Era l’anno 2002. Era un bel pomeriggio di metà novembre, uno di quei pomeriggi nostrani in cui l’ultimo sole arrossa l’uva del Somma-Vesuvio. Era un pomeriggio che sicuramente sarebbe piaciuto a un cacciatore o ad un amante della natura, quando le spoglie di Francesco De Martino (che era stato cacciatore ed amante della natura) furono tumulate nel cimitero di Somma Vesuviana. Con la morte dell’illustre uomo politico si concludeva definitivamente la parabola socialista sommese tutelata da comportamenti rigorosi, sostenuta da forti valori ed ispirata da ideali di eguaglianza e di trasformazione della società a beneficio di tutti. Quella parabola aveva avuto inizio circa un secolo prima, con Raffaele Arfé, con Gino Auriemma, con lo stesso De Martino e con Gaetano Arfé. I primi due morirono intorno agli anni sessanta del Novecento; De Martino se ne è andato all’inizio di questo secolo. Gaetano Arfé, pur tormentato dalle scelte politiche a cui era stato costretto dalle logiche di partito, ha continuato, fino all’ultimo respiro a professare il credo socialista ed a battersi per la sua affermazione, “perché voglio vedere ripristinati i valori dell’umanesimo cristiano e liberale, confluiti nel mio socialismo; perché voglio che trionfi la solidarietà tra le persone e tra i popoli”[1] ed ha chiuso la sua esistenza terrena nel settembre del 2007.
Raffaele Arfé, nato a Napoli nel 1884, era figlio di un professore di calligrafia. Diplomatosi maestro, frequentò l’Istituto Orientale; ebbe la passione delle lingue e ne studiò parecchie, tra le quali l’arabo e il russo. Partecipò alla prima guerra mondiale come tenente dei mitraglieri. Egli fu tra i promotori della fondazione a Somma di una scuola d’avviamento professionale a tipo agrario, che ebbe molti alunni orfani di guerra. Socialista fin dai giovani anni e tra i primi segretari della sezione socialista di Napoli, egli rimase tale anche durante il fascismo, rifiutando la tessera del partito fascista ed esponendosi a inevitabili discriminazioni. Ispirò la sua cultura ai valori del primo socialismo italiano, fu difensore della natura e degli animali, femminista e pacifista. Fu tra gli artefici, a Somma come a Napoli, della ricostruzione del partito socialista, dopo gli anni del fascismo; resse la segreteria del partito socialista sommese e, per qualche tempo, fu anche membro del Direttivo Provinciale. Nel 1947 aderì al partito socialista dei lavoratori italiani costituito da Giuseppe Saragat; in collegamento con un’organizzazione assistenziale –il Centro Italiano di Solidarietà Sociale- si impegnò nella difesa delle lavoratrici agricole, addette alla lavorazione delle noci e delle mele, strutturando cooperative di lavoro di largo successo. Morì a Napoli, nell’aprile del 1956, fedele alle idealità, che aveva professate per tutta la vita; “Era originale per le sue idee e mi ha trasmesso i valori dell’etica socialista”[2].
Gino Auriemma, nato nel 1900, a Somma Vesuviana, città in cui morì nel 1960, fu uno dei più giovani combattenti della I guerra mondiale. Di radicate idee socialiste, neppure egli si piegò mai al credo del fascismo e si conquistò, con pochissimi amici, l’appellativo di “sovversivo”. Alla caduta del fascismo fu chiamato nel C.L.N. di Salerno; a Somma fu tra i fondatori del Partito d’Azione e del Partito Socialista. Sempre a Somma, fu nominato commissario per l’assegnazione degli alloggi alle famiglie sinistrate, incarico per il quale “rinunzia ad ogni compenso”. Per anni fu consigliere comunale, impegnandosi in ogni battaglia civile ed assumendo, ante litteram, il ruolo di “difensore civico”. Dopo la costituzione del partito socialista a Somma, nel 1919, divenne il corrispondente dell’Avanti! Fu anche un finissimo poeta.
De Martino era nato, nel 1907, a Napoli, città in cui abitava, ma a Somma –dove ha vissuto fino alla scomparsa l’ultima sua sorella- era di casa. Elisa Angrisani[3], infatti, la madre di De Martino, era di Somma Vesuviana e vi abitava con la sua famiglia. “I rapporti con la città vesuviana derivano da mia madre. Da ragazzo andavo a Somma e vi passavo molto tempo, specialmente d’estate. I primi ricordi dell’adolescenza sono legati alla pratica sportiva del calcio ed io, a sedici anni, ero uno di quelli che lo coltivava. Attorno a questa passione si fondò il circolo sportivo ‘Viribus Unitis’, che aveva come attività principale una squadra di calcio dilettante ma competitiva nelle manifestazioni a cui partecipava”[4]. Il circolo divenne un oggetto di contesa politica. “Noi lo volevamo solo per noi; i fascisti di allora volevano, invece, impadronirsene. C’è stata una lotta che è durata alcuni anni; naturalmente l’abbiamo persa ed il circolo fu smobilitato. E’ lì che ho conosciuto molti miei coetanei. Con uno, in particolare, sono stato molto legato: si chiamava Gino Auriemma, era più anziano di me, di temperamento mite, sempre pronto ad accettare suggerimenti.”[5].
