Ho visitato i campi di sterminio di Auschwitz e di Birkenau. Era un torrido luglio di due anni fa. Avevo occhi famelici di immagini e mente vorace di sapere, volevo immagazzinare ogni particolare, non perdere niente. Avevo, quel giorno, la sensazione che ancora si sentisse odore di bruciato, che ancora echeggiassero i lamenti, che tra i fili spinati di quella triste distesa ancora vagassero fantasmi di uomini con un pigiama a righe. Auschwitz costituiva, per me, l’apice di una sorta di viaggio della memoria, che già mi aveva portato –negli anni- ai sacrari militari delle Alpi, al cimitero monumentale di Re di Puglia, alle foibe di Basovizza, al campo di Fossoli, alla Risiera di San Sabba, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema e ai ghetti ebraici di Trieste, Cracovia e Praga.
Negli anni passati ad insegnare e, poi, a dirigere una scuola mi sono sempre preoccupato di indirizzare, problematicamente, la riflessione sul passato: era necessario per capire (tutti insieme) la sostanziale differenza tra il significato dei ricordi, delle testimonianze e il precorso che quelle testimonianze potevano/dovevano avere dentro ogni uomo. Ho ancora nelle orecchie la voce a telefono della professoressa Emilia Crasto, accompagnatrice di una classe “vivace” del nostro liceo: –Preside, dopo la visita ad Auschwitz, i ragazzi sono cambiati. È come se fossero diventati, all’improvviso, più responsabili, più maturi. Alcuni, poi, sono addirittura silenziosi…
Non poteva essere diversamente. Me ne rendevo sempre più conto – a posteriori- in quella giornata di un torrido luglio di due anni fa. Lo procuravano gli sguardi spiritati delle foto in bianco e nero degli internati, le bacheche con i vestiti da uomo e da donna, quelle con i vestiti da bambino, quelle con le innumerevoli scarpe appaiate e spaiate, quelle con le valigie grandi e piccole, quelle con gli oggetti di uso giornaliero (rasoi, pennelli da barba, spazzolini per i denti, fasciatoi, giocattoli, pettini), quelle con le sette tonnellate di capelli già pronti per l’imballo da avviare alla produzione di tessuti negli stabilimenti della Baviera. Sembrava anche, in quel torrido giorno di luglio di due anni fa, di quasi dover difendersi dalle esalazioni dello Ziklon B (gas a base di cianuro), di dover evitare il camice vagante del dottor Mengele e di respirare con fatica tra le cappe di anneriti camini, dove ancora il fumo saliva lento.
C’era stato, come spesso accade, un miracolo, una trasformazione. La Memoria era diventata evento a carattere pubblico per dei visitatori accaldati, come lo era stato per una classe di studenti o per una comunità intera. Era riuscita, la Memoria, a costruire una coscienza pubblica, a rinsaldare la consapevolezza di un vuoto tra un “prima” ed un “dopo”. Quella Memoria era servita (e serve) a far domande su noi stessi, per eliminare il mondo degli spettatori, quelli che non si schierano da nessuna parte: Odio chi non parteggia. Odio gli indifferenti (Gramsci).
Ovvio, a questo punto, che il 27 gennaio, la Giornata della Memoria, debba necessariamente costituire un’opportunità culturale e civile, uno dei modi possibili di affrontare una microstoria al cui centro ci sono sentimenti, relazioni, sistemi di relazioni, legami e conflitti, intrecci e passioni. Insomma, la vita, una questione di democrazia, un valore prescrittivo, una metafora di tutti i totalitarismi.
Spesso, però, quando si fanno i conti con uno smunto bagaglio culturale, si corre il rischio che il passato possa essere utilizzato in chiave politica! Così la Giornata della Memoria –ma anche il 25 aprile o il 2 giugno- finisce con l’essere svuotata di significato, specie se la si vive per il infoltire il mondo degli spettatori o per creare (anche inconsapevolmente) uno squilibrio forte fra l’evento e la conoscenza storica. E questo capita, maggiormente, quando la politica (con la p minuscola) si impossessa di un simbolo e, contravvenendo ad piano sia etico che politico, macina le date a guisa di appuntamenti standardizzati, evitando una riflessione problematica sul passato ed assumendo, con il ruolo di decisore dei destini umani, anche quello delle scelte di senso cognitivo. Non per caso Gaetano Arfé, storico di vaglia, ammoniva che “l’uomo politico dovrebbe avere il senso della storia, che è cosa diversa dal presumere di essere interpreti sicuri delle tendenze di fondo di quella storia in divenire, che è la politica”.
Trasferisco questo mio ragionamento alla querelle sorta intorno all’intitolazione (nuova, vecchia, seminuova) della piazza principale della città di Somma Vesuviana e ad un nesso esistente -secondo me- con la Giornata della Memoria.
Era stato il professore Mimmo Parisi –scrupoloso ricercatore di documenti d’archivio, aduso a sottoporre ad analisi, controanalisi e comparazioni prima di renderli pubblici- a segnalarmi che il Consiglio Comunale della cittadina vesuviana, nella seduta del 18 giugno 1916, aveva proposto di intitolare, per acclamazione, Piazza Ravaschieri (vecchia denominazione) a Vittorio Emanuele III “esempio mirabile di valore e di sacrificio che il nostro beneamato Sovrano va quotidianamente mostrando sui campi di battaglia”.
