Carmine, il figlio, mi disse che sarebbe stato meglio se il padre l’avessi ricordato come l’avevo visto l’ultima volta, un paio di mesi fa. Io, invece, quel pomeriggio di lunedì 23 febbraio insistetti per vederlo nel suo lenzuolo funebre. Saverio era morto da poche ore ed io volevo salutarlo per l’ultima volta, per pochi minuti, giusto il tempo di srotolare fotogrammi di una pellicola lunga cinquant’anni. Avevo saputo subito che la sua malattia non gli avrebbe lasciato scampo ma non immaginavo che sarebbe stata così veloce. Nei pochi mesi che era stato in ospedale, quando andavo a tagliarmi i capelli, Carmine gli telefonava e, poi, mi passava il cellulare. Non gli chiedevo mai come stesse; lo prendevo in giro, gli dicevo che si stava bene senza di lui; lui rideva divertito e si augurava di tornare presto nel suo salone.
Io ero proprio un ragazzo quando lo avevo conosciuto; lui, invece, aveva già fatto il militare; era smilzo, portava i capelli fluenti, vestiva con colori vivaci, aveva una vera passione per i motori. Mi ricordo la sua lambretta con le fasce laterali di colore verde; e, poi, una Fiat 500 di colore blu, manubrio da corsa, marmitta abarth insieme a una serie di ninnoli appesi allo specchietto retrovisore. Quel giovane barbiere era un po’ una novità per un paese in cui il taglio della barba e dei capelli seguiva ancora il rito delle messe domenicali, delle feste comandate, dei matrimoni e delle cresime. E, inoltre, quel giovane barbiere era affabile, educato; pensavo che –una volta cresciuto e diventato autonomo- sarebbe diventato il mio barbiere. E non vedevo l’ora che lo diventasse davvero il mio barbiere.
Da piccolo andavo a farmi tagliare i capelli da don Alfonso. Il salone da barbiere di don Alfonso era posto di rimpetto all’unico e vecchio edificio di scuola elementare del paese; si apriva proprio sulla centrale via Roma, sul cui basolato liscio, spesso, gli zoccoli dei cavalli, che trainavano carrette traboccanti di frutta per il mercato della città, accendevano scintille nell’impatto. La strada era ombreggiata da una lunga fila di alberi, che ne accompagnavano il cammino dal bar ad angolo, sotto l’antico campanile, fino al cinema. Un poco, oltre, al distributore di benzina, il paese era come finito: c’erano solo il rione delle palazzine e, quindi, l’incontro con il lagno che scendeva dalla montagna, il ponte della ferrovia e la diramazione di due strade. La prima portava al paese vicino; la seconda conduceva al cancello del cimitero.
Mio padre era cliente del salone di don Alfonso da sempre. Ed era stato inevitabile che anche io, fino alla piena adolescenza, lo avessi dovuto seguire, quando decidevo di tagliarmi i capelli (mia madre mi ricordava sempre di chiederli “all’umberta”: sfumatura alta e taglio corto). C’erano in quel salone quattro mastodontiche poltrone, borchiate, girevoli, col poggiatesta reclinabile -ricoperto di carta igienica- e un cuscino sullo schienale prontamente girato ogni volta che si sedeva un nuovo cliente. Ogni poltrona aveva un lavorante fisso, una sorta di proprietario di quel posto. Don Alfonso, sempre con gli occhi rivolti alla strada, occupava la postazione vicino all’ingresso; il suo vice era Giovanni –basso di statura, capelli impomatati, sopracciglia bianche e folte- e solo a lui era concesso di sostituirlo nel taglio dei capelli. Ciro ed Aniello, i più giovani (ma non semplici apprendisti), erano, invece, destinati, unicamente agli shampoo e alle barbe. Le poltrone avevano di fronte un lavandino con uno specchio sovrapposto. Ai lati di ciascuno dei lavandini, agganciata alla parete, pendeva una striscia di cuoio per affilare i rasoi. Ma per rifare la lama ai rasoi, spesso, in quel salone usavano anche la “pietra del Belgio”.
Don Alfonso era ciarliero, spaccone, molto addentro ai fatti paesani. La sua caratteristica era un colpo di forbici, uno sguardo alla strada ed un commento salace. Quando capitavo sotto i suoi ferri, venivo sempre rimproverato. Infatti, ogni volta che con gesto meccanico avvicinava le forbici alla mia testa, pur tenendo gli occhi fissi sulla strada, io, seguendo la scena allo specchio, subito mi allontanavo da quelle punte, temendo il peggio. Forse, fu proprio per questo motivo che, appena, con il ricavato delle prime lezioni private, fui più autonomo, cambiai salone da barbiere.