De Martino con Gino Auriemma, Raffaele Arfé, Francesco Capuano –quest’ultimo divenuto, poi, il primo sindaco della Liberazione- e Gennaro Ammendola furono fra i principali antifascisti[6] di quel circolo sportivo. E quando, nel 1924, l’Italia fu funestata dal barbaro assassinio di Matteotti, furono solo quei giovani che, a Somma, manifestarono il proprio dissenso e la propria rabbia, issando, sul campanile della chiesa di San Domenico, una bandiera rossa.
All’epoca del delitto Matteotti, la sezione del partito socialista italiano di Somma Vesuviana esisteva già da cinque anni. Era stata costituita, infatti, il 21 dicembre 1919, da undici compagni, che avevano eletto alla carica di segretario il professor Francesco Capuano[7]. La vita a Somma, allora, non era diversa da quella che scorreva negli altri centri del meridione: l’impegno politico, per esempio, non si addiceva alle donne. Tuttavia, proprio per “la fine atroce del Martire purissimo del Socialismo”, superando comportamenti consuetudinari, un folto stuolo di donne sommesi indirizzò un commosso saluto all’eletta compagna di Giacomo Matteotti. Alcune firmatarie erano parenti di compagni socialisti[8], altre erano semplici proletarie, che vollero associarsi al dolore di una vedova[9].
Intanto, sempre in quel periodo, i fascisti non erano teneri con le loro azioni persecutorie; il bersaglio principale era Gino Auriemma, colpevole di essere anche corrispondente dell’Avanti! Tutto sommato, però, negli anni del regime, a Somma, non ci furono avvenimenti politici degni di nota. Il P.S.I. locale seguiva la politica nazionale del partito e partecipava alle laceranti discussioni, che avevano portato alla storica scissione di Livorno, nel 1921. Alle elezioni amministrative del 1920 i socialisti sommesi presentarono una propria lista, che riscosse, su 1500 votanti, poco più di 150 voti. L’elettorato socialista era quasi tutto di matrice operaia ed è proprio agli operai che fu indirizzato un manifesto, affisso la domenica 3 ottobre 1920, come appello al voto: “Lavoratori! Mentre vecchie e nuove camarille, trescando alle nostre spalle, si contendono ancora una volta lo sgoverno di questa nostra Somma infelice, si levi alta e possente la nostra voce: -Indietro, o ben note sanguisughe del nostro Paese; -Indietro, o signorotti gonfi di boria e vuoti di cervella. –Scappellatevi: s’avanza il Lavoro! Sono gli sfruttati dei campi e delle officine che marciano decisi verso la propria redenzione all’ombra del rosso vessillo sul quale è scritto: -Chi non lavora non mangi! Operai, contadini, soldati, avanti! Contro i nuovi e i vecchi pescicani; contro la guerra, contro tutti gli impostori e gli imbroglioni: Viva il Socialismo!”[10]. Il paese, che era caratterizzato da una economia prevalentemente agricola, si segnalava per essere lontano dai grandi fatti politici e viveva, come del resto molte realtà meridionali, quale evento lontano ed impersonale lo Stato, la Partecipazione e la Libertà.
Anche Gaetano Arfé, nato nella cittadina sommese nel 1925, confermò questa sorta di agnosticismo, “Gli eventi intorno a noi procedevano, per la verità, impetuosi e drammatici: entrammo nel ginnasio con la guerra d’Etiopia, incontrammo la guerra di Spagna, ne uscimmo con la guerra mondiale. Ma erano eventi che, nonostante la propaganda del regime, non ci coinvolgevano: il giorno della caduta di Madrid ci fu comandato di saltare la lezione e di manifestare il nostro entusiasmo per le strade; ma del corteo formatosi dinanzi alla scuola arrivò alla meta, che era il monumento ai caduti, soltanto l’insegnante di educazione fisica col manipolo di fedelissimi, che eccellevano nella sua materia”[11].
Quando, il 10 giugno 1940, Mussolini dichiarò lo stato di guerra – “Popolo italiano: corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”- in piazza Trivio ci fu un gran tripudio. A lungo, in segno di giubilo, furono lanciati in alto coppole e cappelli; a lungo ci furono balli e schiamazzi.
Nei terribili anni che seguirono, la sorveglianza sulle attività degli sparuti antifascisti divenne sempre più accurata e sistematica; si alimentò delle informazioni di quanti, per delazione o per fede, furono disponibili a collaborare. “Noi ci riunivamo a casa di Gino Auriemma per ascoltare le notizie di Radio Londra. Una sera in cui io ero rimasto a casa, trattenuto da una indisposizione di mia moglie, l’abitazione di Auriemma fu circondata e col padrone di casa furono arrestati Raffaele Arfé e Domenico Di Palma, per diffusione di notizie provenienti da Radio Londra. A nulla valse aver spento tempestivamente la radio ed averne negato l’ascolto. Ad Arfè, esponente massonico, nella perquisizione seguita all’arresto, fu trovato un elenco di iscritti alla massoneria. Di fronte alla minaccia dell’arresto di tutti i nominativi dell’elenco, Arfé ammise l’ascolto, aggravando, così, la situazione degli altri, che continuavano a negare. La detenzione, per tutti, durò qualche mese; poi, si celebrò il processo davanti alla commissione per il confino, che, per fortuna, si limitò ad emanare un verdetto di ammonizione”[12].
