1) Dal 1° settembre di quest’anno, a 65 anni e dopo 61 anni (di cui 17 da discente e 44 da docente, ricercatore e, infine da preside [nessuno –caparbiamente- da dirigente scolastico!]), smetterò di andare a scuola ma non di vivere,con ritmo diuturno, di scuola. Gli ultimi caldissimi giorni (massiccio sciopero del 5 maggio, contestazione per i quiz dell’Invalsi, blocco degli scrutini per opporsi alle disposizioni sulla governance della scuola) sono passati attraverso un defatigante passa parola (allarmato, confuso, fuorviante) dettato dal timore di potersi trovare, come sempre, di fronte al fatto compiuto ed ammorbidito solamente dalla speranza di una improbabile buona notizia purtroppo mai giunta. L’impresa maggiore, da parte mia, è stata quella di cercare di convincere una mia giovane collega –da un grande cuore, da una magnifica intelligenza e da una galoppante demotivazione- che la scuola non è finita, non può finire, per colpa del fenomeno della dealfabetizzazione così presente nella classe politica dominante. La speranza si è racchiusa, invece, nell’improbabile annuncio che si stesse, magari, sul punto di abolire il congiuntivo o proporre lo studio obbligatorio, in lingua originale, del Dialogo facetissimo et ridiculosissimo scritto da Angelo Beolco detto il Ruzzante (1502-1542).
Il significato di riformare resta, infatti, quello di dare una nuova forma, allo scopo di migliorare, rinnovare, riordinare qualcosa (nel nostro caso, la scuola). Ma la scuola, per i governanti di oggi, purtroppo, è fatta solo e sempre di parametri di rientro (tagli con la scure), di albi territoriali per assunzioni (un piano di inizio sistemazione dei numeri a sei cifre del precariato gemmato dalla mala politica e con essa cresciuto), di fascinose invenzioni lessicali servite in un itang’liano (Giacomo Elliot, Parliamo itang’liano, Rizzoli) come crowdfunding (micro finanziamento a sostegno di progetti didattici), hackathon (evento con la partecipazione di esperti), docente mentor (responsabile della valutazione e della formazione), opening up education (apertura a soluzioni di rinnovamento), school bonus (bonus fiscale per privati che volessero investire [?] nella scuola) o school guarantee (incentivo aggiuntivo per chi volesse investire [?] in un percorso di scuola-lavoro).
Volta e gira, alla fine, la minestra rimane sempre la stessa. Vogliono, infatti, a tutti i costi –i governanti- far passare un’idea di scuola-azienda. Che infamia! Scriveva don Lorenzo Milani (Lettera ai Giudici, 18 ottobre 1965):“La scuola è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè di senso politico”. Un pensiero che, alla luce di molti degli articoli che compongono l’ormai famigerato DDL 1994, sa di pleistocenico.
È normale che un’azienda, alla fine di un ciclo di produzione, scarti il materiale scadente. La scuola, nonostante l’assillo dei parametri di rientro e dei numeri rossi presenti nei bilanci, nel pieno adempimento del suo compito, deve, invece, condurre il cittadino-studente alla promozione (culturale, civica, politica). Nella scuola, pertanto, non possono e non devono esserci materiali di risulta. Purtroppo, però, questa sorta di scorie del capitale umano, con le sterili soluzioni adottate da una scuola che intende migliorarsi ricorrendo semplicemente ad un aggettivo (buona), continuano ad essere generate in forma compatta.
2) Si sa, alla fine di ogni esperienza, le colpe dello sfascio ricadono sempre sui vertici e, nella fattispecie, sui ministri in carica. Si chiamino Maria Stella Gelmini o Beppe Fioroni, Letizia Moratti o Francesco Profumo, Maria Chiara Carrozza o Stefania Giannini (o come si chiamerà il prossimo inquilino di Viale Trastevere) fa lo stesso. C’è da dire, però, che, pur se ogni giorno investiti da una continua mancanza di senso, solo raramente si mette in discussione la deludente politica scolastica degli ultimi quindici/venti anni, considerandola una diretta emanazione di un sistema governativo intenzionalmente così costruito! Dalle stanze del centrodestra, infatti, la politica nei confronti della scuola (pubblica) è emersa come animata solo da una volontà punitiva: i docenti fannulloni e vacanzieri impenitenti, l’organizzazione aziendale con i pacchetti produttivi, la subordinazione gerarchica, gli standard d’apprendimento livellati e la valutazione meritocratica. L’esatto contrario dell’altra sponda, il centrosinistra, dalle cui stanze, invece, ha spirato sempre l’aria di una politica scolastica di tipo eccessivamente rivendicativo, del tutto inadeguata a tradursi in occasione di rinnovamento serio, programmato e non demagogico.
