Da dieci anni, ormai, l’antica scuola elementare di Somma Vesuviana non si chiama più, in modo anonimo, “I Circolo” ma “ I Circolo Raffaele Arfé”. Si deve all’illuminata e pratica direzione della dottoressa Anna Massa (ed alla collaborazione convinta di tutti gli organi collegiali della stessa scuola e dell’Amministrazione Comunale di quegli anni) se non fu sprecata una preziosa occasione per poter ricordare (ed onorare) un concittadino degno e perbene. La direttrice Massa, infatti, senza lasciarsi suggestionare da fantasiose proposte né da pseudo democratiche intenzioni referendarie, propose e, con mano agile e ferma, riuscì a dare un nome alla “sua” scuola, restituendo prestigio a un Maestro, che quella scuola l’aveva onorata con passione, umanità e grande cultura.
A distanza di anni, però, capita, spesso, che il nome di Raffaele Arfé sia ancora confuso con quello del figlio Gaetano o che, addirittura, sia proprio sconosciuto a molti cittadini ed utenti.
Raffaele Arfé –nato nel 1884 a Napoli ed ivi morto nel 1956- era figlio di Gaetano, pittore e professore di calligrafia, vecchio repubblicano. Raffaele conseguì il diploma magistrale, iscrivendosi, poi, all’Istituto Orientale, nel capoluogo partenopeo, dove privilegiò lo studio delle lingue levantine, tra cui l’arabo ed il russo. Tradusse e pubblicò “L’orso gendarme”- una commedia persiana del primo Ottocento-, lavoro per il quale si guadagnò l’apprezzata attenzione di Italo Pizzi, un iranista fra i più illustri dell’epoca. Le lingue furono la sua vera passione: nei suoi lavori, infatti, non mancarono studi dal tedesco e traduzioni di fiabe, dal francese, per il suo unico figliolo. Dopo la prima guerra mondiale, infatti, alla quale aveva partecipato come tenente dei mitraglieri, Raffaele, nominato maestro a Somma Vesuviana, lì aveva sposato la collega Maddalena Maffezzoli, dalla cui unione, nel 1925, era nato Gaetanino.
Agli inizi del secolo scorso Somma Vesuviana vantava poco più di diecimila abitanti. I suoi figli migliori, nell’immaginario collettivo, erano quelli che combattevano e morivano in guerra: non importa se ad Adua, a Sciara Sciat o nelle trincee del Carso. Il 24 maggio del 1915, infatti, non per caso, un popolo festante, accompagnato anche dalla musica, aveva inneggiato alla guerra e si era accomiatato, alla stazione ferroviaria, dai giovani in partenza chiamati a “difendere la grandezza della Patria contro il secolare nemico”. Erano partiti circa tremila combattenti; di poco meno di duecento furono conservati i resti nei vari sacrari; di alcuni furono perse per sempre le tracce; i mutilati furono ottanta. La città aveva appena subìto (1906) l’onda distruttrice del Vesuvio; in compenso, aveva festeggiato l’inaugurazione dell’acquedotto del Serino (1913), che, con il serbatoio di Madonna delle Grazie a Castello, avrebbe garantito la fornitura dell’acqua a tutto il comprensorio dei comuni vesuviani.
Intanto, si annunciava il nuovo regime: Benito Mussolini, il duce, godeva già di largo seguito; le elezioni politiche del 1924 avrebbero assegnato, a Somma Vesuviana, alla lista del Partito Nazionale Fascista una maggioranza schiacciante: 1896 voti su poco più di 2000 votanti!
Negli anni che seguirono alla grande guerra, Raffaele Arfè non si limitò all’insegnamento. Egli fu tra i promotori, a Somma, di una scuola di avviamento professionale, a tipo agrario, che aveva tra i suoi alunni alcuni ragazzi ospiti di una “colonia agricola” e molti orfani di guerra. La scuola era stata intitolata ad Oreste Bordiga, professore presso l’Università di Portici, ma anche padre di Amadeo, il primo segretario del partito comunista; espediente, quello del nome, senz’altro “malizioso”, che, ben presto scoperto, portò alla sostituzione di Bordiga con quello di un giovane aviatore caduto nella guerra di Spagna. In quella scuola Raffaele curò l’insegnamento della lingua francese: la nomina gli era stata conferita grazie alla protezione dell’allora provveditore agli studi di Napoli, Aldo Finzi, ebreo ed antifascista “in pectore”. Contemporaneamente, Arfé si prodigò per istituire una biblioteca scolastica; cominciò, così –coadiuvato dalla moglie e dai colleghi Gaetano Angrisani, Lucia Ragosta, Albina, Egilda ed Olimpia Casolaro, Olimpia Feola, Matilde Darley, Maria Raia, Emilia Savino- a reperire volumi abbandonati negli scantinati e nelle soffitte delle chiese, dei conventi, delle case private. Furono raccolti testi antichi e dotti e molte “cinquecentine” provenienti da un fondo librario di una comunità di frati. In uno dei testi più antichi “De origine seraphicae religionis franciscanae”, (Roma, 1587), il cronista francescano Gonzaga aveva scritto che a Susuvio (Sub Vesuvio=Somma), un maiale, introdottosi in una cappella dedicata a S. Lucia, spaccando una lastra di pietra, aveva fatto scoprire altre due cappelle sotterranee ricche di immagini della Vergine Maria:”Quando tra l’ammirazione e lo stupore degli abitanti del luogo lo venne a sapere la serenissima Giovanna, che in quel tempo abitava a Susuvio, regina di Sicilia rimasta priva del suo legittimo marito alla morte di re Ferdinando d’Aragona, ottenne la suddetta cappella dal vescovo di Nola, sotto la giurisdizione del quale era posta, ad un prezzo che corrispondeva al suo valore, l’ampliò nel convento di S. Maria, alla quale era molto devota, con l’autorizzazione apostolica concessale da Giulio II, e l’affidò ai frati francescani osservanti”.