Il 25 luglio del ’43, invece, non ci furono scene di gioie a Somma Vesuviana. Paolino Angrisani, ultimo presidente del consiglio provinciale, da un balcone di piazza Trivio annunciò la caduta di Mussolini. La popolazione pensava, però, ad altro. Ci furono piccoli episodi di violenza contro qualche simbolo di regime; non fu bruciata la sede del fascio né furono inseguiti gli ultimi fascisti; tutti si chiedevano se la guerra fosse davvero finita? “Alla caduta del fascismo non eravamo tranquilli, perché il messaggio di Badoglio non annunciava nulla di buono, dato il divieto di ricostruire i partiti. La prima cosa che facemmo fu di occupare la sede del fascio, che era stata la vecchia sede della ‘Viribus Unitis’, di organizzare qualcosa; ma con l’8 settembre la situazione divenne più difficile e si aggravò di un altro problema: non cadere in mano tedesca. Durante l’occupazione abbiamo organizzato un po’ di sabotaggio (fili tagliati, comunicazioni interrotte), rischiando, continuamente, sanguinose rappresaglie”[13].
I sommesi scapparono verso la montagna protettrice; intere famiglie, inermi, cercarono di sottrarsi alla rabbia ed alla violenza di un esercito nemico, che stava mettendo a ferro e fuoco il paese. C’era in giro solo qualche fucile da caccia, quanto bastò per tenere a bada un drappello di tedeschi, che si era inerpicato tra i sentieri del monte Somma. Due soldati furono feriti e la vendetta non tardò a presentarsi. Ai piedi del campanile di San Domenico, molti cittadini sommesi furono messi sotto il tiro delle armi naziste. Fu la fortuna o la bontà di un soldato austriaco a dare via libera agli ostaggi. I tedeschi, imbestialiti, cominciarono a sparare all’impazzata; in via Casaraia e via Roma, caddero tre vittime innocenti, Luisa Granato, Ciro Giannoli e Michele Muoio. Nel maggio del 1945, quando Gaetano Arfé tornò dalla Valtellina, terra in cui aveva combattuto nel “Corpo Volontari della Libertà”, ebbe un impatto drammatico: ”Trovai la mia casa, in via Roma, semidistrutta, bruciata da un gruppo di paracadutisti della divisione Hermann Goering in ritirata da Napoli, con buona parte dei libri mitragliati insieme a mobili, piatti e bicchieri. Conservo un libro, che porta ancora il segno della ferita: è un volume dell’Archivio Storico delle Province Napoletane, che ha infisso nel cuore una pallottola calibro 9, partita da una machine-pistole!”[14].
Erano tempi bui e molto difficili da vivere; ricostruire non era semplice: “Dall’occupazione agli alleati furono tempi molto duri. Col divieto di Badoglio di costituire i partiti e le restrizioni imposte dagli alleati, si avviarono le prime attività semilegali. Si cominciò ad organizzare anche il Partito d’Azione”[15]. L’animatore del partito azionista fu Gino Auriemma. Ad indirizzare De Martino verso il P.d.A. fu, invece, un luminare napoletano della medicina: “Il primo a parlarmene fu Antonio Merlino, aiuto di ostetricia nella Facoltà di Medicina di Napoli, che a sua volta era stato avvicinato da un rappresentante di case farmaceutiche, Antonio Sciacovelli, collegato con i dirigenti napoletani del partito, l’avv. Pasquale Schiano ed Antonio Armino. Ricevemmo un pacco di tessere con l’intestazione ITALIA LIBERA, che cominciammo a distribuire tra i nostri amici, dei quali conoscevamo i sentimenti di avversione al fascismo a Somma Vesuviana, dove quell’estate avevo trasferito la mia famiglia”[16]. Dal 1943 al 1947, quindi, De Martino fu iscritto al PdA, assumendo anche le cariche di segretario regionale della Campania e membro dell’esecutivo nazionale. Gli impegni di studio e quelli politici lo allontanarono sempre più dal paese in cui risiedeva e non gli consentirono, unicamente, che assumere informazioni, dare suggerimenti e concorrere a soluzioni strategiche attraverso il contatto con i compagni del luogo.
