Nella serata di ieri, 20 febbraio, è morto Gianni Ferrara. Era uno dei più noti costituzionalisti italiani. Era nato ad Orta di Atella, aveva studiato a Napoli e, poi, si era trasferito a Roma. Era stato, a lungo, capo della segreteria di Francesco De Martino. Successivamente, per due legislature, dopo avere lasciato il PSI, era stato deputato comunista. Dopo aver lasciato i palazzi della politica le aule universitarie, si era dedicato solo ai suoi studi giuridici.
Lo conoscevo abbastanza bene; qualche volta ci sentivamo anche telefonicamente. Qualche altra volta ci siamo incontrati, per dibattiti o presentazioni di libri a Napoli (all’Istituto Italiano di Studi Filosofici) o a Roma (al Palazzo dell’Enciclopedia); una volta Gianni è stato anche a Somma Vesuviana, per presentare il mio libro su Gaetano Arfè (la foto lo ritrae con un altro indimenticabile amico e compagno socialista scomparso, Raffaele Indolfi).
Ho un ricordo vivido di un incontro con Gianni Ferrara nella sua casa romana, affacciata proprio sul Colosseo. Era un pomeriggio di novembre; il suo tavolo da lavoro era ingombro di libri, di carte, di riviste, di appunti. Parlammo di comuni conoscenze, poi, lui sottolineò un concetto, che ritornò più volte nella nostra conversazione: “La politica, per la mia generazione, è stata dramma e sofferenza. Soprattutto sofferenza, perché rispetto a quello che noi volevamo fare, agli obiettivi che ci eravamo posti, agli ideali che inseguivamo, abbiamo perso”. Mi parlò del suo rapporto di intima amicizia con Francesco De Martino, delle consuete telefonate col Professore della domenica mattina, di avvenimenti che avevano avuto quali protagonisti Enrico Berlinguer ed Achille Occhetto, Gaetano Arfé e Leo Solari. Poi, incalzando il tempo a mia disposizione, gli chiesi di parlarmi del suo percorso di formazione socialista.
– Io appartengo a una generazione che ha vissuto la guerra, non ha avuto adolescenza, è cresciuta troppo presto ed ha preso immediatamente atto che, come diceva Gramsci, “il mondo è grande e terribile”.
– A quando si può far risalire il tuo ingresso nel mondo della politica e cosa ha determinato le scelte che poi hai fatto?
– Mi sono iscritto alla Federazione giovanile del PSIUP nel 1944. La mia scelta politica deriva dal fatto che sono pigro e la mia pigrizia decise per me. Non mi piaceva lo sport, mi piaceva solo leggere. Allora, durante le vacanze natalizie del 1942, andai rovistando tra i libri di mio padre e mi bastò leggere “La Madre” di Massimo Gorkij per sentirmi rivoluzionario. Rovistando ancora trovai, poi, “Il Manifesto” di Marx e mi convinsi che bisognava essere rivoluzionari. Così, dopo queste letture, quando sono tornato a scuola, mi sentivo diverso e mi ponevo il problema di come parlarne ed a chi parlarne di questa mia trasformazione.
– E come lo risolvesti?
In un modo semplice. Prima pensai di parlarne ad un amico carissimo. Poi, invece, vi rinunciai. Mi macerai e risolsi in modo insolito. Il 1° maggio del 1943 uscii dalla scuola gridando “Viva il 1° maggio”, “Viva il socialismo”. Avevo trovato il modo per comunicare quella mia trasformazione.
– E ti ponesti il problema, a quel punto, di cosa fare?
– Sì, cominciai a pensare che bisognava iscriversi a un partito, militare, agire. E, così, mi iscrissi tra i giovani socialisti.
– Fosti subito un attivista?
Certo. Nel mio paese, che era stato segnato fortemente dalla violenza dei tedeschi (nella loro ritirata, trucidarono ventisette innocenti cittadini di Orta di Atella), nella campagna referendaria del 1946 fui dalla parte repubblicana e, nelle prime elezioni, fui tra i pochi che si impegnarono e riuscirono a portare al PSIUP ben 110 preferenze.
– Quindi, la lettura di due libri determinò la svolta politica della tua vita?
– No. C’è stato altro. Avevo lasciato il liceo di Aversa e mi ero iscritto al liceo “Umberto” di Napoli, dove ebbi la fortuna di incontrare Vera Lombardi, titolare della cattedra di filosofia. Illuminante e decisivo per la mia formazione furono le sue lezioni sulla sinistra hegeliana e su Marx.
– E la scissione di Palazzo Barberini come la vivesti?
– In modo drammatico, perché “Iniziativa Socialista” passò tutta nel partito socialdemocratico ed io mi sentii, in realtà, molto in bilico tra la mia vecchia scelta socialista e il nuovo fronte saragattiano. Perché era anche vero che la mia iscrizione al partito socialista non coincideva con l’adesione piena all’allora politica morandiana; io, infatti, mi sentivo più attratto da Lelio Basso. Per fortuna, agli inizi degli anni cinquanta, a seguito di una posizione assunta dalla sinistra del PSDI, si costituì, a Napoli, il circolo “Pisacane”. Quella sinistra socialdemocratica aveva un settimanale che si chiamava “Non mollare”; era, inoltre, in contatti molto stretti con Vera Lombardi e Franco Castaldi, entrambi miei maestri di cultura politica.
– Ci fu, poi, un seguito alle tue attività politiche partenopee?
– No, perché nel 1955 sono andato via da Napoli alla volta della capitale. A Roma mi sono iscritto alla sezione socialista di Ponte Mario, ma non era già più la fase politica degli ultimi anni napoletani.
– Guardando in retrospettiva, cosa è rimasto di più vivo di quegli anni giovanili?
– La tensione dolorosa della scelta. Ricordo di aver conosciuto a Napoli Enrico Russo, un grande sindacalista, emarginato subito dopo la Liberazione, perché considerato un trotzkista; ricordo che una sera, in via S. Brigida, mi confessò: “non potevo stare né nel PSI né nel PCI, perché non sentivo di poter stare nel blocco filosovietico”. Ricordo che anche altri compagni, come la turatiana riformista Rosellina Balbi, i comunisti trotzkisti Libero Villone e Placido Valenza, erano drammaticamente macerati dall’appartenenza ad un blocco proletario diretto dall’URSS. Comunque, però, sono state tutte esperienze formative ed utili a far riflettere nella scelta della strada da seguire.
-E nel presente che ne è delle battaglie passate, che ne è degli ideali e dei valori della sinistra di una volta?
– Oggi sono vicino -dico vicino e non altro- a Rifondazione Comunista, dove si parla ancora di socialismo. RC è un partito pluralista, in cui ci sono, per la verità, anche fasce di anticomunismo viscerale, ma è soprattutto un partito che non accetta il capitalismo ed in cui nessuno dice che il liberismo è da considerare positivamente o, meglio, che il capitalismo va corretto e correggendolo diventa buono. Queste ultime erano tutte cose inimmaginabili nella sinistra italiana nel mezzo secolo che va dal 1944/45 fino al 2000.
Mi accompagnò alla porta, cingendomi le spalle. Mi fece dono di un suo libro (con dedica): L’altra Riforma nella Costituzione, edizione Manifestolibri.
Ciao professor Ferrara. Ciao Gianni.