In più il piano di intervento scolastico del centrodestra dell’ultimo decennio – ma anche quello del governo tecnico con l’appoggio dei partiti di centrosinistra- ha avuto un solo leitmotiv: il risparmio, la riduzione della spesa. Basta, per questo, rileggere, per esempio, la motivazione del ritorno al maestro unico nella scuola primaria (L. 169/2008), giustificata, unicamente, dall’esigenza di perseguire “gli obiettivi di razionalizzazione di cui all’articolo 64 del dl 25 giugno 2008, n.112”; o anche approdare al fine ultimo della L.111 del 12 novembre 2011 sul “Dimensionamento della rete scolastica”. Precedentemente, negli anni in cui la guida del Paese era toccata al centrosinistra, non è che le cose fossero andate molto diversamente. Più fumo che arrosto, più forma che sostanza, più dichiarazione di intenti che riforme sensate e convinte/convincenti: la demagogia degli organi collegiali, un poco chiaro concetto di collegialità (corresponsabilità, unanimità, maggioranza o altro?), il concorsone e i gradoni insieme a una frettolosa revisione dei curricoli.
Ma oggi, ad onta di una lunghissima storia italiana nel campo della pedagogia e della didattica, con i governi delle larghe intese (si dice così per spiegare un epocale pasticcio?) e con la confusione politica determinata dalla sacralità della parola governabilità, la scuola, al di là dell’antica ed altissima funzione culturale e formativa, nel progetto degli arrembanti neo responsabili del suo futuro, deve diventare la vera risposta strutturale alla disoccupazione giovanile e l’avamposto del rilancio del Made in Italy (La buona scuola, facciamo crescere il paese, Miur, settembre 2014).
Forse, è inopportuno ma vero, però, pensare che nessuno dei due schieramenti politici (in cui un sedicente Centro, buono per tutte le stagioni, ha legato a sé con morsa tentacolare la Destra e la Sinistra difatti annientandole), negli ultimi quindici/venti anni, ha mai avuto in mente una sana e corretta politica per la scuola. Centrodestra e Centrosinistra si sono contrastati, quasi sempre, contrapponendosi nelle scelte, abolendo (non migliorando) quanto fatto dagli altri, revisionando programmi e sistemi, abbandonandosi alla micidiale logica dello spoil system. Una logica, quest’ultima, che, oltre a contrapporsi a quella del merit system, ha generato una distribuzione di incarichi, cariche e responsabilità unicamente agli affiliati della parte politica che aveva vinto le ultime elezioni. Una sorta di “vae victis!”, un monito per gli sconfitti: ai vincitori spetta il bottino! Così, è capitato che in poco più di un decennio si siano succeduti tre tentativi di riforme ordinamentali (riforma dei cicli di Berlinguer, riforma Moratti [2004] e riforma Gelmini), quattro indirizzi programmatici (i contenuti essenziali del 2000, le Indicazioni Nazionali del 2004, le Indicazioni per il curricolo del 2007 e le Indicazioni nazionali 2012 per il curricolo di scuola dell’infanzia e del primo ciclo) e quattro riforme della valutazione della professione docente (il concorsone di Berlinguer, il docente-tutor della Moratti, l’incentivazione (la premialità) ai docenti migliori della Gelmini e il progetto sperimentale VALES [Valutazione e Sviluppo Scuola] di Profumo).
In questa continua partita a dama, però, mentre le pedine bianche o nere (dipendeva da chi era al governo!) di Viale Trastevere si muovevano sulla scacchiera della politica, in contemporanea, capitava di assistere all’annullamento di un progetto di scuola tracciato dalla Costituzione Repubblicana e imperniato sull’istruzione obbligatoria e gratuita, per almeno otto anni, come diritto e dovere di ogni cittadino! Si sono così persi di vista, in un sol colpo, la scuola intesa come bene comune insieme all’alunno, che doveva e deve essere l’unico e privilegiato fruitore, con i suoi diritti, con i suoi doveri, con i suoi bisogni.