Contemporaneamente a questi ultimi eventi, nel 1944, a Somma Vesuviana, nasceva la sezione del P.C.I.; ne furono protagonisti molti esponenti, che, venticinque anni prima, avevano concorso a fondare la sezione socialista: “Anno 1944, 15 ottobre. Costituzione della sezione comunista di Somma Vesuviana. Con l’intervento del compagno Franceschelli della Federazione Comunista Campana, si è costituita la sezione. I compagni Capuano e Franceschelli hanno detto poche parole al gruppo dei compagni intervenuti, i quali hanno eletto il consiglio direttivo, che, per acclamazione, è stato votato ed è risultato così composto: Annunziata Vincenzo, segretario; Esposito Luigi, cassiere; Raia Giuseppe, Naddeo Salvatore, De Falco Antonio. Il compagno Franceschelli ha presentato un o.d.g. in cui si dichiara di accettare le direttive della Federazione Campana. L’assemblea si è sciolta tra il più vivo entusiasmo”[17]. Un entusiasmo che aveva preso molti giovani, li aveva avviati all’impegno politico, facendo loro coltivare la speranza della costruzione di un nuovo mondo: “Nel giugno del ’44 ho preso la tessera del partito comunista. Mi sono dedicato all’organizzazione delle zone di periferia. Ho cominciato a frequentare convegni e sulle parole dei giovani Amendola ed Alinovi ho sposato questa idea, che mi faceva vedere non più schiavo, che mi faceva respirare un vento nuovo”[18].
Cominciava, intanto, nella cittadina vesuviana un’intensa attività politica. Un primo banco di prova fu la battaglia per la Repubblica, densa e complessa, con qualche episodio anche cruento. Proprio a Somma, infatti, organizzata dai monarchici, ci fu una manifestazione contro il sindaco repubblicano e, per di più, comunista, espressione del C.L.N., professor Francesco Capuano. Il raduno –sotto l’occhio acquiescente dei carabinieri, che erano quasi tutti di fede monarchica- fu al palazzo comunale. Dalle campagne si mossero molti contadini e, al grido di “viva il re”, marciarono verso il comune, per scacciare il sindaco rosso. “Io andai insieme con mio padre, ma non c’erano altri compagni. Ci trovammo con due comunisti venuti da Napoli, il ligure Carlo Obici e Gino Vittorio. Io, quando vidi quella massa di contadini armati di roncole, suggerii di chiudere il portone del municipio, abbandonare il campo e lasciare i carabinieri a mantenere l’ordine pubblico. Ma Obici volle rimanere; voleva spiegare ai contadini cosa era la Repubblica. Riuscii a far nascondere mio padre nel fondo di un corridoio. Quando Obici disse “compagni”, i contadini gli saltarono addosso; si sottrasse a stento da quella folla e tentò di scappare. Uno di loro lo colpì con una pugnalata alla schiena. Fu allora che Gino Vittorio sparò all’attentatore, colpendolo al ginocchio. Profittando della confusione, scappammo attraverso i tetti dell’ex convento di San Domenico, sino a raggiungere la stazione ferroviaria di Mercato Vecchio. Loro due presero un treno per Napoli, io tornai in paese ed appresi che avevano dato fuoco alle sedi del P.S.I. e del P.C.I. Il giorno dopo mi arrestarono e fu Francesco De Martino ad ottenere il mio immediato rilascio. L’attentatore di Obici, infatti, era morto per sopraggiunta setticemia, ma si riconobbe che era stato colpito per legittima difesa. Fummo tutti prosciolti”[19].
Fu difficile far capire ai sommesi cosa fosse la Repubblica. Raccontò Francesco De Martino che, nel corso dell’assalto al comune, aveva riconosciuto un vecchio concittadino, al quale aveva chiesto cosa stesse facendo e se si rendesse conto della gravità del gesto. Il vecchio rispose: “Sapite Pullecenella comme dicette?…A Somma ‘nce sta ‘a repubblica”. Commentando l’episodio, De Martino aggiunse: “Republica, per quella gente era sinonimo di anarchia. Che era, grosso modo, quanto pensava la spazzina del comune di Somma Vesuviana, Assunta Raia, che richiesta del perché si ostinasse, lei povera, a votare per la monarchia, rispose:- si cade ‘o re, ‘e solde nun valene cchiù. La caduta del re significava caduta della moneta; nella mentalità popolare Repubblica voleva dire disordine ed anarchia. Monarchia, invece, stava ad indicare ordine dello Stato e validità della moneta. D’altra parte la forte prevalenza monarchica sulla tesi repubblicana emerse chiaramente dai dati delle elezioni: a favore della repubblica non si racimolarono nemmeno mille voti[20]. Meno di quanto i partiti della sinistra esprimessero tutti insieme”[21].
La vittoria repubblicana nel referendum del 2 giugno 1946 -ad onta del suffragio espresso da quasi tutti i votanti sommesi a favore della monarchia- fu festeggiata nella sede del PdA., in Piazza “3 Novembre”. Vecchi e giovani compagni si strinsero intorno a Francesco De Martino; sventolarono le bandiere rosse e quelle tricolori; l’euforia accomunò quella piccola minoranza repubblicana, molto solidale, contrapposta ad una maggioranza monarchica, fortissima, rappresentata, oltre che dai fedelissimi del re, dai seguaci della D.C. e del P.L.I.
Nel dopoguerra, anche la storia del partito socialista sommese fu costellata di scissioni e liti, ma anche di pionieristiche e coraggiose intuizioni politiche.
