La sera di domenica 23 dicembre 1984 ero a casa di Giorgio Cocozza. Insieme ad altri amici si stava giocando a Il Mercante in Fiera tra risate, schiamazzi e fette di panettone adagiate nel piatto a centro tavola. Come sempre zia Lella (così io chiamavo affettuosamente la moglie di Giorgio) era splendida anfitrione. La televisione trasmetteva le ultime immagini di Domenica in; c’era stato Alberto Sordi ospite di Pippo Baudo. Qualcuno sosteneva che l’Hellas Verona non avrebbe potuto vincere lo scudetto; era un modo per minimizzare la sconfitta del Napoli di Marchesi, che a Torino, nonostante Maradona, aveva preso 2 gol dalla Juve; avevano segnato Briaschi e Platini.
Il telegiornale delle 20 fu aperto da una notizia drammatica. C’era stato un attentato al treno Rapido 904 proprio sotto la galleria tra Firenze e Bologna, dalle parti di San Benedetto Val di Sambro. Le immagini mostravano solo il percorso che faceva il treno ed il punto dove, probabilmente, c’era stata l’esplosione. Restammo tutti inchiodati a quelle immagini, svanì l’allegria e commentammo, più o meno all’unisono ed ad alta voce, “Povera gente!”.
La mattina dopo, la vigilia di Natale, di buon mattino, me ne andai, con mia figlia Elena, a fare una passeggiata a Napoli. Prendemmo il treno della circumvesuviana, per evitare gli ingorghi del traffico. Era una bella giornata. Tutte le edicole avevano esposte le prime pagine dei quotidiani, che, con drammatiche foto in bianco e nero e titoli cubitali parlavano della strage di Natale.
Facemmo un bel giro. Comprammo qualche pensiero natalizio; io mi regalai l’ultimo cd di Paolo Conte, quello in cui c’erano Gli impermeabili, Sotto le stelle del jazz, Come di….
Ripreso il treno della circumvesuviana, rientrammo a Somma Vesuviana che era appena mezzogiorno. La pasticceria dei miei cugini aveva la serranda abbassata con un evidente segno di lutto. Oddio, che è successo? Bussai, entrai, chiesi.
–Come, non lo sai?…Sul Rapido 904 sono morti Angela, il marito Nicola ed i figli Anna e Giovanni.
Angela era la primogenita di zio Peppino, un fratello di mia madre; Angela era una bella ragazza, alta, dai tratti signorili e dai capelli biondi; aveva un anno meno di me.
Il Natale era ormai alle porte. Si era alla sera in cui si inseguono i pensieri di festa, si respirano gli odori di casa, si progettano i giorni di pace, il pranzo con i parenti, i regali da comprare.
Era la sera del 23 dicembre 1984. Un treno con gente del sud, che era partito dal binario 11 di una città in festa, Napoli, filava veloce alla volta di una metropoli nascosta nella nebbia, Milano. Un treno di gioia, un treno di festa, un treno presepe che –alle 19,08- si era infilato, all’improvviso, in un cunicolo di morte. Nelle viscere dell’Appennino bolognese, infatti, un boato aveva squarciato la carrozza n.9. Un carico esplosivo del peso di oltre 15 chilogrammi (un composto di pentrite, T4, nitroglicerina e tritolo) era stato collocato sulla retina portapacchi tra l’11° e il 12° scompartimento, probabilmente durante la sosta nella stazione di Firenze Santa Maria Novella. Dell’ordigno –simile nella combinazione a quello che, poi, sarebbe stato utilizzato negli anni a venire all’Addaura e in via D’Amelio- fu impresa vana scoprirne la paternità. Si disse di tutto e di più: di eversione nera, di guerra tra corleonesi e palermitani, di banda della Magliana, di prima risposta ai mandati di cattura relativi al maxi processo ed emessi, appena un paio di mesi prima, dai giudici Falcone e Borsellino.
Le fiamme, il fumo, l’odore della morte, brandelli umani schizzati sotto la volta della galleria: quindici furono i morti che si erano contati tra i feriti insanguinati. Il nome di quel treno, Rapido 904, sarebbe restato indelebile nella memoria.
Bettino Craxi, che era a capo del governo, disse: – ci hanno macchiato il Natale di sangue.
Nel paese la notizia era corsa velocemente, la tragedia aveva toccato anche una famiglia di Somma Vesuviana. Erano rimasti, infatti, vittime dell’attentato Angela Calvanese, Nicola De Simone, Anna e Giovanni: madre, padre e due figli. Giovanni era il bambino trovato sui cavi elettrici sotto la volta della galleria. Di Anna si era trovata la bambola ed il suo corpo di adolescente martoriato. Di Nicola, forse, il corpo intero; di Angela quasi niente. Per molte ore successive allo scoppio della bomba c’era stato anche chi, in assenza di riscontri certi, aveva nutrito ancora qualche piccola speranza che almeno qualcuno dei quattro fosse sopravvissuto. Poi, era arrivato l’allora comandante della polizia locale, il tenente Domenico Allocca, a cancellare ogni residuo dubbio.
