Il 28 giugno 2012, consumato in pochi mesi da un brutto male, se ne è andato, quasi in punta di piedi, Amato Lamberti, un intellettuale col vizio della politica. Era docente di “Sociologia della devianza e della criminalità” ed anche di “Politiche della sicurezza sociale” presso l’Università “Federico II” di Napoli. Nel 1981 aveva fondato – e diretto fino al 1993- l’Osservatorio sulla camorra della Fondazione “Domenico Colasanto” della Cisl. Lamberti ha pubblicato libri ed ha collaborato a riviste e a giornali quotidiani. La sua intensa attività accademica non gli ha mai impedito, però, di spendersi in prima persona a servizio dei cittadini. Dal 1993 al 1995 è stato, infatti, Assessore alla Normalità (un eufemismo per dire Ordine Pubblico) al Comune di Napoli, nella prima giunta presieduta dal sindaco Antonio Bassolino, quella definita del “Rinascimento napoletano”. Dal 1995 al 2004 è stato, poi, eletto, in coalizioni di centrosinistra, Presidente della Provincia di Napoli.
Lamberti era nato, nel 1943, a San Maurizio Canavese (To); dal 1958, la sua famiglia si era trasferita in Campania ed aveva scelto di vivere a Salerno, città in cui egli ha chiuso i suoi giorni.
Presentato, così, sinteticamente, quello del professor Lamberti appare solo un profilo professionale di grande rispetto e con in più il valore aggiunto di un’assunzione di responsabilità politico-amministrative nelle Istituzioni pubbliche. L’attenta lettura del suo impegno e dei suoi studi, lo colloca, invece, tra i grandi meridionalisti al pari di uomini come Dorso o Nitti, Salvemini o Villari. Anzi, a voler essere più precisi, egli, ritagliandosi un ambito di ricerca più specifica, è stato un circostanziato studioso della “questione napoletana”, alla quale ha dato –oltre a una visibilità nel campo degli studi nazionali ed internazionali- un contributo di conoscenze, dettagli, indagini e consequenziali ipotesi di soluzione di spessore innovativo ed anticipatorio rispetto ai tempi e agli uomini, appositamente deputati al governo del cambiamento della società e della città.
Ha riflettuto su Napoli -che conosceva palmo a palmo, vicolo per vicolo- e sui suoi fenomeni deteriori, non denunciando solo le cause ed i presunti responsabili di tutti i problemi (seguendo la scia di un rituale stantio tra chi si considera “un addetto ai lavori”), ma andando a capire le ragioni degli ultimi, dei diseredati, dei picari, molti dei quali conosceva personalmente e “che non abitano a Napoli, ma alla Sanità, ai Quartieri, ai Miracoli, al Lavinaio, a Scampia, a Ponticelli, a Pianura: altri luoghi che tutti insieme fanno un’altra città, sconosciuta ai napoletani, che non hanno nessuna ragione per frequentarla, la “città da temere”. Una distinzione che gli abitanti di questi “enclaves” ben conoscono, tant’è vero che dicono “andiamo a Napoli”, quando si muovono per raggiungere via Toledo, via Chiaia, piazza Dante, Piazza Plebiscito, il lungomare, la villa comunale”[1]. L’impegno che Lamberti ha profuso, sempre, -da docente, da intellettuale, da amministratore pubblico- è stato unicamente quello di cercare di ridurre la distanza tra le “due componenti” della città, a tutto vantaggio dei più deboli, degli umili, dei derelitti che, come diceva Cuoco e come, spesso, ripeteva egli stesso, erano e sono distanti dalla modernità “due secoli per il tempo e due gradi per il clima”. Anzi, il suo impegno a trecentosessanta gradi, all’Università come nelle cariche pubbliche, l’aveva sempre inteso come l’accettazione di una sfida, tesa ad affrontare un problema, la cui soluzione non era nella capacità dialettica di denunciare e biasimare, ma nella capacità politica (proprio nel significato di arte di governare la società) di costruire adeguati strumenti di comprensione culturale e di intervento sociale.
A riprova di quanto sostenuto, Lamberti analizzava i fatti di rilevanza criminosa e faceva notare che tutti i “peggiori casi” (aggressioni, rapine, omicidi, violenze) si consumavano nell’area nord di Napoli e nei paesi ad essa limitrofi, dove i “lazzaroni” si erano riuniti in gruppi organizzati (contrabbandieri di sigarette, spacciatori di droga, usurai) e dove, da una fase malavitosa artigianale, erano passati a una industrializzata, capace di occupare e dar da mangiare a interi quartieri. La domanda logica e conseguente che Lamberti si faceva e faceva era: la presenza dello Stato si doveva esaurire nel controllo (armato) del territorio o quello stesso Stato non era anche tenuto ad intervenire sugli incubatori del disagio, attuando politiche di integrazione sociale, favorendo una scuola aperta dalla mattina alla sera, assicurando la mensa a chi non può mangiare, aiutando con sussidi chi vive con cinquecento euro di pensione al mese, dando assistenza gratuita ai malati terminali, ai disabili, agli anziani, alle ragazze-madri, creando posti di lavoro per i giovani, inoccupati e disoccupati e per i cinquantenni “esodati” per legge? “Le città sono come gli organismi viventi. Nascono, per ragioni generalmente economiche e geografiche. Crescono, sempre per ragioni economiche e geografiche ma anche per ragioni culturali, artistiche, religiose. Muoiono per ragioni diverse che hanno sempre alla base l’economia e la geografia.[…]Le città muoiono quando le comunità che le animavano sono ridotte a comunità passive, incapaci di iniziativa, in balia di forze esterne che non sono in grado di contrastare o di condizionare.[…]Le nostre città non restituiscono niente, perché non hanno un’anima[…]Quello che fa paura è la bruttezza che diventa il marchio identificativo delle città morte. Una bruttezza che finisce per entrarti dentro e farti diventare cattivo e ostile verso gli altri”[2].
