Non sognavo mio padre e mia madre da tempo. Anzi, da quando erano morti -mio padre da tredici anni e mia madre da sei- non li avevo mai sognati, né singolarmente né in coppia. Ma a ridosso del tredicesimo anniversario della scomparsa di mio padre e di quello che sarebbe stato il loro sessantunesimo anno di matrimonio, era stato pubblicato un mio lungo racconto (quasi un romanzo); aveva un titolo intrigante e curioso, si chiamava “Il paese di Asso di Bastone”. Parlava dei miei genitori, della mia infanzia e del mio paese d’origine. Era stata una grande soddisfazione, ma anche una personale vittoria, quella di essere riuscito a ottenere che la copertina del libro riproducesse una vecchia fotografia, in bianco e nero, scattata a due sposi il giorno delle nozze. Erano –quei due sposi- mio padre e mia madre, all’uscita della chiesa, seguiti da un corteo di familiari, amici e tanti bambini attratti dall’evento. Il tempo del fotogramma segnava la data del 7 aprile del 1949; si respirava una tiepida aria di primavera; c’era il sole; c’erano tanti amari ricordi di una guerra appena lasciata alle spalle; c’era tanta speranza sui volti di ognuno.
La sera in cui mi avevano pubblicato il libro ero andato a letto felice, per essere riuscito a far un dono postumo a chi mi aveva messo al mondo. Era un dono importante, perché li collocava in un libro, su una copertina e, in qualche modo, li rendeva noti a più persone. Sicuramente con grande gioia di mia madre, più sensibile al fascino di diventare un personaggio pubblico; meno di mio padre, che sempre si ostinava a rinchiudersi nel suo piccolo mondo di compagni d’armi e di lavoro.
Sognai, allora, quella notte. Sognai mio padre e mia madre nel giorno del loro matrimonio. Sognai che scendevano dallo scaffale dei libri di autori italiani (disposti in ordine alfabetico), l’ultimo in alto, della libreria Feltrinelli di Bologna. Mio padre, coi capelli neri e impomatati, indossava un abito scuro, camicia e cravatta da cerimonia, pochette a tinta e guanti stretti nella mano destra. Era nell’atto di offrire il braccio destro a mia madre, che, fasciata in un abito da sposa, rigorosamente lungo e bianco, con un cappellino con la veletta alzata ed un vezzoso bouquet di fiori primaverili, dispensava sorrisi a destra e a manca. Sognai che gli sposi erano accompagnati dai loro testimoni di nozze, che li difendevano dalla ressa dei tanti invitati scesi dallo stesso scaffale, quello degli autori catalogati sotto la lettera R. Dal lato di mia madre c’era Atiq Rahimi; da quello di mio padre c’era, invece, Fabrizia Ramondino. Il primo stringeva tra le mani un suo libro, “Pietra di pazienza”. Come la seconda, d’altra parte, che, invece, aveva fra le mani “Calore”.
Tra gli invitati c’erano anche Ermanno e Domenico Rea, Elisabetta Rasy, Arundhaiti Roy, Salman Rushidie, Philip Roth, Arthur Rimbaud, Lidia Ravera, Giovanni Riotta, Stefano Rodotà, Rocco e Antonia, coi i quali si esauriva il primo scaffale in alto della lettera R. Per cui dallo scaffale sottostante spingevano per scendere in corteo Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, Rainer Maria Rilke, Ugo Riccarelli e tanti altri che si intravedevano in lontananza.
Mio padre, si vedeva, era un po’ a disagio. Che c’entrava, lui, operaio con i calli alle mani, con quella gente che un po’ di puzza sotto al naso l’aveva. Certo, erano intellettuali, scrittori, maitres a penser, opinionisti. Mio padre non aveva nemmeno argomenti per discutere o, se ne aveva, temeva di essere poco preso in considerazione. Che figura avrebbe fatto -lui, lo sposo- di fronte ad alcuni invitati al suo matrimonio se con gli stessi manteneva le distanze? Ci fossero stati almeno un Ezio Pascutti o un Marino Perani (che bella quella finale, per lo scudetto del 1964, giocata dal Bologna contro l’Inter, lo diceva sempre), si sarebbe sentito più di casa.
Mia madre, invece, era felice. Le sue conoscenti – ma anche le sue cognate- sarebbero morte di invidia, quando avrebbero saputo di quel parterre de roi. Com’era solita fare, in ogni occasione pubblica o privata che fosse, non aveva trattenuto l’ansia, si era per un attimo staccata dal braccio di mio padre e si era avvicinata a me. Che doveva fare? Doveva subito dirmi che era un po’ preoccupata per la presenza di quel signore con i baffi e il pizzetto alla D’Artagnan;
- Sì, come hai detto che si chiama?…Ah, Atiq! Che nome strano! E’ afgano, come quelli che si vedono in televisione? Come quelli che hanno le armi? E se gli fanno o ci fanno qualcosa?…Madonna di Pompei, Santa Vergine, metteteci la mano vostra misericordiosa.