Sporadicamente avevo frequentato – ma non come cliente- il salone di Massimino, che accoglieva una clientela già più esigente, aveva spazi più ampi e sulle mensole davanti alle poltrone (sempre quattro, sempre girevoli, sempre con i poggiatesta), proprio sotto gli specchi, metteva in mostra –una novità per i primi anni sessanta del secolo scorso!- qualche lozione per i capelli e qualche balsamo per la rasatura. Massimino era giovane e simpatico, con la battuta pronta, si dichiarava di idee socialiste; aveva il mito del posto fisso, quello che consentiva di percepire uno stipendio sicuro, a scadenza mensile, tanto “il mese va e viene”. E riuscì ad occuparlo, alla fine, il posto fisso, anche se fu costretto a fare il pendolare –con i treni della circumvesuviana- tra il paese e la città. Ma non gliene importava niente; viaggiava con piacere, incontrava persone e, a fine giornata lavorativa, prima di risalire sul treno della circumvesuviana che lo riportava a casa, non disdegnava di entrare, insieme a qualche sodale, in una delle sale cinematografiche, un tempo numerose, con proiezione di innocenti pellicole vietate ai minori di anni diciotto.
Da Massimino, in verità, ci passavo solo nei mesi di luglio e agosto, il sabato e la domenica, più o meno all’ora di pranzo. Nel suo salone, infatti, da un rubinetto posto alla sinistra dell’ingresso, per una conduttura probabilmente molto profonda, scendeva un’acqua gelida. Allora, poco prima di sederci a tavola, mio padre mi metteva tra le mani un fiasco con la protezione di paglia e mi chiedeva di andarlo a riempire d’acqua ghiacciata alla fontanina del salone di Massimino. E io ci andavo, perciò, da Massimino anche se mi vergognavo, specie la domenica. Nel giorno di festa, infatti, era abitudine che i clienti di quel salone si facessero sbarbare, farsi dare una spuntatina ai capelli, togliere qualche pelo fuori posto (per chi disinvoltamente lo esibiva) al baffo all’Errol Flynn, per prepararsi alle conquiste serali in qualche balera o nelle piazze dei paesi vicini al nostro, dove lo struscio non si verificava solo di giovedì santo.
Ricordo il rituale che di solito seguivo. Entravo, salutavo, cercavo con lo sguardo quello di Massimino; al suo cenno di assenso, riempivo il fiasco, ringraziavo mentre Massimino rispondeva: “salutami papà”; quindi, di corsa a casa. Mio padre mi aspettava, travasava parte dell’acqua fresca in una bottiglia da un litro e versava due bustine di Idrolitina Gazzoni. Era la nostra bevanda frizzante dei giorni di festa, che, talvolta, serviva ad allungare anche un bicchiere di vino. Ne ricordo ancora la pubblicità: “Diceva l’oste al vino: tu mi diventi vecchio, ti voglio maritare con l’acqua del mio secchio. Rispose il vino all’oste: fa’ le pubblicazioni, sposo l’idrolitina del cavalier Gazzoni”.
In prossimità delle feste natalizie o pasquali, quand’ero piccolo, ero solito accompagnare mia madre dal parrucchiere. Sia lei che le mie zie andavano dal parrucchiere due, massimo tre volte all’anno (e se capitava qualche festa di matrimonio, una volta in più) e preferivano affidarsi a quelle mani esperte per una permanente piuttosto che per una messa in piega. Ed era una scelta dettata da uno stato di necessità. La permanente assicurava una lunga durata anche se, quando si usciva dal salone del parrucchiere le teste sembravano inamidate, dopo esser passate attraverso l’acconciatura con i bigodini e la cottura sotto il casco.
Il parrucchiere di mia madre occupava un locale molto piccolo ed aveva i vetri dell’ingresso resi opachi da alcuni fogli di carta oleata. Fuori non aveva alcuna insegna pubblicitaria; altri artigiani del settore, invece, avevano fatto scrivere “Parrucchiere per Signora”. Solo qualche anno più tardi il giovane Vincenzo, sfidando la consuetudine paesana, avrebbe fatto affiggere un’insegna luminosa con la scritta “Coiffeur”. Lo avrebbe fatto in contemporanea a un salumiere, che avendo rinnovato il suo locale, avrebbe fatto innalzare una vistosa tabella pubblicitaria con sopra scritto “Charcuterie”, di fronte alla quale ci si fermava con curiosità e stupore.
Il parrucchiere di mia madre si chiamava Salvatore. Era silenzioso, discreto. Oltre ai pettini e alle forbici appuntite, che uscivano, in ordine di lunghezza, dal taschino esterno della giacca, aveva, di lato a un lavandino, un capiente cestino, dove, alla rinfusa, c’erano forcine e bigodini, spazzole e retine. Dopo il taglio, lo shampoo e la preparazione con i bigodini flessibili, Salvatore trascinava un casco di ferro ad altezza regolabile e lo calava sulla testa delle clienti. Immerse nel casco fino al naso, quelle donne che sembravano astronaute, dovevano restarci non meno di una mezz’ora. Un tempo che impiegavano sfogliando o leggendo storie d’amore e di tradimenti su vecchi numeri di Bolero o Grande Hotel.