Nell’analisi del sociologo Lamberti emergeva la necessità che, in una città come Napoli, potessero nascere delle strutture sociali in grado di produrre forme di aggregazione, finalizzate, non a un semplice “stare insieme”, ma alla nascita e alla lievitazione di veri laboratori di risanamento culturale del territorio. E quali potevano essere questi centri deputati a elaborare strategie e a produrre sistemi rinnovati di vita, su un territorio minato dal pressapochismo e dall’egoismo, se non una scuola dell’obbligo formativa (ma anche orientativa e capace di collocare nel mondo) e non selettiva, se non palestre dove lo sport sia vissuto come una forma di accettazione e rispetto delle proprie e delle altrui possibilità e non perseguimento di antagonismi perversi e fraudolenti, se non in circuiti teatrali e cinematografici dove la parola, la gestualità, la postura, i linguaggi somatici siano sinonimo di ricerca e di partecipazione e non, invece, allontanamento da responsabilità politiche e civiche. Sogni? Utopie? Certo che no! “Un modello di intervento globale come quelli realizzati in Francia a La Rochelle o a Gennevilliers, dove, centri per la gioventù, centri polifunzionali, centri per immigrati, scuole, centri per anziani, e tutte le altre strutture di servizio sociale e promozione culturale, costituiscono altrettanti centri di produzione di cui usufruisce, insieme a servizi di tipo amministrativo e commerciale, l’intera città cablata ”[3].
In altre parole, Napoli e la Campania, nel teorema di Lamberti, potevano e possono ancora salvarsi solo con politiche di inclusione di tutta la società. È vero, sono necessari la presenza delle forze dell’ordine nelle strade, il lavoro dei magistrati nei tribunali e quello di quanti sono deputati all’educazione, all’attenzione, alla crescita, alla vita sociale della persona, ma “per trovare soluzioni adeguate, bisogna partire dal dato, irremovibile con artifici dialettici, di una spaccatura e di una separazione profonda nella popolazione napoletana tra chi è dentro e chi è fuori dalla società moderna e civile. Perché il problema di Napoli è quello di portare dentro la modernità tutti coloro che stanno fuori per una sorta di condanna che i responsabili continuano a negare, mentre continuano a comminarla”[4].
I mali del sud, quasi sempre, dipendono da una classe politica e da una classe dirigente inadeguate. Ma nell’immaginario collettivo è solo la malavita organizzata a diventare l’origine e il terminale di ogni disfunzione. È un comodo alibi, che serve a nascondere le responsabilità della politica governativa, locale e nazionale, la quale ultima mai ha inteso come prioritari gli interventi di sviluppo (seri, mirati, non populistici) nel Mezzogiorno. Così, quando, ripetendo un luogo comune becero e consunto, il veneto Brunetta, l’ex ministro del governo Berlusconi, si lasciò andare ad esternazioni dai toni offensivi[5], Lamberti, con decisione, tornò a ribadire un suo preciso punto di vista: “Non meriterebbe nemmeno una risposta l’affermazione di un ministro della Repubblica, che definisce Napoli e il Mezzogiorno “un cancro per l’Italia”, invece di interrogarsi sulle ragioni politiche dell’arretratezza economica e produttiva del Sud e di quella che una volta ne era la capitale, Napoli. […] La criminalità organizzata non è la causa, come mi sforzo di dimostrare da decenni, ma l’effetto di politiche affaristiche e clientelari che non usano i fondi pubblici, comunque disponibili, per lo sviluppo dell’impresa e dell’occupazione del Mezzogiorno, ma solo per consolidare le proprie rendite personali e di posizione.”[6].
Amato Lamberti era dotato di senso pratico, di linguaggio semplice e immediato, di predisposizione comunicativa. Nessuno si stancava a sentirlo parlare, perché, come una fonte inesauribile di conoscenze, raccontava i fatti a “cerchi concentrici”. Aveva la capacità, infatti, di fermarsi su un argomento, da ricercatore, analizzarlo, sezionarlo, scandagliarlo, scovare le ragioni più recondite, restituirlo in termini di ipotesi di soluzioni. Se, poi, trovava l’interlocutore attento, allora allargava la sua analisi, proponeva una miriade di nessi socioculturali, di relazioni interdisciplinari, di richiami a strategie di intervento politico, che presentava non “come si potrebbe fare” ma, mettendosi in gioco, continuamente, “come ho cercato di fare io, magari sbagliando,quando ho avuto responsabilità amministrative”.
