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Ciro Raia
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Se hanno vinto tutti, allora chi ha perso?

Ciro Raia 25 Settembre 2020     No Comment    

E anche questa volta, il giorno dopo le elezioni, hanno vinto tutti! Chi perché ha guadagnato un decimale nelle percentuali delle preferenze rispetto a quelle racimolate due, cinque o dieci anni prima; chi perché si è intestato un merito di matrice collettiva; chi perché, convinto di perdere in malo modo, ha invece perso bene, cioè non è scomparso del tutto. E ha vinto anche chi, infine, perché è abituato a vincere sempre e comunque, perché sempre e comunque ha un animo trasformista, definito pure movimentista oppure –ottimisticamente- possibilista. Insomma, il prototipo di chi è abituato, con disinvoltura, a fare cambi di maglietta e saltare sul carro vincente.

E quindi ho dovuto, invece, prendere atto che a perdere è stata solamente la mia generazione. Quella più prossima all’uscita di scena, già pensionata, per un quarantennio ha costituito la forza-lavoro del Pese, la sua classe dirigente, la sua voglia di contare, la sua capacità di costruire il futuro.

E, di presa in atto in presa in atto, ho dovuto ammetter che la sconfitta più cocente è stata interamente personale. Cioè ha riguardato me, il mio modo di essere, il mio modo di pensare, il mio modo di amare, il mio modo di pormi sempre in spirito di servizio. Ma, come diceva quel vecchio proverbio, “l’uomo a sé stesso i mali fabbrica e la stoltezza sua chiama destino”.

Mi ha accompagnato, purtroppo, per tutta la vita quel destino infame. Sin da quando ero ragazzo. Non ho conosciuto il dramma della guerra né i primi duri anni del dopoguerra. Vivevo, però, in un paese del vesuviano in cui la ricostruzione e la risalita era stata molto faticosa. C’era un sindaco democristiano (a schiacciante maggioranza democristiana), che imperversava –infatti è stato uno dei sindaci perduranti: quasi trent’anni di comando- e che dotava di servizi essenziali un paese che, a ventennio fascista superato e a guerra finita, aveva pochi servizi essenziali. Non c’erano, infatti, fogne dappertutto, non c’era una scuola media, non c’erano molte strade di collegamento. C’era, però, un’aria salubre, un’agricoltura fiorente, una comunità cittadina fondata sul reciproco soccorso. Fin quando non fu saccheggiato gran parte del suo territorio con plinti di cemento selvaggio; fin quando il monte, che da secoli proteggeva gli abitanti dalla lava del Vesuvio, non fu costretto ad ingoiare camion su camion di monnezza di molti paesi (più vicini e più lontani), mentre cave sempre più profonde seppellivano sacchi di rifiuti tossici. Fin quando i grappoli di uva catalanesca, vanto di un passato aragonese, non divennero sempre più esigui e smunti; fin quando anche la comunità cittadina cambiò registro e cominciò a vivere di clientelismo, di compromessi, di gelosie, di occhio per occhio e dente e per dente.

Mi scontravo spesso con i miei amici dell’epoca. Alcuni erano figli dell’élite del paese e difendevano a spada tratta le decisioni (subìte) dei loro genitori in consiglio comunale, nei salotti buoni e negli studi di fior di professionisti. Alcuni altri, invece, che indossavano un eskimo verde e –come nella canzone di Guccini- portavano in tasca l’Unità, dicevano che bisognava cambiare il mondo, fare la rivoluzione, facendo leva su un’ideologia e su valori di umanesimo marxista. Non certo socialista, che era più simile a quello cristiano.

Passò del tempo e quelli dell’eskimo verde –come anche i figli dell’élite paesana- divennero classe dirigente, furono amministratori comunali (alcuni anche deputati e senatori), furono medici, avvocati, professori, infaticabili operai e valenti artigiani. Dicevano sempre di meno, però, che bisognava cambiare il mondo; anzi, dicevano sempre più frequentemente che il mondo era cambiato (come? non si sapeva) e che bisognava entrare nel sistema, perché il sistema andava così. Passarono, perciò, con disinvoltura, dalle affumicate assemblee delle sezioni comuniste e socialiste a quelle di sicuro più eleganti e profumate di Forza Italia. Ma fecero anche di più. Dissero che in politica la sinistra e la destra erano superate, erano dei luoghi comuni. Dopo poco tempo addirittura si innamorarono di movimenti e leghe, perchè promettevano eldoradi, pulizie quasi etniche, innalzamento di muri, piogge di soldi, eliminazione della povertà e tanto altro ancora.