Poi, mia madre si era distratta o si era volutamente lasciata distrarre per qualche attimo. Quindi, aveva ripreso i suoi commenti:
- Quell’altra, come hai detto che si chiama?..Sì, sì, la Ramondino. Io me la ricordo, lei, da piccola, è stata anche nel nostro paese. Veniva a comprare i dolci nella pasticceria di papà. L’accompagnavano quasi sempre i figli del marchese e quelli del professore De Martino…però, dicevano che fosse comunista. Com’è elegante e che bel fisico che ha! Ma è rimasta comunista?…ah, ho capito cosa vuoi dirmi: i comunisti non ci sono più. È vero. L’ha detto anche la televisione.
Il corteo usciva, intanto, dalla porta della libreria, dal lato di piazza Ravagnana. Sotto le torri c’erano anche alcuni paesani, venuti appositamente per i miei genitori, che applaudivano al passaggio degli sposi. C’era Alfonsino il barbiere, che continuava a tagliare i capelli ma aveva gli occhi sempre puntati sulla strada. C’era Ciccio, il macellaio tifoso juventino, che si lasciava lavare i capelli dalla sua fidanzata –Marina, che poi sarebbe diventata medico- mentre le teneva le mani sotto la gonna; c’era Lella, la figlia di Angelina, che distribuiva ai bambini il latte appena munto. C’era Peppe, il parrucchiere venuto appositamente per l’ultimo tocco alla messa in piega di mia madre e che –per l’occasione- s’era portato dietro una scorta di bigodini, di forcine e un po’ di lacca. C’era Gelsomina –che in paese chiamavano Summinella– con la sua sacca di pane appena sfornato, che vendeva casa per casa. C’era Santina con i suoi rimedi naturali (un panno di lino, l’albume montato e un po’ d’olio per la stoppàta) ove mai fosse stata chiamata per un’improvvisa contusione alle ossa. C’era il maresciallo dei carabinieri, che non aveva mai nascosto un’interessata simpatia per mia madre.
- Maresciallo, buongiorno, anche voi qui? Come l’avete saputo?
- Gentile signora, alla Benemerita non sfugge niente e, poi, coi tempi che corrono è sempre bene tenere d’occhio afgani, pakistani, francesi, partigiani, autori di versi satanici…
- Ma è una cosa che ha organizzato mio figlio. Sapete, conosce tanta gente perbene…
- Eh, Signora, conosce tanta gente perbene!..con quella sua mania di volersi differenziare, di voler far rispettare le regole del gioco…Sapeste quante lettere mi arrivano in caserma; alcune anonime, altre firmate anche da vostri congiunti. Ma oggi è giorno di festa. Auguri, ma ditegli di non continuare a fare il socialista.
A quelle parole aveva avuto una smorfia di disappunto mia madre. Aveva pensato, forse, che veramente quel figlio sembrava non volere crescere: ma come, di questi tempi, ancora a fare il socialista? Ma, forse, il guaio vero era che quel figlio voleva per forza rendere pubbliche le proprie idee. Ma il voto non era segreto? E, allora, anche le idee politiche dovevano restare segrete. Quel figlio quante preoccupazioni continuava a darle. Eppure gli aveva dato un’educazione ferrea; gli aveva ripetuto sino alla noia che mai si doveva esporre, che mai doveva fare scoprire ciò che veramente pensava, che mai doveva dare confidenza agli altri. A volte, quel figlio, le preoccupazioni se le andava a cercare e, poi, ci restava male, gli veniva la gastrite. Ma perché lei, forse, si era mai messa in mostra per le sue scelte politiche? Aveva votato Mussolini, ma quanta ammirazione per la monarchia! E infatti lì, nel suo paese aveva votato per la lista “S. Gennaro”, un blocco di destra con voglia di monarchia più che di fascismo. E, di volta in volta, nel tempo, aveva dato la preferenza agli esponenti della Democrazia Cristiana. Così si era messa anche la coscienza a posto con la Chiesa ed il parroco, che riuniva i fedeli per chiedere un voto per la libertà e per la Madonna. Perché se arrivavano i comunisti…se arrivavano i comunisti, sarebbe stata una vera tragedia per tutta l’umanità. Molti non sarebbero morti nemmeno nelle loro case, nei loro letti…e, poi, non avrebbero trovato nemmeno un posto di lavoro. Che santi uomini, invece, quei democristiani! Erano dei buoni padri di famiglia, che pensavano per i propri figli e, quando avevano tempo, andavano anche a messa e –spesso- prendevano la comunione, con faccia compunta, con spirito sofferente, con schiena ingobbita. Però, una cosa la doveva riconoscere: suo figlio diceva di essere un socialista, non certo un comunista!