Nell’esperienza della prima giunta-Bassolino (1993-1995), Lamberti -Assessore alla Normalità[7] (una delega che richiama la regolarità e l’ordine, dopo gli eventi di tangentopoli)- si “inventò” la prima cassetta postale anticamorra e per la legalità, una semplice rivoluzione per dare voce e ascolto a cittadini protagonisti di un cambiamento epocale: lo smantellamento della pratica dell’omertà! Procedette, poi, sulla strada della regolarizzazione dell’ambulantato abusivo, delle attività commerciali, artigianali e imprenditoriali “informali”[8], del controllo dei carichi pendenti –al fine di evitare il perpetuarsi di genie malavitose e riciclatori di denaro sporco- di quanti si proponevano per mansioni economiche e commerciali nella città delle molte “opportunità illegittime”[9]. Senza dimenticare, poi, la bonifica di quell’autentica corte dei miracoli, che erano gli uffici ed i corridoi di Palazzo San Giacomo, la sede del Comune di Napoli, dove “il 10% degli impiegati (siamo agli inizi degli anni ‘90) è “pregiudicato”, cioè ha la fedina penale non perfettamente immacolata (e anni dopo circolano leggende metropolitane, che favoleggiano di cifre intorno ai 5-7 milioni di lire per farsi “sporcare” la fedina e, quindi, ottenere più facile accesso a Palazzo San Giacomo…)”[10].
Da Presidente della Provincia di Napoli, Lamberti, col suo modo adamantino di far politica, conseguì altri risultati, che, per il luogo in cui avvennero e per la mentalità corrente dei politici di professione, ancora oggi, hanno quasi dell’incredibile: sanò il bilancio dell’ente (dopo il dissesto finanziario causato da quanti lo avevano preceduto), riuscì a far pagare gli antichi creditori fino all’80%, fu promosso a pieni voti da Moody’s, abbatté i fitti per locali adibiti a scuole e fece costruire nuovi complessi scolastici (che diventarono patrimonio provinciale), rinvigorì anche da Piazza Matteotti (sede della Provincia di Napoli), il concetto della “legalità come sistema”, dette consistenti sforbiciate ai privilegi degli assessori, dei consiglieri, dei sedicenti politici in genere. Insomma, provocò disequilibrio e discontinuità, sconvolgendo, prima, e rimodulando, dopo, un modo di essere, un metodo di lavoro, mediante il quale parecchi, in precedenza, avevano costruito rendite personali e apparati di protezione. Perché “la camorra è diventata “sistema” al quale partecipano dipendenti della Pubblica Amministrazione, imprenditori, politici. Si combatte con la trasparenza. Se c’è camorra nei Comuni, i politici non possono non sapere. Pensare alla camorra come organizzazione criminale non aiuta a capire i problemi. La camorra è una lobby politico-imprenditoriale-criminale che controlla l’economia e le pubbliche amministrazioni in Campania” (Lamberti, 2006).
Il professor Lamberti, il fondatore dell’Osservatorio sulla camorra, era immediato, coerente, pieno di coraggio, nonostante le molte minacce e intimidazioni subite nel tempo. Conosceva praticamente tutto della camorra, si aggirava, con facilità, nelle complesse geografie e nelle appartenenze dei vari clan, denunciava, senza metafore e sottintesi, gli equivoci connubi tra la malavita e le pubbliche amministrazioni. Ma, soprattutto, ne parlava senza gli stereotipi della pubblicistica, giornalistica e letteraria, che, solitamente, riconduce tutto alla “sola” dimensione criminale del fenomeno.
Come pensò di superare, allora, questo gap di origine massmediatica? In un solo modo: svelando fatti e situazioni, validi a stanare e a inchiodare i politici coinvolti. “La provincia di Napoli detiene, in Italia, il record di Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. Siccome i giornali quotidiani non sentono mai il dovere di pubblicare i decreti, del presidente della Repubblica, di scioglimento dei Comuni della nostra provincia, ma spesso danno molto più spazio alle rimostranze degli amministratori e dei Sindaci mandati a casa con un’accusa gravissima, ho pensato di pubblicare, in sintesi questi decreti –un Comune alla volta- anche per invitare i cittadini a riflettere prima di tornare a dare il consenso agli amministratori che, con una faccia di corno, non solo non abbandonano la politica, ma spesso puntano a cariche più elevate”[11].
Ed ecco, quindi, le storie dei Comuni sciolti per camorra passati attraverso il setaccio[12] dell’informazione rivolta a tutti: Pompei, città in cui l’anello di congiunzione tra il sodalizio criminale e l’amministrazione comunale era stato individuato nella figura di un affiliato della cosca locale (D’apice Luigi, soprannominato Gigino ‘o Ministro) assiduo frequentatore di esponenti della maggioranza, funzionari del comune e di appartenenti al comando di polizia municipale, e legato da stretta amicizia con il presidente del consiglio comunale (La Marca Giuseppe); Afragola, uno dei comuni più condizionato dalla malavita organizzata all’interno sia della struttura amministrativa che di quella politica, per la presenza dei clan Moccia, o dei Pezzella o degli Iodice-Franzese: Nola, città in cui gli appalti, le concessioni e le autorizzazioni ed ogni altro atto amministrativo erano contrattati con esponenti della malavita, sia del clan Alfieri che del clan-famiglia Russo. E, poi, San Paolo Belsito (comune inserito nella cosiddetta “Cupola Comitato Affari” in cui predominava ancora Carmine Alfieri), S. Antimo (clan Puca e Verde), Poggiomarino (Pasquale Galasso e Antonio Giugliano, detto ‘o savariello), Frattamaggiore (tutti i servizi comunali [manutenzione strade, impianti di illuminazione, rifiuti, manutenzione immobili, allestimento seggi elettorali, gestione campo sportivo etc.] controllati e collegati a clan della zona) e così via, passando per Quarto (la miniera d’oro della camorra), per Pagani (il Sindaco nonché consigliere regionale, Alberico Gambino, rinviato a giudizio per corruzione e voto di scambio) o per Gragnano, cittadina in cui “Il Sindaco era Annarita Patriarca. Il marito Enrico Martinelli era invece Sindaco di san Cipriano d’Aversa, arrestato nelle scorse settimane per associazione camorristica. L’accusa che pesa sul Sindaco di Gragnano è quella di aver patteggiato con il clan Di Martino, in cambio del sostegno elettorale, tutta una serie di favori, dalle assunzioni nei ruoli comunali ad appalti e subappalti per lavori stradali e manutenzione degli immobili comunali. Uno scambio molto oneroso: per 100 voti, 200.000 euro”[13].