Mi giocai quest’ultima chicca storica nella premessa, che corredava la richiesta di (re)intitolazione di quella stessa piazza a Francesco De Martino. Componente, infatti, la Commissione Toponomastica (ma mi sono dimesso), ero stato incaricato (all’unanimità) di stendere la proposta scritta (approvata, invece, con un voto contrario e sei favorevoli), che doveva – a norma dell’art. 9, comma a, del Regolamento approvato con delibera di C.C. n. 9 del 13/12/ 2014- essere inoltrata al sindaco e alla Commissione Consiliare Permanente. Raccogliendo, poi, i pareri e le motivazioni –sempre di sei su sette componenti la Commissione Toponomastica- era stato scritto, conclusione della premessa, che “Il re Vittorio Emanuele III è unanimemente riconosciuto dagli Storici essere stato complice del fascismo e dell’entrata in guerra dell’Italia, nonché firmatario delle leggi razziali del 1938”.
I membri della predetta Commissione, riunitisi a fine dicembre 2015, hanno espresso parere non favorevole alla proposta ricevuta. Legittimo modo di procedere se l’iter, però, non fosse stato inficiato da una motivazione quanto meno infelice: in nessun modo contro la persona del prof. Francesco De Martino e la sua superlativa carriera professionale e politica, appare chiaro il fine ideologico e politico di strumentalizzare una vicenda storica che viene perpetuata da anni […]I consiglieri presenti, a maggioranza, intendono rispettare l’acclamazione del C.C. del 18/6/1916 […] Infine non condividono il giudizio su Vittorio Emanuele III che i componenti della commissione toponomastica scrivono nel verbale (fedelmente dal verbale!).
Non è certo un falso storico che il re Vittorio Emanuele III sia stato unanimemente riconosciuto dagli Storici essere stato complice del fascismo e dell’entrata in guerra dell’Italia, nonché firmatario delle leggi razziali del 1938 (proibizione agli ebrei di prestare servizio militare, di essere proprietari di aziende o terreni o fabbriche, di frequentare la scuola sia come discenti che come docenti). Anzi, ad essere più precisi, è doveroso ricordare che fu decisione di Re sciaboletta –in collaborazione con l’interventista Primo Ministro Antonio Salandra- quella di aver portato l’Italia anche nella Grande Guerra. E che fu soluzione scelta unicamente da Vittorio Emanuele III quella di conferire a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo dopo la marcia su Roma del 1922. E fu ancora responsabilità del re, figlio di Umberto I di Savoia, firmare le leggi fascistissime del 1925 (scioglimento di tutti i partiti e i movimenti contrari al regime, bavaglio alla stampa, abolizione del diritto di sciopero, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, nascita dell’Ovra). Senza contare, infine, che il piccolo Re, dopo aver portato il Paese nella II Guerra Mondiale, nell’autunno del 1943 lo abbandonò al proprio destino e alla vendetta dei Tedeschi, mentre scappava con tutta la famiglia a Brindisi.
A ruota del parere non favorevole espresso dalla Commissione Consiliare Permanente su una nuova (vecchia, seminuova) intitolazione della Piazza principale di Somma Vesuviana e sull’opportunità di cancellare il nome scomodo di Vittorio Emanuele III, è caduta la data del 27 gennaio, Giornata della Memoria. Occasione propizia per far dire ai rappresentanti delle istituzioni che “certi orrori non devono accadere più”. Parole senza passione, ripetute anche per un 25 aprile o per il centenario della Grande Guerra. Parole che, nell’uso dei politici di mestiere, hanno l’effimero significato di ricordo e non il valore di memoria. La memoria deve avere, infatti, un valore pragmatico, deve insegnare a saper fare domande, deve servire ad interrogare noi stessi e le nostre capacità di società civile.
È pur vero che non si deve fare di tutta l’erba un fascio, però, può sembrare, a questo punto della riflessione, che la Giornata della Memoria (che riguarda tutti noi) rischi di essere sminuita a guisa di testimonianze e ricordi (una commemorazione di defunti) o- peggio ancora- assunta a dovere istituzionale (in disequilibrio con il diritto di conoscere la storia, gli uomini, gli eventi, i sentimenti), che niente ha a che vedere con le date di un calendario civile (monito costante per i vivi).
Nel 1983, appena aveva finito di leggere Se questo è un uomo, Monica Perosino, una undicenne torinese, aveva pensato di scrivere a Primo Levi e porgergli una domanda precisa: –perché nessuno ha fatto niente per fermare lo sterminio? I tedeschi erano cattivi?
Lo scrittore, testimone sopravvissuto all’orrore dei campi di sterminio aveva risposto con molta lucidità: –[…]Piuttosto che di crudeltà, accuserei i tedeschi di allora di egoismo, di indifferenza e soprattutto di ignoranza volontaria, perché chi voleva veramente conoscere la verità poteva conoscerla, e farla conoscere, anche senza correre eccessivi rischi.
Una piaga gravissima della società contemporanea è l’ignoranza. Piaga purulenta è, poi, l’ignoranza volontaria, che sempre denota una mancanza di maturità e di impegno sociale, politico, culturale e civile di un uomo. Ma l’ignoranza volontaria, quasi sempre, fa star bene chi ne è portatore, perché azzera i conti o evita addirittura di far regolare i conti con un piccolo bagaglio culturale. Quello che , spesso, fa ritenere anche la Giornata della Memoria un’occasione di vetrina e non fa veicolare il principio che lo sradicamento di una comunità si compie, soprattutto, con le bugie di comodo, con le verità parziali, con le complicità e con i silenzi.