Poco più avanti, proveniente da via San Vitale, da dietro un autobus – era un 27A– correva trafelato don Gustavo. Era un lontano parente di mia madre e non voleva mancare ad una cerimonia in cui si sentiva un po’ padrone di casa. Che se ne sarebbe detto nella dotta Bologna? Un corteo nuziale di suoi parenti senza la sua presenza? No, no. Doveva trovare il modo di farsi perdonare per il ritardo, almeno con mia madre.
- Scusatemi, ma al semaforo di via Mazzini c’è stata una lite tra un automobilista e un lavavetri. Ho perso un sacco di tempo.
- Ero preoccupata ma sapevo che non saresti mancato.
- Infatti… siete ospiti miei. Andiamo al “Bitone” in via Emilia Levante. Anzi, no. Lì ci va sempre una mia vecchia fiamma col suo nuovo amante, un primario ospedaliero… andiamo, invece, alla “Locanda del Castello” a Sasso Marconi. Vedrete che vi piacerà; si mangia bene e, poi, è situato all’interno della corte di Palazzo de’Rossi. Vi sembrerà di essere nella nostra terra: nella corte del Castello d’Alagno o in quella de’Medici…
- Grazie, grazie. Mario, hai sentito?… mio marito non risponde o finge di non aver capito. Mi dispiace, forse, dobbiamo rientrare.
Era vero. Mio padre voleva rientrare. Gli facevano male i piedi per le scarpe troppo strette e per quell’improvvisa giornata di caldo. E, poi, pensava continuamente che dovevano rientrare nel loro scaffale, perché la libreria doveva chiudere. E ci teneva a rientrare anche perché voleva sì mangiare ma doveva stare attento e, poi, doveva prendersi le pastiglie per il mal di stomaco. Era aprile; forse, mia madre gli avrebbe fatto trovare pasta e piselli: si scordava sempre che i piselli gli facevano venire la febbre. Non c’era niente da fare; anche il dottore Calabrese glielo diceva sempre che aveva qualche intolleranza. E quella santa donna non lo voleva capire!
Mia madre diceva alla signora Ramondino che era dispiaciuta ma chi meglio di lei poteva comprendere ciò che mio padre desiderava. Gli uomini delle nostre parti erano fatti così. Erano schivi, timidi, non ballavano, non ridevano, pensavano già al lavoro del giorno dopo, alla Sisal da giocare, al destino che poteva cambiare da un momento all’altro. E la signora Ramondino diceva che capiva perfettamente. Li aveva conosciuti bene quegli uomini, quando era stata ad abitare nell’antico borgo. Niente, sembravano fatti con lo stampino: il ferroviere e l’ortolano, il maestro di musica ed il poeta, il segretario di partito e il salumiere.
In verità mio padre, prima di rientrare nello scaffale, mi aveva fatto una richiesta. Mi aveva chiesto di passare per le terre del Monte Sole. In fondo, l’avevano sempre appassionato le storie, i racconti e i film che parlavano dei Partigiani e della Resistenza. Dovevo cercare di accontentarlo e anche velocemente. Avevo, allora, pensato di portarlo, insieme a mia madre, dalle parti di Marzabotto. Davanti al sacrario lo avevo visto con le lacrime agli occhi, specie quando aveva cominciato a raccontare dei suoi compagni d’armi e delle sofferenze che avevano patito in guerra e nella lunga prigionia. Mi aveva, poi, chiesto se sapessi qualcosa del partigiano Lupo. Gli avevo risposto che lo avevo scoperto da poco, guardando il film “L’uomo che verrà”. Anzi, avevo aggiunto, mentre eravamo sulla strada del ritorno, che un giorno ero andato anche a Scopeto, proprio nella canonica dove avevano girato alcune scene del film.
Alla fine della giornata erano rientrati, poi, mio padre e mia madre. Al rientro, però, mio padre aveva qualcosa di diverso da quando era uscito. Conservava, forse, negli occhi la passione, il dolore, le ansie, le preoccupazione, le speranze, le paure, che avevano accompagnato tutti quanti erano riuniti nel sacrario che avevamo visitato.
Erano stati sicuramente quei sentimenti di mio padre a fare in modo che dagli altri scaffali si fossero mossi –senza ordine alfabetico- anche Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Carlo Cassola ed Elio Vittorini.
Prima che il sogno stesse per svanire, mio padre e mia madre mi avevano messo tra le mani un biglietto; avevano trovato il tempo di scriverlo, per ringraziarmi di averli voluti sulla copertina del libro. Riuscivo a stento a leggere: “Bisogna essere ponderati e razionali, ma che sofferenza…Sarebbe più semplice vivere sempre in una camera di consiglio, in un libro, in un film o in un sogno…ma la vita (purtroppo o per fortuna) è molto di più. Come sempre non ci aspettiamo alcun commento, ma non siamo noi gli avari parole!”.