Mai che Lamberti avesse ricevuto una denuncia! Mai che ci fosse stata una richiesta di rettifica, per quanto detto o scritto!
La camorra, sosteneva Lamberti (insieme anche a qualche giudice e a qualche prete di frontiera), è un alibi per la politica. Tutti erano e sono bravi a puntare il dito sulle organizzazioni criminali, a raccontarne il radicamento territoriale, ad enumerare le “indebite e fruttuose intromissioni” nelle grandi opere pubbliche (l’Alta Velocità, la costruzione e la manutenzione di strade e autostrade, i fantasmi in cemento delle strutture ospedaliere), nell’economia che non decolla (il pizzo, i finanziamenti che si perdono in mille rivoli), nell’abusivismo edilizio che dilaga, nello scempio sistematico dell’ambiente (inquinamento del suolo, del sottosuolo e delle acque, rifiuti, cave abusive). Nessuno, però, che svelasse o cercasse di spiegare le complesse connessioni tra i sistemi di potere confinanti con la sottile linea della legalità/illegalità. “Lo sappiamo tutti, ma nessuno parla, perché a tutti fa comodo non puntare l’indice sulla “politica”, quella concretamente agìta e perseguìta sul territorio della Campania. Perché la responsabilità delle situazioni di sfascio sotto gli occhi di tutti, è della “politica”, vale a dire del modo in cui si amministra il territorio e si utilizzano o si sprecano i fondi pubblici, cioè il denaro dei contribuenti, a partire dalle sue articolazioni amministrative locali. Quando il commissario Bertolaso dice che ad arricchirsi sull’emergenza rifiuti è stata solo la camorra, dimostra che ha fatto proprio l’alibi della “politica”, mentre dovrebbe guardarsi attentamente le carte, anzi la montagna di carte ammucchiata negli uffici del Commissariato e, soprattutto, i mandati di pagamento, anche se sono decine di migliaia. Per verificare chi si è arricchito, chi ha preso i soldi pubblici, e scoprirà che sono stati pubblici amministratori di società e consorzi in combutta con imprenditori, proprietari di suoli, trasportatori, fornitori di tecnologie e apparecchiature. Sul commissariato rifiuti c’è stato, per anni, un vero e proprio assalto di politici e amministratori tutti impegnati nel presentare, raccomandare, proporre, imporre i loro amici e sodali. Se la camorra è entrata, è perché è stata “politicamente” presentata e/o imposta”[14].
Amato Lamberti è stato uno dei fondatori del partito dei Verdi in Campania. La sua adesione al movimento ecologista non fu casuale, perché egli ebbe sempre una grande sensibilità ed attenzione nei riguardi del territorio e dell’ambiente in genere. Sulla questione dei rifiuti – o meglio, sulla ciclica (quasi endemica) crisi dei rifiuti- intervenne continuamente, rilevando errori, responsabilità e responsabili, che erano riusciti a rendere “la Campania una terra avvelenata da milioni di tonnellate di rifiuti, non quelli urbani che al massimo puzzano quando fermentano, ma quelli che provocano allergie, tumori, malformazioni, avvelenamento del sangue”.[15]
I suoi scritti, i suoi interventi pubblici, le sue conversazioni con studenti e con tutti quanti lo invitavano ad un confronto, a una interlocuzione, sono stati i manifesti di un oracolo inascoltato, che del “monnezza day” napoletano e campano ha indicato genesi e soluzioni. Egli era contrario alle discariche, lo sosteneva da anni, “propongo la soluzione dei biodigestori anaerobici per risolvere il problema dell’umido e dell’indifferenziato”.[16] Questi ultimi, come ben si sa, sono impianti che si realizzano in poco tempo (12-18 mesi), che occupano poco spazio, non puzzano e non emettono fumi nell’atmosfera, possono essere realizzati in project financing (sono costruiti da privati, che li gestiscono per un certo numero di anni), producono energia elettrica e quindi sono remunerativi. “Certo questa strada non fa fare affari ai politici, non ha bisogno di costose e inutili consulenze a tecnici o pseudo tali di appartenenza politica. Servirebbe solo a risolvere il problema rifiuti, se accompagnato da una seria raccolta diffrenziata che la Regione potrebbe rendere obbligatoria per legge, pena il Commissariamento dei Comuni inadempienti e il taglio di tutte le risorse di provenienza regionale. Ma nessun politico ha il coraggio di prendere seriamente in mano la questione rifiuti e fare piazza pulita di tutte le rendite che si sono ormai incacrenite”[17].