Lucio Magri, che se ne è andato volontariamente e coscientemente qualche anno fa (suscitando un vespaio di sentimenti contrastanti), nel 2000, aveva scritto un interessante e bel saggio sulla scuola, intitolandolo “La madre di tutte le riforme”. La riflessione, avviata da una delle intelligenze più critiche e vivaci (e, perciò, eretica) degli ultimi anni, era tesa a sostenere che la trasformazione della scuola di massa –nel mentre si attraversava un periodo di profondissima crisi sociale, culturale, politica, economica (niente di nuovo sotto il sole!)- dovesse essere alla base di tutte le riforme. Ragionando, infatti, sulla necessità di una scuola adeguata ai bisogni dei tempi, Magri enunciava alcune idee alternative, che, volendo costituire una piattaforma di intenti da condividere, dovevano passare per forza attraverso due o tre processi innovativi quali: 1)la formazione permanente di tutti gli operatori, 2)l’autonomia delle scuole, 3)la costruzione di nuovi assi formativi.
Per sconfiggere, poi, la pratica usuale di affidare l’acquisizione delle nuove conoscenze (il presente e il futuro) o il rafforzamento delle pregresse (il passato, la memoria) unicamente alla televisione, nel saggio citato si invocava una nuova idea di scuola e della sua funzione, “rivolta alla effettiva promozione sociale e a fare di tutti realmente degli intellettuali”. Laddove l’intellettualità non era sinonimo della traduzione di un requisito culturale elitario ma, semplicemente, la capacità di saper affrontare i problemi complessi con le armi fornite da una generale crescita culturale e professionale.
La nuova finalità educativa immaginata da Magri richiedeva, innanzitutto, che lo spazio dell’elaborazione dei “significati” non fosse calato dall’alto, ma potesse vivere di una sua indipendenza. Era, in altre parole, l’esigenza di un’autonomia didattica, in grado di creare una cooperazione competitiva dei saperi con metodi e progetti culturali di ampio spessore. Posizione intrigante e per niente utopistica, opposta ad ogni tentativo di logica aziendale.
Così, la scuola di massa non era (e non poteva essere, visto lo spessore culturale e politico dei suoi ideatori) quella che, poi, è diventata l’incolpevole responsabile di tutti i mali e di tutti gli insuccessi sociali, culturali e politici contemporanei! Poi, a meglio definire l’idea significativa e profondamente innovativa di alternatività –non solo nella differenza tra scuola pubblica e scuola privata ma, soprattutto, tra scuola pubblica e scuola statale- la madre di tutte le riforme doveva garantire una scuola di massa dura, difficile, che non indulgesse a perseverare negli aspetti ludici o ad esaltarsi unicamente per percorsi di creatività, di socializzazione o di scontata scolarizzazione. E, per fronteggiare i denigratori arroccati nelle cittadelle oltranziste –per fede o per appartenenza- del Dio, Patria e Famiglia o dell’ideologia dei Buoni Sentimenti o del Mercato del Consumismo, doveva garantire un rinforzo a una visione gramsciana di una scuola che “doveva far capire la –e abituare alla- fatica (perfino muscolare) del lavoro intellettuale”.
3) Costruire il futuro è responsabilità di ogni uomo (che, come diceva Sartre, è singolare e universale) ma le politiche educative, quelle serie che fanno ottenere risultati soddisfacenti, appartengono ai singoli Paesi. E l’Italia, in questo campo, si arrabatta, scopiazza modelli anglosassoni (che importa ed adatta ad usum Delphini); vive in una sorta di limbo, in una posizione di collasso generale, tanto che la scuola occupa un posto basso nella scala dei valori sociali e culturali. Non è un caso, infatti, che nell’ultima edizione del rapporto annuale dell’Ocse Education at a Glance, sul raffronto dei sistemi educativi dei 34 paesi membri (più alcuni altri), il nostro paese ne esca malconcio al punto da occupare un modesto 31° posto -su 37 competitori- per quanto riguarda la spesa pubblica per l’istruzione (4,9% del Pil contro una media Ocse del 6,2%). Facendo risultare, poi, ancora peggiore la percentuale della spesa per l’istruzione sul totale della spesa pubblica: solo il 9% contro una media Ocse del 13% (31° posto su 32 [in termini calcistici: retrocessione certa, senza alcuna speranza di salvezza!]).