Una volta liceale ed economicamente autonomo –per i proventi delle lezioni private- scelsi come mio barbiere Saverio. Il suo salone era poco spazioso, c’erano solo due poltrone girevoli. Una la occupavano quelli che si sottoponevano al taglio dei capelli, che avveniva sotto la diretta responsabilità di Saverio, ‘o masto; l’altra, invece, era occupata da quanti dovevano farsi solo radere. Le barbe erano responsabilità di Armando, che, sebbene più anziano di Saverio, fungeva da ragazzo di bottega del masto.
Nell’angusto locale di Saverio c’erano anche tre sgabelli usati dai clienti in attesa di esser serviti. Quando non c’era da lavorare, specie nei pomeriggi d’inverno, con i vetri e gli specchi appannati, i tre sgabelli diventavano il tavolo da gioco di Saverio, che sfidava al tressette a pizzico Vincenzo ‘o russo, così chiamato per il colore dei suoi capelli, un venditore ambulante di frutta e ortaggi, che, appena liberato il suo asino dal carrettino usato per il commercio casa per casa, si precipitava nel salone di Saverio come in una bisca. A volte, quando giocava anche Enzo, il mio compagno di studi al liceo e, poi, all’università, il tressette a pizzico si trasformava in tressette a perdere. Al gioco delle carte, però, si alternavano anche don Pasquale e Gennaro. Don Pasquale faceva il vetraio; era sempre a tagliare, nel suo laboratorio, enormi pezzi di vetri poggiati su un tavolo di legno; un giorno, un vetro si frantumò e la mano di don Pasquale si colorò di rosso col sangue che non si fermava più. Gli avvolsero un panno attorno alla mano e lo portarono nella vicina farmacia; il dottore (come chiamavano il farmacista, che, spesso, praticava i primi soccorsi) quella volta non potette farci niente ed un’automobile col clacson spiegato partì per un vicino ospedale. Don Pasquale s’era tagliato un tendine ed aveva perso l’uso delle dita. Ebbe, da quell’incidente, una mano rigida sempre coperta da un guanto di lana, in estate e in inverno. Quella mano gli servì, in seguito, solo a reggere le carte, che infilava nell’incollatura tra il pollice ed il palmo inerti.
Gennaro –magro come uno spillo e con i capelli neri, impomatati e con la scriminatura a sinistra- era sempre alla guida di un pullman; la sua era una famiglia di chaffeurs. Il padre era stato, per anni, il tassista del paese; bisognava rivolgersi a lui, alla sua Fiat Millequattro nera dei primi anni cinquanta e, poi, alla sua Fiat Millecinquecento bianca e grigia per raggiungere Napoli, per portare una famiglia in vacanza, per condurre gli sposi, il giorno delle nozze, in chiesa e, poi, al ristorante. Gennaro e i due fratelli avevano ereditato l’attività paterna insieme a un paio di vecchi pullman senza servosterzo, coi sedili in similpelle e il bagagliaio sul tetto. I due voraci automezzi facevano servizio sulle tratte provinciali, spesso conducevano comitive di fedeli ai santuari più prossimi (nelle giorno di una santa ricorrenza o in quello della supplica alla Madonna); d’estate, poi, facevano il giro dei paesi vicini e, per cinquecento lire, caricavano famiglie di bagnanti, che si regalavano una giornata a uno dei tanti Lido Azzurro, Rex o anche Mappatella, del mare più vicino.
Con Saverio, per molti anni, abbiamo giocato –io e qualche altro amico- insieme alla sisal. Anche se non si voleva giocare, lui aveva un potere di convincimento contagioso. E, a quello che ne so io, entrava in società con più scommettitori. Un paio di volte siamo stati fortunati ed abbiamo riscosso piccole vincite. La prima volta ricordo che Saverio aveva giocato una schedina del totocalcio con me, Celeste e il ragioniere. Celeste era l’elettrauto della piazza; una pasta d’uomo; si lasciava coinvolgere facilmente, non che fosse molto interessato o che si arrovellasse molto nei pronostici delle partite. Diceva soltanto: ditemi quanto devo versare per la mia quota. Il ragioniere (si chiamava ragioniere e basta; non ha mai avuto altro nome), invece, era un distinto signore già avanti negli anni; forse, era toscano o emiliano, almeno così sembrava dall’accento, ed occupava un basso ad uso ufficio molto angusto, soffocato da un tavolo di lavoro ingombro di carte e cartelline. Forse, il ragioniere si occupava di previdenza o imposte. Chissà! Comunque, il ragioniere studiava con giorni di anticipo la schedina e si confrontava a lungo con Saverio. A volte si sentivano discutere di doppie e di triple con grande animosità. Ci fu una grande festa quando vincemmo circa mezzo milione, una somma da non disdegnare. A ognuno di noi toccò l’equivalente di un mensile di operaio: circa 123 mila lire a testa! Io non ero ancora sposato e potevo concedermi con quella somma vari lussi; il caffè al banco costava 70 lire, come il prezzo di un quotidiano o di un biglietto del tram; al cinema si andava con 150 lire.