L’abitazione di Casoria, città in cui dimoravano Angela, Nicola ed i loro due bambini, restò chiusa col suo odore di morte. Qualcuno disse che sulla lavagna della scuola frequentata dai bambini dilaniati, proprio Anna avesse scritto qualche giorno prima: “ciao scuola, ci vediamo il sette gennaio”. Attesa inutile, appuntamento cancellato!
Una veglia di morte, lunga tre giorni e tre notti, si tenne, invece, nella casa della mamma di Angela, zia Flora (da anni vedova), a Somma Vesuviana, paese segnato da un lutto profondo. Gente che andava e veniva, carabinieri, parenti, politici, preti. Umanità mista che testimoniava dolore e partecipazione, curiosità e conforto.
Fu Renzo Imbeni, il sindaco di Bologna, raggiunto attraverso il mio amico Geri di Reggio Emilia, ad assicurarmi che le salme sarebbero partite, dalla città felsinea, all’alba del 27 dicembre. Le famiglie De Simone-Calvanese avevano rifiutato i funerali di Stato ed Angela, il marito ed i loro figli non sarebbero stati ai piedi della basilica di San Petronio, inondati dalla commozione di una folla immensa e dalle lacrime del vecchio Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica.
Quindi, al casello dell’autostrada di Pomigliano d’Arco, alle 13,15 del giorno in cui la Chiesa festeggia san Giovanni Evangelista, comparve un Ducato targato Bologna: consegnava il suo carico di morte a un paese tante volte tradito e nuovamente ferito dall’insano gesto di una mente barbara. Ad attendere quel doloroso arrivo c’ero io, accompagnato dall’auto dei vigili urbani di Somma, alla cui guida c’era l’amico Mario Feola. Angela aveva trentatre anni, Nicola quarantaquattro. Giovanni aveva poco più di quattro anni; Anna, proprio il 21 dicembre, due giorni prima della tragedia, aveva compiuto nove anni!
Chi può dimenticare quegli intensi giorni di commozione? Il saluto della folla? Lo strazio di quelle bare: due bianche e due di legno scuro?
Quanto dura un’emozione? L’attimo in cui si genera, poi solo il ricordo. Una vorace fossa inghiottì quattro bare; solo una stele di marmo per ricordare “Di voi è la serenità della famiglia. Di noi l’attesa per un treno che ci ricongiunga”. Un ricordo tenero e bruciante; un fiore sempreverde tradito dalla nebbia della civiltà.
- Bisogna accertare chi, tra il marito e la moglie, ha chiuso per ultimo gli occhi.
- Ma…
- E’ necessario al fine della successione dei beni.
- Ma…
- Gli eredi vanno individuati in una famiglia o nell’altra.
- Ma…
- Non è vero che il contributo stanziato dallo Stato è assegnato per quattro persone.
- Ma…
- I bambini erano troppo piccoli per essere considerati produttivi.
- Ma…
Come quando nell’antica chiesa di Santa Maria del Pozzo si erano tenuti i funerali. Una folla immensa, anche fuori, sul sagrato, sull’intera amplissima piazza. Ed un alto graduato dei carabinieri aveva tentato di imporre tempi insoliti all’intera cerimonia funebre.
- Può parlare con me; sono il cugino di Angela.
- Bisogna che si riducano i tempi; entro le ore 15 le salme vanno trasportate al cimitero.
- Guardi che la funzione è prevista per le ore 15,30…E, poi attendiamo il vescovo di Nola…e parenti ed amici che ancora non sono arrivati…
- Ho la responsabilità dell’ordine pubblico. Si guardi attorno: che marea di gente! E se scoppia una bomba?
- Si tenga le sue responsabilità. Questa è una cerimonia privata; è un incontro di famiglia. Vada a preoccuparsi delle funzioni pubbliche…Mi fa piacere se resta. Mi dispiace se continua a parlare.
Solo un pianto si levò nella sera ormai prossima di un anno, che era già morto e sepolto nel buio di una galleria. Sopravvissero solo atti di morte che, per competenza territoriale, spettavano al comune di Castiglion dei Pepoli.