A fronte, però, dello stato comatoso delle politiche educative italiane, bisogna ammettere che si assiste a una nuova domanda di partecipazione alla vita del paese, che tenta di aprire orizzonti di speranza (e di futuro) e diventare la leva perché istituzioni delegate si industrino per favorire percorsi di crescita rivolti a tutte le persone. Anzi, l’obbligo che ciascuno sente di avere nei confronti di se stesso e degli altri, per migliorare la qualità della vita (come somma di vari indicatori: tenore di vita, affari e lavoro, servizi ed ambiente, criminalità, popolazione e tempo libero), sembra imporre la ricerca di occasioni di educazione e formazione, in cui le persone siano le vere protagoniste responsabili, in ogni luogo ed età. In un paese come l’Italia che – stando ai numeri rossi dei bilanci per l’istruzione- se non è un paese per vecchi non lo è nemmeno per giovani, un intervento educativo si può così giustificare ed essere remunerativo solo nella logica di un grande progetto. Quello, cioè, che sganciato dalle maglie di una quotidianità scolastica e dal vecchio modo di “prestare aiuto” all’utenza, si caratterizzi per il perseguimento di una nuova etica civile, finalizzata al recupero delle identità, all’integrazione delle differenze e al superamento delle diseguaglianze. Ed è qui che devono entrare in gioco anche quegli utenti ignorati dal manuale della Buona Scuola facciamo crescere il paese, che sono gli adulti e le innumerevoli etnie presenti nelle aule italiane.
4) Marc Augé (in Futuro, Bollati Boringhieri, 2012) sostiene che l’utopia dell’educazione rappresenta l’unica speranza per riorientare la storia dell’uomo nella direzione dei fini. È chiaro, in questa ottica, che il luogo dell’utopia è la Terra, l’intero pianeta! Necessita, pertanto, l’impegno per un rinnovato comportamento del cittadino (sempre singolare e universale), che si basi su un altrettanto rinnovato concetto di partecipazione, dovere, responsabilità personale. In altre parole, è impensabile accettare ogni sistema come adattamento ad un potere e non come una modalità di vita da interpretare, modificare e, poi, governare per il benessere personale e collettivo. Sino a farlo diventare un sistema rigoroso nelle procedure, nelle aspettative e nei prodotti.
Come può immaginarsi, allora, debba essere il binomio scuola-futuro?
Quando saltano le tranquille cittadelle dell’economia e del lavoro, della geografia e della storia delle culture, allora è necessario potersi avvalere di una memoria intorno a cui ricollocarsi socialmente e da cui individuare i valori da selezionare. E nelle istituzioni, che respirano Europa e ne formano i cittadini, è importante educare alla serendipità, quella capacità o arte, cioè, di rilevare e interpretare i dettagli apparentemente più insignificanti in una traccia di riflessione e di ricostruzione di un processo.
Questo percorso, ovviamente, tende ad escludere il tradizionale artificio scolastico, che ritrova ogni legittimazione didattica solo nei programmi di studio, nel selezionato, delimitato e concluso. Mentre diventa importante educare all’apprendere a vivere, sapendo gestire l’incertezza, le emozioni, le curiosità, il non concluso. Con il conseguente capovolgimento di un modello, che, superando i prodotti manierati e le sterili simulazioni ripetute mille volte, restituisca agli allievi il gusto della conoscenza del mondo, attraverso una ricerca esistenziale dell’identità.
Chi sono e cosa faccio io in questo luogo? Di quali conoscenze ho necessità per penetrare e governare i modelli della mia tribù? Di quali valori sono portatore ed intorno a quale memoria essi si abbarbicano? Dovrebbero essere queste le domande “intelligenti” di un giovane scolaro, che non si lasci affasciare dai panni del bullismo, della noia, della consuetudine, del prodotto finito ad ogni costo. E dovrebbero essere queste le domande di chi è deputato, responsabilmente, ad educare alla socialità, alla salvaguardia dell’ambiente, alla salute, alle regole della vita pubblica, delle istituzioni, del lavoro, della vita culturale. Solo così la scuola potrà sentirsi parte integrante di un contesto comunitario, dove il rapporto interattivo scuola-società è la pregiudiziale ineludibile per costruire il rapporto io-mondo. Solo così la scuola non sarà più sede delle definizioni, delle storie parziali e di apprendimento di “certe” opinioni, ma governo della realtà con tutti i dubbi, le incertezze, stati di malessere e di benessere. Solo così si può sperare di varare la scuola dell’apprendimento alla complessità.