Nei primi anni ’50, poiché non esisteva un locale che ospitasse i socialisti, questi ultimi convissero, per un periodo, con i comunisti. Chiusi, infatti, i locali in via Turati, perché reclamati dal locatore, la sezione P.S.I. fu ospitata, in via Gramsci, presso la sezione P.C.I. Dei vecchi compagni del 1919 erano rimasti Gino Auriemma, Ernesto Coppola e Vincenzo Marciano. La politica andava a ruota di quella nazionale; anzi, alcune volte si esaltava negli scontri paesani tra i monarchici, i democristiani, i socialisti ed i comunisti. Fin quando non accadde un fatto eclatante. Contro lo stesso volere della Federazione napoletana, i socialisti sommesi sottoscrissero un accordo con i monarchici. Un manifesto murale ne spiegò il senso. I socialisti, infatti, pur di escludere alcuni rappresentanti democristiani, si dichiararono pronti ad unirsi ai monarchici, riconoscendo loro il sindaco, in cambio della maggioranza in giunta. Problemi, poi, all’interno del locale P.N.M. circa i nomi che lo avrebbero dovuto rappresentare, fece fallire l’accordo. Fu Francesco De Siervo[22], allora, sindaco democristiano, a non lasciarsi sfuggire l’occasione ed a varare, così, in assoluto, il primo governo di centrosinistra. In giunta, oltre a due assessori socialisti –Gennaro Angrisani e Domenico Di Palma-, sedette anche il comunista Vincenzo Scarpati.
Giancarlo Paietta celebrò quel laboratorio di centrosinistra, il primo in Italia, sulle pagine de “l’Unità”. Il comunista Diego del Rio, all’epoca responsabile in federazione degli enti locali, alla notizia del protocollo d’intesa dell’anomala giunta, si entusiasmò al punto da dichiarare che, se solo una parte di quanto previsto dall’accordo fosse stata realizzata, Somma sarebbe diventata un punto di riferimento costante nella vita politica nazionale. Ma presto vennero i nodi al pettine. In un paese dedito, infatti, al pettegolezzo ed al radicamento dell’idea che tutti devono ottenere tutto, il ferreo controllo degli assessori di sinistra non pagò. Scarpati, infatti, fu costretto a cambiare paese, perché varie lettere anonime ne denunciarono al provveditorato agli studi l’attività di politico più che di insegnante elementare. Gli assessori socialisti Angrisani e Di Palma, invece, furono costretti a rompere gli accordi e perché continuamente sabotati dai dipendenti comunali, tutti di stretta osservanza democristiana, e perché continuamente messi in angolo dall’arrogante decisionismo del sindaco De Siervo.
Il P.S.I. andò all’opposizione ma non disdegnò confronti su problemi e contributi a soluzioni per il miglioramento dei servizi e del paese. Questa politica, come negli anni a venire, non valse a ricostruire un buon rapporto con i comunisti; ricorda Luigi D’Avino, per circa vent’anni segretario della sezione P.S.I., “ci hanno spesso lottato perché avevamo più voti e più rappresentanti in consiglio comunale; ci chiamavano i ‘socialisti del re’, perché, dicevano, che eravamo compagni all’acqua di rosa”. All’inizio degli anni ’60 i socialisti, insieme ai comunisti, si impegnarono in una strenua lotta contro la scelta democristiana di allocare lo sversatoio dell’immondizia a mezza montagna, in località Bosco, nella proprietà dei La Marca. Ci furono minacce, nemmeno tanto velate, e qualche giovane contestatore subì anche un’aggressione[23]. Inutile dire che l’opposizione fu perdente; De Siervo vinse la sua battaglia[24] e la discarica sul Somma-Vesuvio ingoiò rifiuti di ogni genere, provenienti da ogni parte della Campania ed oltre, per circa trent’anni[25]. Quelli furono veramente anni bui per il paese. Vincenzo Diaco –medico, nativo di Oppido Mamertina, ma da tempo trapiantato a Somma Vesuviana, tra i fondatori del PSI nel dopoguerra e, ininterrottamente, consigliere comunale dal giugno 1952 al settembre 1964- ha spesso ricordato l’indigenza e lo stato di abbandono in cui versavano i cittadini di Somma: “Andavo in giro per tenere comizi e riunioni; nella periferia di San Sossio molte famiglie non avevano nemmeno i servizi igienici. Però votavano democrazia cristiana ed era sempre difficile strappare un voto per la sinistra”.
Diversa la posizione dei comunisti: “Da allora il PCI fu costantemente all’opposizione. Anzi, alle elezioni del ’60, il partito addirittura si indebolì. Grazie, infatti, al trasformismo politico incoraggiato dalla D.C., molti compagni, politicamente impegnati ma economicamente indigenti, furono costretti a cambiare sponda per ottenere un posto di lavoro”[26].
