Lui era Francisco Loiacono (che mi pare giocasse nella Fiorentina), io ero Altafini (che giocava nel Milan). A quell’età ognuno di noi si sceglieva il nome di un calciatore che ammirava e –illusione!- cercava di ripeterne le giocate, i tic, gli atteggiamenti. Loiacono era Armando Raia, che è morto stamattina a causa del covid.
Ci conoscevamo da ben oltre sessant’anni. Armando abitava sulle palazzine, che per noi ragazzi degli anni ’60 era il luogo posto al confine del paese (verso Napoli). Oltre c’era solo l’alveo Purgatorio (il lagno Priatorio), dove, spesso, ci scontravamo –una vera e propria guerriglia a colpi di pietra- con i nostri coetanei del Casamale. Le palazzine, tipiche costruzioni di alloggi popolari, erano attorniate di spazi verdi, che erano il nostro campo di scorribande, il luogo delle nostre interminabili partite a calcio, la terra dove avevamo tracciato la sagoma dell’Italia, che percorrevamo in lungo e in largo – a mo’ di ciclisti- con le palline, le nostre biglie multicolori. Sentivamo di essere in una nostrana via Pàl, il luogo di incontro, d’estate e d’inverno di una banda in cui Boka, Nemecsek, Weiz si chiamavano, invece, Salvatore, Franco, Alfonso, Felice; c’era anche Gereb, il traditore, il mentitore di mestiere, che aveva diversi nomi e che ci ha accompagnato lungo tutta la nostra vita.
Armando abitava al primo piano della palazzina centrale; nel sottoscala, negli scantinati, c’era –al posto della segheria della via Pàl- la falegnameria di Guiduccio, un maestro d’ascia umile e paziente, che ci costruiva racchette di legno, pistole con molle da utilizzare al posto delle fionde, ma anche per le continue battaglie tra gli “sceriffi” e gli indiani, tra i soldati blu e i pellerossa.
Per un anno o forse due –non ricordo bene- Armando ha insegnato educazione tecnica alla “mia” scuola, la “Bordiga” di Ponticelli. Di sabato, tutti e due avevamo giornata piena e, quindi, lui tornava in macchina con me. Ricordo i sabati d’inverno, quelli freddi, col vento, con la pioggia; Armando ripeteva sempre: “ora che torno a casa, mia madre ha preparato sicuramente il brodo”. E la madre, che era rimasta vedova da alcuni anni, l’attendeva dietro la finestra della cucina; accompagnavo Armando fin sotto casa e, mentre scendeva dall’automobile, la signora -antica acquirente all’Emporio di mia madre- mi mandava un saluto con la mano.
Ci siamo visti l’ultima volta, un mese fa; era una bella giornata di sole, era domenica, l’ultima prima di altre settimane di lockdown. Ero sceso in piazza con Valeria, mia nipote, e mi fermai nel gruppetto degli amici dove c’era anche Armando. Cominciammo a scherzare, a prenderci in giro, come sempre. Armando-Loiacono era ironico ed autoironico, aveva la battuta sempre pronta insieme ad una risata sonora e contagiosa. Tra le cose di quella domenica ci dicemmo anche di zone gialle e di zone rosse, del nuovo periodo di chiusura obbligatoria che sarebbe arrivato a giorni. Lui commentò, con voce contrita, che anche “quest’anno non ci sarà la processione del venerdì santo”, quella a cui prendeva parte col saio bianco di confratello della Congrega col cordone rosso e l’emblema della morte sul petto, con la candela retta in modo da non far colare la cera sui marciapiedi, col saluto sorridente che gli sfuggiva dal cappuccio arrotolato.
Ciao Armando; con la tua uscita di scena la vita di tutti noi si è accorciata ancora di un poco. Nella foto di quarantacinque anni fa Armando-Loiacono è il primo accosciato sulla sinistra di chi guarda. Dietro di lui, vestito con giacca e pantaloni, c’è Felice D’Avino, che se ne è andato appena qualche mese fa. I veri amici non tardano a ritrovarsi!