Alto si levò il grido di dolore di Lamberti nel presentare le conseguenze dell’elefantiaco fenomeno dello sversamento abusivo nell’ormai anacronistica Campania felix! Nella sola regione erano state censite ben 5.200 discariche abusive: 1186 nella provincia di Napoli, senza tener conto, ovviamente, degli infiniti rifiuti tossici sepolti –sempre abusivamente- in terreni, che erano diventati pascoli per incolpevoli bufale o campi per inquinatissime coltivazioni di ortaggi e frutta. E quando il settimanale l’Espresso pubblicò l’indagine Sebiorec[18] sull’esposizione a contaminati pericolosi presenti nell’ambiente, Lamberti fornì informazioni e dati (tenuti rigorosamente segreti dalla Regione Campania) da far accapponare la pelle: “a Villaricca e Qualiano, nell’acqua, come nel sangue e nel latte materno, è molto alta la concentrazione di arsenico, che è presente in modo significativo anche a Caivano e Brusciano. A Giugliano, nell’acqua, come nel sangue, è molto alta la presenza di mercurio. A Nola, invece, alta è la concentrazione di Pcb, sostanza tossica, simile alla diossina, dichiarata cancerogena. A Pianura, che è l’unico quartiere di Napoli preso in esame, proprio per la presenza di discariche autorizzate e abusive, elevata e la presenza di diossine nel sangue e nel latte […] La mortalità per neoplasie nelle aree vicino alle discariche, nel casertano, sarebbe superiore dell’80% rispetto alla media regionale. Nel 2009 sono stati mille gli interventi di mastectomia, la ricostruzione del seno colpito da neoplasia. Per il cancro al testicolo, secondo il dott. Mario Fusco, che gestisce il Registro Tumori dell’AslNa4, è già possibile individuare una correlazione tra l’incidenza della neoplasia e le classi a rischio per l’esposizione a discariche di rifiuti, con 17.300 nuovi casi in 8 anni (1997-2005)”[19].
Aveva, successivamente, Lamberti sposato la causa delle popolazioni ricadenti in prossimità delle famigerate Cava Sari e Cava Vitiello, nel cuore del Parco Naturale del Vesuvio, quelle stesse popolazioni consumate da morti e malattie, per esser state condannate a vivere, continuamente e incolpevolmente, a contatto con i miasmi, il percolato, le falde acquifere avvelenate e trattate dai politici come se avessero portato ancora l’anello al naso. Così, se –attraverso i mass media di Stato- si era fatta passare la falsa idea di un Sud in preda a forme di ribellismo (“mamme vulcaniche”, blocchi stradali, incendi di compattatori e camion), ancora una volta il professor Lamberti, non certo a giustificazione delle proteste dei cittadini di Terzigno e Boscotrecase, aveva fatto sentire la sua voce, scrivendo: “Quando Bertolaso ricorda a sindaci e a cittadini che la decisione di aprire due discariche nel Parco del Vesuvio è contenuta in una legge approvata in Parlamento, non fa altro che giustificare le forme di ribellione che condanna, perché nessuna altra strada è stata lasciata aperta e praticabile per i cittadini. Solo nei regimi autoritari si può pensare di prendere decisioni così importanti per la vita dei cittadini, e prima ancora di un intero territorio, senza consultazioni, senza accordi e senza neppure una conoscenza superficiale delle situazioni anche dal punto di vista simbolico ed emotivo. […] L’emergenza non può continuare a giustificare la mortificazione e il danno alla salute e alla vivibilità di intere popolazioni. […] Una soluzione del problema dello smaltimento dei rifiuti in forme accettabili dalla popolazione è possibile anche in Campania, utilizzando le tecnologie ampiamente disponibili, senza fare ricorso né a discariche né a termovalorizzatori”[20].
Altra battaglia di Lamberti quella contro i termovalorizzatori. In una terra affamata di lavoro, come la Campania, gli impianti di combustione dei rifiuti –chiamati inceneritori ma battezzati termovalorizzatori, per mostrarne l’aspetto buono di produttore di energia- rappresentavano una possibilità ulteriore, per imbarcare schiere di lavoratori, promettere futuri rosei e giustificare manovre spregiudicate e clientelari da parte dei politici. Alcuni sindaci, annusando la possibilità di un insperato affare, pregustando la manna di un accesso facilitato a fondi e all’impinguamento degli eserciti clientelari, dettero la disponibilità ad ospitare gli impianti di combustione dei rifiuti sul territorio da loro amministrato. Lo fecero all’insaputa dei loro cittadini, lo fecero calpestando la salute degli stessi cittadini, lo fecero accusando di terrorismo psicologico le sparute voci di dissenso. Fra queste poche, quella di Amato Lamberti, che, non solo dissentì ma, come sempre, offrì ragionamenti e dati a sostegno della sua riflessione: “L’incenerimento dei rifiuti altro non è che un gioco di prestigio per farli scomparire dalla vista, mentre, in realtà, la massa dei rifiuti ne esce aumentata e dotata di maggiore tossicità. […] Ogni inceneritore è una gigantesca fonte di inquinamento dell’ambiente e dell’atmosfera e una mostruosa fonte di patologie per gli esseri umani”[21].
Lamberti era uomo tutto d’un pezzo, sincero, conseguente, onesto, trasparente in ogni azione, chiaro in ogni circostanza. Non mandava mai a dire niente a nessuno; lo faceva in prima persona e se ne assumeva la responsabilità, “con Lamberti non si recita, si parla, non si fa ammoina, si comunica”[22]. Non faceva scelte di comodo, non chiedeva “paracaduti” ai politici, non faceva sconti nemmeno a se stesso. Lo hanno molto amato i suoi allievi più che i suoi elettori o i responsabili della politica, napoletana e campana, che alla sua scomparsa si sono dichiarati amici suoi.