Nel 1970, poi, la svolta. A seguito, infatti, di una lotta fratricida all’interno della D.C., specificamente tra De Siervo ed il suo vicesindaco Lino Iossa, e della dichiarata ineleggibilità per motivi giudiziari dello stesso De Siervo, furono ripetute le elezioni amministrative. Il P.S.I. conseguì una vittoria storica con l’elezione di dieci consiglieri su trenta. Insieme ai comunisti ed ai socialdemocratici, i socialisti, con una risicata maggioranza, si apprestarono a governare il paese proponendo a sindaco l’ingegnere Antonio D’Ambrosio. “L’esperienza fu esaltante, il programma era buono, ma le persone non incarnavano (almeno non tutte) il modello del buon amministratore. Ogni assessore era convinto che, in quanto tale, doveva comandare e decidere come meglio gli aggradava. I dipendenti comunali, ispirati dalla figura momentaneamente decaduta di De Siervo, boicottarono i servizi e crearono difficoltà. Le aspirazioni amministrative di due socialisti[27], poi, emigrati verso altri partiti, diedero il colpo di grazia a quella difficile coalizione. Qualche opera si riuscì a realizzare, altre iniziative furono solo programmate, tra cui tre ambulatori ed il progetto della cosiddetta circumvallazione a valle. Il sindaco, ottimo professionista, ebbe grosse difficoltà nella gestione dei tanti interessi di parte e debole per la logica dei numeri, era continuamente ricattato e fu costretto a dimettersi”[28].
Così, nel 1973, la giunta rossa fu cancellata. Ritornarono a governare i democristiani. Ci fu una sorta di restaurazione. Anche al referundum abrogativo del divorzio, nel 1974, la tendenza di Somma fu quella di rispondere con circa seimila “Si” al quesito referendario, a fronte della vittoria nazionale dei “No”. Sembrò ritornare ai tempi della scelta istituzionale; sembrò che si agitassero di nuovo i fantasmi monarchici e codini.
Gli anni successivi riportarono al governo della città uomini democristiani. In un’alternanza di nomi, provenienti quasi sempre da antiche famiglie di potere, i sindaci si chiamarono, ancora una volta, De Siervo, e, poi, Lino Iossa, Tancredi Cimmino, Antonio Piccolo, Vittorio Piccolo ed ancora Antonio Piccolo. A sostegno della D.C. ci fu sempre un fedele ed immarcescibile P.S.D.I.; i comunisti restarono all’opposizione, tranne qualche sporadico sostegno amministrativo alla fine degli anni ’80. I socialisti, invece, non si sottrassero – o non tutti si sottrassero- al fascino del potere e collaborarono, a lungo, assumendo responsabilità amministrative negli esecutivi a marchio democristiano. Nel 1981 il P.S.I., addirittura si spaccò per un accordo di collaborazione, raggiunto tra il sindaco De Siervo ed alcuni esponenti socialisti, senza l’avallo del direttivo del vecchio partito di sinistra. I sottoscrittori del contratto politico chiusero le trattative, assicurando al P.SI. un assessorato e la vicepresidenza della locale azienda sanitaria[29].
Fu un periodo, quello degli anni ’80, in cui Somma Vesuviana visse molto del dualismo di due rampanti onorevoli locali: uno era il democristiano Tancredi Cimmino, l’altro era il socialista Geppino De Mitri, craxiano, a lungo sottosegretario di Stato, prima alle poste e, poi, alla marina mercantile. Ma fu anche un periodo di grande confusione politica.
I socialisti sommesi vissero quel periodo appiattendosi in una lotta correntizia. Una sosteneva De Mitri, l’altra militava alla corte del napoletano Giulio Di Donato; solo una sparutissima minoranza viveva nel ricordo dei vecchi fasti e degli antichi numi tutelari. Ma, intanto, sia De Martino che Arfé avevano preso le distanze dal nuovo gruppo di potere craxiano. Il loro socialismo era un socialismo di pensiero, di comportamenti, di valori, di ideali, di sostanza, che mal conviveva col decisionismo del leader maximo, con la politica dei due forni, con la pratica dei tesseramenti gonfiati, con l’occupazione sistematica di ogni strapuntino di potere.
Poi, arrivarono gli anni ’90, quelli di tangentopoli e delle indagini dei giudici. Cominciò la nuova diaspora socialista, che, anche a Somma, battezzò la nascita di vari gruppi e movimenti di diversa ispirazione. E non sempre quelli che continuarono a dichiararsi socialisti, talvolta solo perché tesserati al partito (o a ciò che restava), furono di stretta osservanza di sinistra; come avvenne nel 1993, quando, a seguito dell’affermazione di una lista civica, “Uniti per Somma”, di marcata ispirazione di centrosinistra, i socialisti, che avevano concorso con una propria lista alle elezioni, in consiglio comunale sedettero nei banchi dell’opposizione, facendo lega con i rappresentanti della destra, da F.I. ad A.N. Nel 1997, invece, si votò due volte; la prima volta, infatti, il redivivo De Siervo fu sospeso dalla carica per una vecchia incompatibilità a ricoprire incarichi pubblici. Alla chiamata del 27 aprile, quindi, i socialisti riuniti sotto la sigla di “Socialisti e democratici” non raccolsero nemmeno mille voti; un’altra parte di socialisti, invece, si aggregò attorno alla lista “Parco” e con i suoi circa duemila voti cercò di coniugare gli ideali di uguaglianza con il ribellismo di quanti non avevano accettato la perimetrazione del Parco Nazionale del Vesuvio. Alla ripetizione del voto del novembre 1997, infine, i socialisti, sotto la sigla del “Sì”, portarono un solo eletto in consiglio comunale, per altro ben presto emigrato nella coalizione di centrodestra.