Il ragionamento che era alla base dei loro comportamenti risultava essere molto semplice: il potere per essere tale ha bisogno di consenso; noi garantiamo il consenso se il potere ci favorisce in qualsiasi modo (anche a svantaggio degli altri, di quelli che una volta erano una comunità coesa). Così, quando un potente per mestiere chiese il consenso elettorale, quasi nessuno gli negò la soddisfazione di rafforzarsi e stravincere ogni competizione elettorale. Alcuni giustificarono il proprio comportamento dicendo: “tengo famiglia”; altri coerentemente dissero che il mondo andava ormai così, che bisognava saper vivere nel sistema (a Napoli anche la camorra si era, da alcuni anni, trasformata in Sistema, ‘o sistema), che l’unico dio era il denaro e con il denaro tutto si poteva comprare (tranne la morte).

Con questo modo di intendere la realtà saltarono tutte le cittadelle dei valori e delle idealità. Se parlavi di fascismo, ti irridevano dicendo che, anzi, a quei tempi si stava bene; in fondo Berlusconi non aveva detto che gli antifascisti venivano mandati a villeggiare? Se parlavi di Resistenza, dicevano che eri fuori dal sistema (sicuramente, in ogni caso, fuori d’’o sistema). Se difendevi la Costituzione, dicevano che era vecchia, indifendibile e (qualcuno lo aveva anche scritto) redatta da alcuni galeotti.

Ecco perché, alla fine, penso che abbia perso solo la mia generazione (ed io più di tutti). Ha perso la mia generazione, perché ha fallito – a volte mi chiedo se lo ha fatto scientemente- ogni suo intervento, perché ha costruito poco e male, perché ha incoraggiato l’abusivismo e rafforzato l’inquinamento, perché ha innalzato muri e –quando ha potuto- abbattuto i pochi ponti ancora resistenti.

Ed oggi dovrei far finta di restare esterrefatto di fronte all’esame farlocco di Suarez? Ma perché quanti titoli di studi si distribuiscono e si sono distribuiti in questo modo? Quanti dirigenti si promuovono e si sono promossi per appartenenza politica? Quanti crimini (intesi come abusi sociali, culturali, civici) si perpetrano e si sono perpetrati in nome di un sistema che andava e va (spero domani non andrà più) così, ciascuno impegnandosi a fare di tutto per mantenerlo indenne se non addirittura peggiorarlo?

Per cui, a conti fatti, la scelta tra un Sì o di No al referendum vale quanto quella tra un caffè ristretto ed uno schiumato. Dipende dai gusti, dai compagni di viaggio, da come uno si alza la mattina. E dipende anche da alcuni leader di partito, che, a seconda di come spira il vento o di come mormora la pancia, una volta gratificano la pizza margherita e la volta successiva ne parlano talmente male da convincere i più a mangiare pane azzimo.

Trentuno anni fa Luigi Compagnone (era il 1° maggio 1989) mi fece dono di una sua poesia, il cui titolo era: “50 anni dopo la seconda guerra mondiale”. La conservo in cornice su una parete del mio studio: “Guardo intorno alle utopie di quei poveri mattini, guardo intorno alle speranze/ arse in mille ciminiere [..] vedo Neri dalle facce sporche di bianchi sputi,/ vedo fuochi in Palestina […]e vi chiedo chi l’ha vinta quella guerra/, non l’ha vinta Che Guevara, non l’ha vinta Luther King,/ non Mandela, né le madri assediate nei containers,/ non l’ha vinta la cultura né la musica ammazzata/ nelle orchestre della droga,/ ed allora vi domando chi l’ha vinta quella guerra/ contro gli angeli del cielo ed i sogni della terra”.

Tutti hanno vinto le elezioni. Ed allora chi le ha perse le elezioni? Le ha perse la mia generazione; le ho perse io. Le abbiamo perse, perché in quarant’anni abbiamo creduto di aver cambiato il mondo, ‘o sistema; perché dopo quarant’anni ci siamo, forse, arresi al pensiero dominante che considera la destra e la sinistra come ideologie superate, che ritiene la scuola un semplice diplomificio e la politica un mezzo per far carriera, per annullare competenze, per appiattire il pensiero.

Le sconfitte non discendono sempre da rapporti di forza fisica; spesso derivano da strategie sbagliate, da errori. E gli errori devono insegnare, piuttosto che penalizzare. Ed allora in questi scampoli di vita che ancora restano alla mia generazione, a me, bisogna fare quadrato, recuperare le energie, spendersi fino all’ultimo respiro, darsi in funzione dell’altro. Perché non dobbiamo più roderci dentro, perché le utopie della giovinezza devono tramutarsi in pezzi di realtà, perché non possiamo morire avendo la sensazione che, visti come sono andati i risultati, le elezioni le hanno vinte quelli che, invece, le hanno perse davvero!

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Autore: Ciro Raia

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