Amato Lamberti è stato un riferimento costante, per tutti, per come debba essere un uomo delle istituzioni (rigoroso, comprensivo, di respiro europeo), per come debba essere un politico (onesto, giusto, di grande moralità), per come debba essere uno studioso (meticoloso, attento, creativo, umile). Aveva un rapporto molto franco e aperto –non da barone- con i suoi studenti universitari e con chiunque avesse avuto occasione di parlare con lui; con molti, poi, manteneva un legame anche dopo gli studi –se universitari- o all’indomani di una riunione di partito o di un pubblico dibattito. Ad ognuno trasmetteva una carica di fiducia, di pulizia, di forza per andare avanti. E ognuno, ovviamente, cercava di “portarsi a casa” un pezzettino di ciò che era stato il professor Lamberti/il fondatore dell’Osservatorio sulla camorra/il Presidente della Provincia di Napoli. E Lamberti era contento, come ogni maestro che vede crescere i suoi allievi, come ogni uomo d’una “certa età”, che è riconosciuto guida dai più giovani.
All’indomani dell’uscita del film Fortapàsc (regia di Marco Risi, 2009) su Giancarlo Siani -il giornalista de Il Mattino ucciso a Napoli, a 26 anni, la sera del 23 settembre 1985, dalla camorra-, chiesi al mio amico Amato come si sentiva, ora che era stato portato sullo schermo nell’interpretazione di Renato Carpentieri. Scherzando, mi disse che Risi lo aveva reso troppo vecchio: “se nell’85 fossi stato già cosi, oggi, a 24 anni di distanza, sarei decrepito o già scomparso”. Poi, con quell’espressione dolce che gli illuminava il volto, aggiunse: “ma Giancarlo non era proprio così”. Infatti, mancava la parte più importante per Lamberti, quel “pezzetto” del Maestro che anche lo sfortunato Siani s’era “portato a casa”. Anzi, Lamberti volle anche rendere pubblico il suo pensiero: “Giancarlo era diverso da come viene rappresentato nel film, o meglio: era così, ma era anche molto di più. Nel film appare, almeno ai miei occhi, come dimezzato. Manca, forse,il pezzo o il lato per me più importante. Quello del giovane impegnato socialmente e civilmente; che partecipava attivamente, prendendo la parola anche per dire cose scomode, a tutti gli incontri, alle manifestazioni promosse dalle associazioni più diverse, per discutere dei problemi che attanagliavano la città, dalla droga al degrado urbanistico all’assenza di luoghi di aggregazione per i giovani che non fossero “la curva” in cui erano costretti a ciondolare e bivaccare. […] Giancarlo non aveva timore di prendere la parola nemmeno nel salone ovattato del Circolo Oplonti, il regno della borghesia e dei maggiorenti di Torre Annunziata. Come non aveva paura di prendere la parola in piazza o nei luoghi pubblici, dove ben sapeva che orecchie attente, che tutto riferivano, erano in ascolto”[23].
Col professore Lamberti c’è stata una lunga frequentazione, un solido rapporto di stima e di amicizia. Ci volevamo molto bene, ci incontravamo, spesso, a Napoli, alla Facoltà di Sociologia (in Vico Monte della Pietà) o all’Antica Pizzeria dell’Angelo in Piazzetta Nilo. Comunque, non passava mai una settimana senza sentirci almeno una volta al telefono, per chiedere informazioni di noi, raccontarci la vita. Una decina di giorni prima che morisse, al telefono, con una voce affaticata, mi disse che gli avrebbe fatto piacere rivedermi; proprio così: rivedermi! Se chiede di rivederti una persona che non frequenti da anni o un vecchio parente, il desiderio si comprende e si traduce nella voglia di fermare, almeno per un attimo, il tempo che inesorabilmente passa. Se a chiedere di rivederti è una persona cara, un amico col quale ti sei frequentato da anni e fino a pochi giorni prima che quel desiderio sia espresso, vuol dire che qualcosa non fila per il verso giusto. Così la mattina di domenica 24 giugno 2012, dicendo che gli avrei portato in dono le albicocche del monte Somma, andai a fargli visita. Dovetti essere falso e bugiardo, dovetti dire, con le lacrime nascoste dagli occhiali da sole e la morte nel cuore (come sempre succede quando bisogna mentire a chi si vuol bene), che lo trovavo di buona cera. Amato era rannicchiato su un divano con una flebo che gli scorreva in vena; aveva i bei tratti del suo volto stravolti; l’antica nobiltà dello sguardo si perdeva dietro occhi assenti, impauriti, increduli. Quando l’ago gli fu tolto dalla vena, si alzò, lentamente, si accese una Marlboro, quindi, mi invitò a sedere vicino a lui –questa volta fuori al balcone- ad ammirare quell’angolo del mare di Salerno, che si apriva verso la costiera amalfitana. Quando ci salutammo, nell’abbraccio, gli promisi che sarei ritornato a fargli visita.