Alle elezioni amministrative del maggio 2001, i socialisti dello S.D.I. si impegnarono per la vincente coalizione di centrosinistra; quelli del Nuovo P.S.I., invece, abbracciarono la fede di centrodestra. Una fotocopia degli schemi nazionali! Dopo poco tempo, la compagine dello S.D.I. si dimezzò; continuò la diaspora, una volta in nome dell’indipendenza, una volta in nome del trasformismo. Ogni tanto l’occasione di un convegno, l’avvicinarsi di nuove scadenze elettorali, crearono l’illusione che i socialisti di Somma potessero stare tutti insieme. L’ottuagenario Diaco, dietro il balcone di casa sua sul mare di Posillipo, con rabbia e delusione, pochi mesi prima della sua scomparsa, commentò con amarezza: “No. Non c’è e non c’è mai stata, purtroppo, una vera tradizione socialista a Somma Vesuviana!”.
Anche oggi, a quindici anni dall’entrata nel terzo millennio, infatti, si fa fatica a parlare di socialismo, che si tenta a sostituire con il termine onnicomprensivo riformismo. Ma non si può solo parlare di riformismo; bisogna qualificarlo e dire cosa si intende per riformismo; bisogna dichiarare qual è la cultura alla quale i riformisti si rifanno, perché se non c’è autonomia culturale non può esserci nemmeno autonomia politica. Perché un se dicente riformista, se non ha una propria cultura, se non sa quello che vuole nei vari ambiti di riferimento, finisce con non l’avere nemmeno regole interpretative dell’economia, del diritto, della propria storia politica. E finisce con l’accettare la storia degli altri, restando in uno stato di subalternità perenne o di convivenza interessata.
L’ultima volta che Gaetano Arfé stette a Somma Vesuviana disse: “C’è un problema di saldatura tra la sinistra ufficiale, quella dei partiti, e le forze vive del paese. Certe volte i leader di partito fanno dichiarazioni, che fanno cadere le braccia, che non riescono a suscitare un’ombra di speranza in nessuno. Il problema di oggi, invece, è proprio quello di resuscitare la speranza, la fiducia, la forza, la volontà di lottare”[30]. In questo i 95 anni di socialismo di Francesco De Martino e l’impegno continuo degli 82 anni di Arfé stanno ad indicare la strada. Perché essi avevano capito subito il linguaggio delle forze nuove, quelle che si erano appena affacciate alla vita politica e chiedevano spazio; perché avevano capito il grado d’arretratezza politica di una certa sinistra e di certi socialisti rispetto ai bisogni dei tempi, alle necessità del momento. Perché essi affermavano, con insistenza, che la via dell’unità della sinistra non è quella dell’accordo dei vertici, ma è quella del ripensamento, del confronto chiaro ed onesto, della rilettura della propria storia come bilancio critico, serio, severo e spregiudicato; per poter trarre da quel passato tutto quanto c’era e c’è di nobile, di glorioso, di utile e di fecondo.
Il problema di Somma Vesuviana è che ai padri nobili del socialismo (di cui è rimasto un sempre più dimenticato pantheon) ed a tutti quelli che credono e si battono per un vero socialismo riformista, non necessitano omaggi sporadici, non servono dichiarazioni e culti di appartenenza da parte di strutture partitiche. Ad essi, forse, basta che sia manifestata la volontà di essere fedeli ad un insegnamento, all’esperienza che è stata tramandata, all’esperienza che il vero socialismo riformista continua a rappresentare e a raccogliere intorno a pochi pensieri e a rigorosi comportamenti. Con la volontà, sempre, come solitamente diceva Gaetano Arfé, di “riaccendere presso i giovani la fede e la speranza”.
E chissà, poi, che quella tradizione negata non possa diventare una tradizione agita!
[1] Ciro Raia, Gaetano Arfé un socialista del mio paese, Lacaita, Manduria, 2003.
[2] Gaetano Arfé, in Ciro Raia, Op. cit.
[3] Uno dei fratelli di Elisa fu Alberto Angrisani, il medico-farmacista, autore del testo “Notizie storiche e demografiche intorno alla città di Somma”, Napoli, 1928.
[4] Ciro Raia, Incontro con Francesco De Martino, in Summana, anno IV, n.11, Napoli, 1987.
[5] Ciro Raia, Summana n.11/87.
[6] “Essere di sinistra in quel tempo voleva dire essere contro il fascismo e le istituzioni che ne avevano permesso o favorito la vittoria, a cominciare dalla monarchia. Così in primo luogo mi sentivo repubblicano e vagamente socialista.”, in Francesco De Martino, Intervista sulla sinistra italiana, a cura di Sergio Zavoli, Laterza, 1998.
[7] Oltre al Capuano, i primi iscritti al P.S.I. di Somma Vesuviana furono i compagni Antonio Aliperta, Vincenzo Angrisani, Gino Auriemma, Antonio Calvanese, Giuseppe Caputo, Ernesto Coppola, Raffaele De Falco, Giuseppe De Falco, Antonio De Falco e Gaetano De Luca, in Luciano Esposito, Rossi Vesuviani, l’Informatore, Salerno, 1997.