Quasi contemporaneamente a Somma Vesuviana venivano celebrati i funerali delle vittime campane. Dei 15 morti della strage, ben nove erano della Campania, la terra più colpita. Lucia Cerrato, 76 anni, era stata anche la prima vittima ad essere identificata: sul registro della Morgue era stata annotata al numero 878, del giorno 24 dicembre, ore 12,20, “residente in Napoli, al corso Vittorio Emanuele n.440, inviata dal rapido Na-Mi”. Ad Ischia una folla commossa attendeva la motonave, partita da Napoli alle 8,55, per accompagnare la bara di Federica Taglialatela, prima alla chiesa di S.Maria di Portosalvo e, poi, al cimitero. All’ultimo saluto per la piccola Federica, 12 anni, mancavano il papà, la mamma ed il fratello Gianluca, tutti ricoverati –non in pericolo di vita- all’ospedale Maggiore di Bologna. A Casoria, nella chiesa di Arpino, si svolgevano, invece, i funerali di Abramo Vastarella, 29 anni, padre di tre figli, operaio a Milano. Ad Abramo, figlio di un pastore della comunità evangelica, avevano messo nella bara una copia della Bibbia. Ad Acerra veniva salutato, per l’ultima volta, Carmine Altobelli, 52 anni, operaio della “Cuma-Sud”. A Luogosano, invece, in provincia di Avellino, veniva portato l’estremo omaggio a Carmine Moccia, 31 anni, operaio in Belgio, luogo in cui stava tornando e dove lo stavano attendendo la moglie e due figli piccoli prima che quella maledetta bomba gliele avesse negato.
Intanto, la mattina del 27 dicembre, alle 11, nella Sala dei Baroni in Napoli, i rappresentanti delle Istituzioni avevano accolto il presidente del consiglio dei ministri, Bettino Craxi, giunto per testimoniare la sua vicinanza alla città più colpita dalla strage del Rapido 904. C’era il sindaco, Carlo D’Amato, che parlò “del malessere, della sofferenza continua, che contraddistingue il vivere della città e delle risposte che si chiedono ai politici”. E c’erano il prefetto Riccardo Boccia, il presidente della Regione Campania, Antonio Fantini –“che quel treno sia l’ultimo doloroso contributo alla difesa della democrazia”-, il presidente del consiglio regionale, Giovanni Acocella, il presidente della provincia, Franco Iacono, i massimi vertici civili e militari.
In un pomeriggio di dolore a Somma Vesuviana si andavano spegnendo le ultime luci del giorno. Rincorrendo il Perdono si andava spegnendo anche l’omelia del vescovo di Nola, monsignor Giuseppe Costanzo. Al locale cimitero erano stati piazzati due potenti fari. Gli interratori avevano scavato tutta una giornata per preparare una dimora adeguata alle quattro bare della famiglia De Simone-Calvanese. Quindi, le pale le avevano coperte di terriccio. Lo strazio di quei corpi stava per avere pace. Vi sia lieve la terra.
Nei giorni che seguirono, a lungo, zia Flora sostenne di sentire le voci della figlia, del genero e dei nipoti. Certo, qualcosa di inspiegabile era davvero accaduto. Il canarino di Angela –lasciato a casa di zia Flora- era morto proprio il giorno della bomba sul treno. Coincidenza che aveva cancellato ogni traccia animata di Angela e delle sue cose più care.
Ancora oggi, almeno una volta al giorno mi sorprendo a pensare a quei tragici giorni. E, quando mi capita di raccontare a qualcuno di quelle morti, provo sempre una intensa emozione. Poi, se passo per Bologna (ma soprattutto quando vi ho soggiornato nei due anni di incarico di presidenza), non posso (e non potevo) fare a meno di fermarmi in Piazza Maggiore, nei pressi della fontana del Nettuno, lì dove ci sono le lapidi che ricordano gli innumerevoli morti, vittime innocenti di altrettante innumerevoli stragi. La lettura dei nomi di quei martiri mi restituisce un legame più forte con mia cugina Angela, con suo marito, i figli e con tutti quanti sono caduti per l’ottusa barbarie umana.
A trentun anni di distanza dal crepuscolo del 27 dicembre 1984, ricordo le luci che si spensero e che provocarono ombre spettrali, i motori delle auto che si riavviarono, gli sparuti gruppi che ancora si attardarono nell’area antistante il cimitero. Ricordo, a conclusione di quattro lunghi giorni, l’abbraccio che mi tese, ambedue scossi dal pianto, Tancredi Cimmino, mio vecchio amico e sindaco di Somma. Ricordo tante altre cose che appartengono al mio privato e personale.
Oggi Angela avrebbe avuto 64 anni e Nicola 75: sarebbero stati, forse, nonni felici di una schiera di nipoti. Anna avrebbe avuto, invece, 40 anni: sarebbe stata sposa e madre, avrebbe esercitato la professione di medico o di avvocato o sarebbe stata semplicemente casalinga o impiegata all’intendenza di finanza. Giovanni, infine, il piccolino, di anni ne avrebbe avuto 45: sarebbe stato un papà ed uno zio felice, sarebbe stato un bravo giocatore di tennis o di pallacanestro, avrebbe conseguito una laurea in fisica o in filosofia e avrebbe lavorato a due passi da casa o a Terni o a Zurigo…. Chissà!
Ho scritto per ricordare e per testimoniare di un Natale che non è esistito per me e nella storia del mio paese. Ho scritto per pregare nel senso più laico del significato.