Ritornai la mattina del 28 giugno, a distanza di quattro giorni. Una telefonata di Rosalena, la moglie di Amato, mi aveva messo in allarme e senza perdere un minuto, avevo imboccato la Napoli-Salerno. Il mio amico, ancora più irriconoscibile e sofferente della domenica precedente, faticava a respirare, stentava a riconoscere; mi sedetti accanto al letto, lo salutai, gli parlai, gli tenni stretta la mano. Chissà se riuscì a rivedermi un’altra volta! Quando entrò il prete, per impartirgli i sacramenti, me ne scappai da quella stanza, senza più avere il coraggio di guardare Amato già, ormai da solo, nel cono di luce dell’ultimo passaggio. Sotto al letto guaivano, come in un pianto sommesso, i suoi due vecchi cani di nome Cico e Haidy.
Conoscevo Amato Lamberti da oltre venticinque anni. Ero, nel 1988, vicepreside alla scuola media “Bordiga” di Ponticelli; l’avevo invitato a uno dei (primi) convegni sulla legalità. Aderì, come sempre avrebbe fatto ad ogni invito futuro, con grande disponibilità e gentilezza. Conservo ancora le foto: lui, che sotto la giacca, indossa una Lacoste rossa, con don Antonio Riboldi e con l’allora provveditore agli studi di Napoli, Pasquale Capo.
Nel 1989, l’anno in cui avevo pubblicato un libro sul razzismo (per le scuole medie), il professor Lamberti, che aveva avuto modo di vederlo nella scuola frequentata da uno dei figli, mi fece sapere, attraverso un suo studente universitario (Gianni Piccolo), che voleva parlarmi. Andai; voleva dirmi –come già aveva fatto precedentemente Luigi Compagnone- che, quella del razzismo, era una tematica innovativa per la scuola e bisognava insistere, perché fosse veicolata quanto più possibile tra i docenti.
Cominciammo a incontrarci per il piacere di farlo e nacque un’amicizia forte e duratura. Egli è stato, quasi sempre, il padrino delle mie pubblicazioni. Anzi, per “Giovanna I d’Angiò regina di Napoli”, mi scrisse anche una bellissima prefazione. E, poi, è stato sempre sollecito nella presenza sia che si trattasse di un invito per una nuova iniziativa culturale, sia che si dovesse svolgere un dibattito politico, a cui dava il suo apporto di senso civico, di uomo rispettoso delle istituzioni, di intellettuale della Magna Grecia.
Gli sono stato molto vicino nelle sue candidature alla presidenza della Provincia di Napoli ed a quella (molto sfortunata) al Parlamento Europeo. Non perché mio amico fraterno, ma credo che Amato sia stato il miglior presidente della Provincia di Napoli dell’ultimo mezzo secolo.
Conversare con lui era un piacere: ti arricchiva, ti raccontava dei suoi incontri, ti metteva a parte dei suoi vezzi. L’ultimo, ma non ne sono certo che fosse proprio l’ultimo vezzo, era quello di voler scrivere un libro di ricette sul baccalà (mi diceva di averne raccolte già una ottantina).
Spesso, il Presidente (così mi piaceva chiamarlo), veniva a trovarmi a Somma; ci davamo appuntamento, sempre, nella piazza grande, vicino al monumento dei caduti. Poi, prima di muoverci per qualunque altro posto, dovevamo prendere un caffè insieme nel bar vicino: una sorta di rito. Talvolta, passavamo anche per casa Coffarelli e lì si faceva notte, perché Amato si incantava alle storie intrecciate dal grande Giovanni.
Ho voluto molto bene ad Amato Lamberti. Quella infausta domenica 24 giugno 2012, con le albicocche gli avevo portato anche una copia di “Nuove Cronache meridionali”, la rivista diretta da Aldo Vella. Nonostante i dolori, le medicine, i pensieri rivolti a chissà quali fantasmi, Lamberti se la strinse tra le mani, quasi l’annusò, ne lesse l’indice, la sfogliò con godimento. Poi, come tutti quelli votati al servizio della comunità degli uomini, disse che, appena ristabilitosi, avrebbe avuto piacere a scrivere qualcosa.
Amato Lamberti era dotato di una sensibilità incredibile; era capace di intessere rapporti col noto e con l’ignoto, che, talvolta, sconfinavano anche in percezioni extrasensoriali o in fenomeni di telepatia o precognizione. Una volta mi raccontò di avere incontrato suo padre, che era già morto da alcuni anni. Si erano abbracciati, erano stati insieme per molto tempo e lui mai che si fosse ricordato della scomparsa del genitore! Solo di sera, a casa, raccontando alla madre di quell’incontro, era stato richiamato alla realtà.
Nell’ottobre del 2001, Lamberti aveva pubblicato un suo racconto-verità su La Voce della Campania: “Giovanni è tra noi”. Parlava di un incontro casuale con un suo antico compagno di studi, a Trieste, col quale si era intrattenuto a lungo in un bar di Roma. A dimostrazione di quel nostalgico incontro, aveva ancora in tasca lo scontrino del caffè Greco, battuto per due caffè e due aperitivi, con ora, giorno, mese e anno. Solo dopo essersi salutato con Giovanni, però, parlandone con un’altra persona, era stato informato che il suo compagno di studi era morto da alcuni mesi. “[…]Non ero particolarmente sconvolto per il fatto di averlo incontrato. Mi aveva sconvolto molto di più il breve racconto della sua orribile fine. Non fine, morte. Perché con la morte non finisce niente. Ho sempre pensato che i morti non vanno da nessuna parte. Restano tra noi. E prima o poi li incontri. L’importante è riconoscerli. Non sempre ciò che si vede è riconosciuto”[24].
