Da quasi un mese i cieli dei paesi vesuviani sono solcati da aerei Canadair CL-415 e da elicotteri attrezzati per lanci di acqua e materiali ritardanti. Quella dell’autocombustione è solo una favola o una comoda scusa per non indagare a fondo. Le fiamme di luglio-agosto sul Somma-Vesuvio hanno sicuramente una paternità ignota ed ignobile. Si sprecano i luoghi comuni, si dice che non bisogna preoccuparsi, perché brucia il sottobosco; si dice anche che l’incendio farà bene alla montagna, la pulirà. Intanto, non sembra un caso che le travi di fuoco costituiscano come un muro divisorio della stessa montagna. Da una parte, la zona pedemontana, offerta in olocausto, con le tante costruzioni abusive; dall’altra parte, la zona alta, protesa al cielo con Punta Nasone (il Ciglio dei vesuviani), la maestosa croce di ferro, la luce votiva eternamente accesa nella cappelletta dove si conservano le pagelline dei defunti amanti della montagna.
Buona parte della superficie del Somma-Vesuvio sembra alla fine un campo di battaglia. È assente solo l’odore del nàpalm. E i caduti sono le creature divine: gli alberi con i tronchi strinati, gli uccelli e tutta la fauna e flora del sottobosco. E il luogo della battaglia da affidare alla memoria, ai posteri, è quello conosciuto col suggestivo nome di Parco Naturale del Vesuvio: un ente con grandi prospettive (aspettative) ma con innumerevoli vincoli.
Ogni volta che si alzano quelle fiamme sul Somma-Vesuvio, la stampa comincia a parlare di incendiopoli. Si pensa che ci possano essere interessi legati alla speculazione edilizia, al bussines miliardario delle operazioni di spegnimento e di rimboschimento, all’occupazione dei lavoratori stagionali. Senza tacere dei possibili piromani, dei nani patologici, degli invidiosi, dei camorristi, degli speculatori, degli strozzini, dei riciclatori di denaro, dei fumatori distratti.
Eppure la montagna è stata sempre un punto di riferimento per tutti i paesi vesuviani. È stata come una persona che si venera, si ama, si rispetta. Per il passato, coriacei contadini partivano all’alba, per inerpicarsi sulle balze di quella montagna benedetta; portavano sulle spalle qualche rudimentale attrezzo agricolo insieme a un tozzo di pane e una bottiglia di buon vino.
La montagna è stata anche un luogo di incontro e di festa delle paranze con i canti e i balli della tradizione popolare. Sui tuori si celebravano la primavera e l’autunno, le madonne e gli dei delle selve. La montagna, il Somma-Vesuvio, è stata amata come si ama un grande amore, mai uno sfregio, mai un torto, mai un livore e il cuore a mille per ogni incontro.
Poi, all’improvviso, si è infranto per sempre ogni antico sentimento. La montagna è stata tradita e nessuno ne ha preso più le difese. Anzi, ai giorni nostri, molti cominciano anche a dire che quella montagna, con tutti i divieti che comporta, è più un limite che un vantaggio per i paesi che sovrasta e per i suoi abitanti. Tanto vale che scompaia al più presto.
E così dai cieli di luglio-agosto – ormai di ogni luglio-agosto- dei paesi vesuviani i Canadair CL-415 e gli elicotteri attrezzati, annunciati da un persistente e alla lunga lugubre ronzio dei motori, lasciano precipitare cascate di acqua e materiali ritardanti. Ma il fumo continua ad alzarsi, proprio come se provenisse da un campo di sterminio.