[8] Giuseppina Monti era la moglie di Gino Auriemma, Mafalda Auriemma era sua sorella; Maddalena Maffezzoli era la moglie di Raffaele Arfé.
[9] “A l’eletta compagna di Giacomo Matteotti. Le donne proletarie di Somma Vesuviana partecipano commosse al dolore immenso che ha colpito la Compagna degnissima, la Madre adorata, le Sorelle, i Bambini dell’Apostolo nobile e disinteressato della redenzione degli umili e piangono, con tutte le donne del mondo, la fine atroce del Martire purissimo del Socialismo. Somma Vesuviana, 16 giugno 1924. Seguono le firme di Carmelina Capuana, Maddalena Arfé Maffezzoli, Giuseppina Monti, Colomba Sodano, Anna Sodano, Cristina Auriemma, Anna Capuano, Mafalda Auriemma, Rosalia Capuano, Teresa Granato, Clementina Bocchino, Nina Angrisani, Clelia Muoio, Michelina D’Avino, Lucia Lanza, Carmela Stefanile ”
[10] Assemblea della sezione socialista del 29 settembre 1920, in Luciano Esposito, Op. cit.
[11] Gaetano Arfé, in Prefazione a Donato Catapano, Il manicomio era il mio destino, Liguori, Napoli, 2001.
[12] Francesco de Martino, conversazione con Ciro Raia, in Summana n.11/87.
[13] Francesco De Martino, conversazione con Ciro Raia, in Summana n.11/87.
[14] Gaetano Arfé, in Ciro Raia, Op. cit.
[15] Francesco De Martino, conversazione con Ciro Raia, in Summana n.11/87.
[16] Francesco De Martino, Intervista sulla sinistra italiana, Op. cit.
[17] Luciano Esposito, Op. cit.
[18] Ciro Raia, Incontro con Pasquale Di Palma, in Summana n. 21/1991. Di Palma è ancora oggi l’emblema del PCI. E’ stato, a lungo, segretario di sezione, consigliere comunale e capogruppo; è stato candidato (senza uscire tra gli eletti, ma con grande successo personale) alla provincia ed alla camera. E’ stato distributore domenicale de l’Unità, promotore di volantinaggi contro le amministrazioni a guida democristiana; è stato sostenitore di vari movimenti di opinione.
[19] Gaetano Arfé, in Ciro Raia, Incontro con Gaetano Arfé, in Summana n.19/90.
[20] Risultato del referendum del 2 giugno 1946 a Somma Vesuviana: elettori 8861, votanti 7128; monarchia, voti 5439; repubblica, voti 1016 (fonte: ufficio elettorale del comune di Somma Vesuviana).
[21] Francesco De Martino, conversazione con Ciro Raia, in Summana n.11/87.
[22] Napoletano, nato nel 1921, è stato, ininterrottamente, presente sulla scena politico-amministrativa di Somma Vesuviana, per oltre 40 anni. E’ stato commissario prefettizio, sindaco, capogruppo DC, segretario DC, accusato di peculato e altri reati, sospeso per giudizio pendente, assolto, presidente della U.S.L. 29, di nuovo sospeso per giudizio pendente, di nuovo assolto. “Ho presieduto giunte con democristiani, liberali e monarchici, giunte monocolori, ma quella che mi ha dato più soddisfazioni, per la coerenza e la serietà, fu quella, alla fine degli anni ’50, col P.S.I. e col P.C.I. All’epoca, infatti, si varò la prima apertura a sinistra, nonostante il veto del segretario nazionale Amintore Fanfani e di quello provinciale Paolo Barbi”, in Ciro Raia, Summana n.13/88, incontro con Francesco De Siervo.
[23] Nel 1961 l’allora studente universitario Antonio Tuorto, tra i più convinti oppositori alla scelta dell’immondezzaio nel paese delle albicocche e dell’uva catalanesca, subì un’aggressione per mano di ignoti, una sera, mentre rincasava.
[24] “Era un servizio essenziale che doveva esserci; la legge lo prevedeva a 500 metri dall’abitato, io lo portai a 900 metri”, Francesco De Siervo in Summana n. 13/88.
[25] La discarica La Marca fu chiusa nel 1994 con atto della giunta presieduta dal sindaco Alfonso Auriemma, eletto a capo di una lista civica “Uniti per Somma”, nel giugno del 1993.
[26] Ciro Raia, incontro con Pasquale Di Palma, in Summana n.21/91.
[27] L’avvocato Vincenzo Di Palma passò dal PSI ad una dichiarazione di stato di indipendenza e, successivamente, al PSDI mentre l’avvocato Raffaele Donizzetti dalla sponda socialista approdò a quella democristiana.
[28] In Summana n.21/91, Ciro Raia, incontro con Pasquale Di Palma.
[29] “Pasticcio fra democristiani e socialisti e il consiglio comunale va deserto”, in Paese Sera, domenica 26 luglio 1981.
[30] Sabato 11 ottobre 2003, in occasione della presentazione del libro di C. Raia, “Gaetano Arfé un socialista del mio Paese”.