Mi piace pensare che Amato Lamberti sia rimasto tra noi (non omnis moriar), per tutto ciò che è riuscito a fare, ad essere, a dire. Mi piace ancor di più coltivare la speranza che, prima o poi, lo possa incontrare. Penso che saprei riconoscerlo, perché uno dei suoi insegnamenti è stato sempre quello di motivare a trovare la forza e il coraggio per guardare oltre. Oltre le apparenze; oltre la superficie; oltre i modi affettati dei re e dei ciambellani o quelli piagnosi dei sudditi per vocazione.
Un bel modo per riconoscersi, al di là di ciò che si vede!
[1] A. Lamberti, Napoli: dov’è l’uscita?, Graus Editore, 2008.
[2] A. Lamberti, La provincia di Napoli è popolata di città morte, ilmediano.it, 12 gennaio 2011.
[3] A. Lamberti, Lazzaroni, Napoli sono anche loro, Graus Editore, 2006.
[4] A. Lamberti, cit.
[5] “Senza l’inurbazione Napoli-Caserta e la Calabria, l’Italia sarebbe uno dei primi paesi in Europa: è un cancro sociale e culturale. Un cancro etico, dove lo Stato non c’è, non c’è la società”, in Il Giornale dell’11 settembre 2010.
[6] A. Lamberti, La Napoli di Brunetta, Corriere del Mezzogiorno-Blog, La Città Dolente, 16 settembre 2010.
[7] “Dopo l’assessorato alla Normalità, ebbi l’assessorato all’Annona; ci vollero uno o due giorni per capire che era un covo di ladri. Lo chiusi, dissi che del palazzo, degli uffici era meglio fare una scuola. Quattro mesi dopo l’ufficio era riaperto con gli stessi ladri di prima. Gli impiegati si portavano a casa le licenze commerciali per venderle agli amici.”, in G. Bocca, Napoli siamo noi, Feltrinelli, 2006.
[8] “L’economia informale (l’economia del vicolo) è un’economia chiusa e clandestina basata su un caseggiato o un insieme di caseggiati, che formano un’isola economica, in cui un capitale proveniente da varie fonti (prodotti di contrabbando, prostituzione, piccoli furti), insieme al guadagno del commercio ambulante e al reddito di una o due persone con un lavoro fisso, circola passando di mano in mano all’interno dell’isola, attraverso una serie di piccoli servizi con i quali ciascuno cerca di procurarsi l’immediato necessario e di arrangiarsi”, in P. A. Allum, Politica e Società nel dopoguerra a Napoli, Einaudi, 1978.
[9] “Anche la concentrazione, in alcune aree, come Scampia, dei fenomeni di marginalità, devianza e povertà, in un intreccio strettissimo, vincolante e quasi obbligato, è il frutto della distribuzione di molte “opportunità illegittime” ad opera di gruppi criminali che attraverso pratiche illegali mirano alla realizzazione di ingenti quantità di denaro che, da un lato, costruiscono fortune considerevoli disponibili anche ad ulteriori investimenti e, dall’altro, si distribuiscono sul territorio per alimentare una economia, per così dire, di sopravvivenza criminale. ”, (A. Lamberti, 2006)
[10] A. Cinquegrani, Amato Lamberti, il nostro grande Maestro, La Voce delle voci, 24 luglio 2012.
[11] A. Lamberti, Comuni sciolti per camorra- 1/A tappa, il mediano.it, 21 gennaio 2009.
[12] “Città al setaccio” era il titolo di una rubrica settimanale, che Lamberti ha tenuto su un giornale online –il mediano.it- dal 4 agosto 2010 al 13 giugno 2012, per ben 172 settimane!
[13] A. Lamberti, Camorra nei comuni: ogni 100 voti costano 200mila euro, il mediano.it, 28 marzo 2012.
[14] A. Lamberti, Napoli: dov’è l’uscita?, cit.
[15] A. Lamberti, Campania. Terra bella ma avvelenata, il mediano.it, 22 dicembre 2010.
[16] A. Lamberti, L’emergenza infinita, Corriere del Mezzogiorno-Blog, La città dolente, 11 marzo 2011.
[17] A. Lamberti, Corriere del Mezzogiorno-Blog, cit.
[18] L’indagine Sebiorec (Studio epidemiologico e di biomonitoraggio umano nella regione Campania) fu commissionata dalla Regione Campania e condotta dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’Istituto di fisiologia clinica del CNR, con la collaborazione delle ASL della provincia di Napoli e Caserta. I dati furono pubblicati, in parte, sul settimanale l’Espresso, 9 marzo 2011.
[19] A. Lamberti, Discariche abusive. 1186 solo in provincia di Napoli: sangue e latte inquinati, il mediano.it, 30 marzo 2011.
[20] A. Lamberti, La seconda discarica è una scelta da regime autoritario, ilmediano.it, 20 ottobre 2010.
[21] A. Lamberti, Inceneritori. Nulla si distrugge, tutto si trasforma, ilmediano.it, 3 marzo 2010.
[22] G. Bocca, Napoli siamo anche noi, cit.
[23] A. Lamberti, Ciò che manca in “Fortapàsc”, Il Corriere del Mezzogiorno, Napoli, 18 marzo 2009.
[24] A. Lamberti, Giovanni è tra noi, La Voce della Campania, ottobre 2001.