L’apprendimento – che è parola già di per se stessa con significato di “processo di acquisizione delle nozioni necessarie ad un individuo per conseguire o migliorare l’adattamento all’ambiente”- non può, infatti, prescindere dall’individuazione di compiti precisi a cui rispondere. Ciò presuppone il superamento, non l’annullamento, del curricolo dei saperi a tutto vantaggio del curricolo delle logiche. Un ennesimo modo per dire che l’acquisizione delle strumentazioni di base è il presupposto, e non il traguardo a cui tendere, per realizzare compiti, veri concentrati di sviluppi logici e sistemi rigorosi.
E i sistemi rigorosi inglobano anche il sistema-uomo, per cui chi va a scuola deve avere una grande garanzia: acquisire la fiducia di “essere capace”. Essere capace di essere un cittadino, essere capace di essere un lavoratore, essere capace di essere un politico, essere capace di essere.
I sentimenti di solidarietà europea non possono essere delle semplici dichiarazioni di intenti. La solidarietà è un comportamento, un modo di operare. Ogni problema non può essere risolto semplicemente e da un solo Stato. A problemi complessi si richiedono soluzioni complesse: che sono transnazionali ed associative. La globalizzazione non resta in vita senza la concertazione. Est ed Ovest dell’Europa, specie dopo il 1989, sono chiamati a rispondere, in modo coerente, corretto e chiaro, ad istanze sovranazionali.
La salute, l’ambiente, il lavoro sono problemi della casa comune.
Ripensare la scuola e l’apprendimento che si consegue a scuola è dare, perciò, strumenti logici per affrontare i delicati processi di sviluppo dei prossimi anni, ricchi di incertezze e di dubbi. I destini degli uomini sono legati da una stessa identità: il pericolo delle armi nucleari è uguale al rischio dell’ effetto serra; l’inquinamento delle acque è letale quanto quello dell’aria, dell’economia, della politica, della cultura.
Il senso di appartenenza si conquista solo agendo sulla solidarietà e sulla responsabilità. Oltre i discorsi civici, i decaloghi delle buone intenzioni, i manuali di comportamento, resta il radicamento all’interno di una identità conosciuta, condivisa, respirata, amata. Identità che, se come succede spesso nei nostri anni, si perde in gretti personalismi e in assenza di valori, può ritrovarsi solo nella cultura della memoria. E, quindi, necessita partire dalla memoria per ritrovarsi, poi, in una identità, di volta in volta, nazionale, europea e planetaria.
Per battere questi sentieri ed ottenere conseguenti risultati, la scuola ha bisogno di buoni docenti. Di docenti che sanno e sanno insegnare; che sanno prendere dall’interno della loro disciplina ma sanno ritrovare le risposte anche all’esterno della loro disciplina. Nessuna disciplina non comunica con un’altra. I presunti sconfinamenti o le false interferenze non fanno altro che creare ponti, collaborazioni, sinapsi.
La scuola è un teatro di vita. Chi volontariamente si propone a sostenere i giovani nella fatica dell’apprendere, nel facilitare loro i percorsi, deve governare non solo i saperi (mai trasmissivi) ma tutta la regia del teatro. Un buon regista lavora sul testo, affina le parti per gli attori, cura i particolari, studia i toni, le luci e le musiche. E se questo può sembrare troppo “teatrale”, in altre parole, bisogna che i docenti respirino gli statuti disciplinari, la metodologia della ricerca e l’organizzazione dei processi di programmazione.
Il regista di scuola non può invecchiare su vecchi modelli e decrepite teorie. “Se voglio vivere, devo dimenticarmi che il mio corpo è storico, devo abbandonarmi all’illusione di essere contemporaneo dei giovani presenti, e non già del mio corpo, passato. In altre parole, io devo periodicamente rinascere, farmi più giovane di quello che sono” (Roland Barthes, Lezione, 1981).
In fondo, essere contemporanei è collocarsi tra memoria e futuro. Ed essere docenti contemporanei è saper insegnare a porsi delle domande, piuttosto che dare delle risposte. E a scuola, come insegna la civiltà globale, purtroppo, non è più tempo che si chiedano solo risposte a domande preconfezionate.
Ora è tempo che le domande si facciano tutte e in modo diverso. Farà bene a chi ha la responsabilità di educare, a chi ha quella di governare, a chi semplicemente sta a guardare. Ed evitare, così, che nel teatro della vita avvenga ciò che avveniva nel teatro tragico greco: i figli predestinati a pagare le colpe dei padri.
Giugno 2015