti legati da ampie tovaglie a quadri rossi e gialli. In uno c’erano le pentole di rame e quelle di terracotta. In un altro c’erano alcuni piatti, alcune forchette ed alcuni cucchiai d’argento, un servizio di sei cucchiaini da caffè, un paio di quartini da vino e dodici bicchierini per il liquore. In un fagotto più panciuto, infine, c’erano lenzuola, federe e mensali a pepariello.
Maria stringeva tra le mani una borsetta lisa. Dentro c’erano una medaglina d’argento con l’effigie di san Rocco, un pettinino ed una busta contenente la cifra di millenovecentododici lire e cinquanta centesimi. Gliela aveva appena messa tra le mani il vecchio Giuseppe, suo suocero, per annullare vecchi patti nuziali.