Qualche anno dopo, la fortuna ci fu di nuovo amica e vincemmo un’altra piccola somma. Frattanto, però, i tempi erano cambiati e quel mezzo milione (questa volta a testa!) mi servì giusto a rinnovarmi un poco il guardaroba.
Qualche volta mi è capitato di avere delle fugaci apparizioni in televisione (quasi sempre private) o, nel periodo in cui sono stato impegnato in prima linea nella vita amministrativa del mio paese, di avere qualche foto sui giornali. Saverio, allora, diceva che mi aveva visto sul piccolo schermo e che, siccome era stato distratto da qualcuno o da qualcosa, non ricordava bene cosa avessi detto. Però, aggiungeva con orgoglio, stavi proprio bene; eri ben pettinato; ti hanno chiesto chi è il tuo barbiere?
Il mio barbiere era lui. Lui che si faceva crescere l’unghia del mignolo di molti centimetri, fin quando la punta estrema non cominciava ad incurvarsi.
- Che devi fare con quest’unghia lunga?
- Mi piace. E, poi, al cliente piace quando gli faccio lo shampoo. È come se lo massaggiassi.
Lui che andava orgoglioso della clientela acquisita.
- Dal mio salone è passata tutta la meglio gioventù del paese. Ora, insieme a tanti ragazzi clienti di mio figlio, continuano a frequentare il mio salone, onorandomi della loro amicizia, medici e professori, avvocati e sindaci… Mi è dispiaciuto che tu non sia riuscito a vincere la corsa alla fascia tricolore…
- Che vuoi fare. Capita. C’ho provato, mettendoci la faccia e l’impegno…
- Questo paese non è fatto per le persone perbene. In politica bisogna dire le bugie. La politica non è adatta per te. Comunque, saresti stato il mio sindaco ideale ed io ho sempre votato per te.
- Lo so.
Lui che durante il taglio dei capelli raccontava tutto quanto gli capitava.
- Sono stato una settimana a Rossano… lì mia figlia ha un appartamento. Gli anni scorsi ho fatto scorpacciate di fichi, quest’anno, invece, è stato cattivo tempo e di fichi manco uno…a te piace il mare?
- Poco, preferisco viaggiare… Sei stato una settimana e sei così abbronzato?
- No, sono stato con gli amici a Maiori.
- Coraggioso ad avventurati in costiera nel mese di agosto.
- Partivamo di mattina presto. Eravamo in quattro. Ci facevamo il bagno, un po’ di sole, poi, giocavamo a carte sotto l’ombrellone. Ci giocavamo il caffè freddo. All’una eravamo di nuovo a casa e il traffico non lo incontravamo…
Lui che era attento a curare l’aspetto dell’eterna gioventù dei suoi clienti.
- Ti stanno spuntando molti capelli bianchi.
- È segno di maturità.
- Perché non li coloriamo un poco… Bisognerebbe togliere anche i punti neri che hai sulla faccia. Perché non ti fai una bella lampada abbronzante…
Lui che era fatto così, un po’ timido e un po’ spaccone, un po’ loquace e un po’ solitario ma sempre di grande affetto e di grande disponibilità.
- Mi ricordo quando andavi all’università.
- E chi se lo scorda.
- Mi farebbe proprio piacere rivedere quel tuo amico, come si chiamava?
- Enzo.
- Ne abbiamo fatto partite a carte insieme.
Ora il mio barbiere era lì, da solo, nel freddo della morte. Carmine, il figlio, mi diceva sottovoce che il volto di suo padre ora sembrava più disteso. Mi diceva anche che la sera prima il mio barbiere aveva salutato tutti i suoi familiari. Gli avevano aggiustato il lembo del lenzuolo e lui aveva congedato tutti, dicendo ci vediamo domani. Ma per lui non c’era stato un nuovo giorno. Chissà che in quel saluto non si nascondeva anche un presentimento!
Gli dedicai un ultimo pensiero amichevole, affettuoso, sentito.
Me ne andai che era ancora giorno. Era il pomeriggio di un febbraio inoltrato e nell’aria c’era già un po’ di profumo della primavera.