Nel 1924, il regime fascista si macchiò dell’orrendo crimine, che costò la vita a Giacomo Matteotti. Fu allora che Raffaele Arfé, antifascista e socialista convinto, nella sua qualità di Presidente della Biblioteca Popolare e Magistrale di Somma Vesuviana, il 16 dicembre dell’infausto 1924, anno II dell’era fascista, indirizzò una missiva a Velia Matteotti nella quale scrisse: “Gentile Signora, La modesta Sezione Magistrale di Somma Vesuviana ha deciso intitolarsi “G.Matteotti”. E’ un modesto contributo di affetto che i maestri di Somma vogliono rendere alla memoria del Martire, e son certi ch’Ella gradirà l’omaggio di chi deve preparare l’anima della futura Italia. Oltre di ciò, essi, i maestri di Somma Vesuviana, hanno deciso formare una Biblioteca Operaia Circolante “G. Matteotti”, perché credono che con sapere di cultura possa degnamente onorarsi l’Apostolo ed anche quest’opera che sorgerà faticosamente, poco per volta, sono certi che Ella la gradirà”.
Ma il ricordo di Matteotti era troppo ingombrante per l’apparato fascista ed il suo massimo esponente, Mussolini, che nel discorso alla Camera del 3 gennaio del 1925 con tracotante baldanza avrebbe detto: “Io dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto”.
E così anche la Biblioteca dei Maestri di Somma ebbe il nome cambiato, d’imperio, con quello più rassicurante e patriottico di Giosuè Carducci.
Raffaele Arfé fu socialista, di stampo turatiano e prampoliniano, sin dai giovani anni e fu tra i primi segretari della sezione socialista di Napoli. Egli rimase tale anche durante gli anni del regime, rifiutando fermamente la tessera del partito fascista ed esponendosi ad inevitabili discriminazioni. Aveva una visione ferrea dei principi e delle regole, quasi angosciante: quando l’11 novembre del 1925, infatti, nacque suo figlio, ne posticipò la denuncia, solo perché il compleanno del suo erede non avesse a coincidere con quello di Vittorio Emanuele III, il re fascista. Raffaele Arfé ispirò la sua cultura ai valori del primo socialismo italiano, fu difensore della natura e degli animali, femminista e pacifista. Per aver protestato contro l’abbattimento di secolari platani, che svettavano in piazza Trivio e che avevano dovuto, invece, far posto al campo sportivo, ebbe una severa e minacciosa ammonizione da parte del segretario del locale fascio. Egli fu tra gli artefici, a Somma -come a Napoli-, della ricostruzione del partito socialista dopo gli anni del fascismo: ne resse la segreteria e, per qualche anno, fu anche membro del Direttivo della Federazione Provinciale. Fu un iscritto alla massoneria, a quella antica, e fu interprete genuino dei contenuti etici di quella associazione, che mirava a bandire l’ignoranza, a liberare l’individuo da ogni pregiudizio e fanatismo religioso, a costruire una fratellanza universale.
Era difficile e pericoloso, in quegli anni, essere antifascisti. Arfé lo fu insieme a pochi altri che rispondevano al nome di Gino Auriemma, di Francesco Capuano, di Gennaro Ammendola e di Francesco De Martino, tutti giovani che gravitavano intorno a un circolo sportivo, il “Viribus Unitis”, nella cui squadra di calcio militò, fra gli altri, lo stesso De Martino. E quando l’Italia fu funestata dal barbaro assassinio di Matteotti, a Somma Vesuviana furono sempre e solo quei giovani a manifestare il proprio dissenso e la propria rabbia, issando una bandiera rossa sul campanile della chiesa di San Domenico.
Com’era la vita a Somma in quegli anni? Il paese viveva in una sorta di torpore ottocentesco; era così vicino eppure tanto distante dalla città di Napoli. Però godeva di aria buona e, perciò, era luogo di villeggiatura per i nobili, per i signori, per quelli che avevano i soldi. C’è ancora qualcuno che, testimone dei primi anni del secolo scorso, ricorda lo stupore per il volo di un aereo o per il passaggio di un’automobile. La Circumvesuviana era già in funzione, ma quanti potevano concedersi il lusso di acquistare un biglietto? Allora c’era lo sciaraballo –char à bancs- la diligenza, che in circa quattro ore conduceva a Napoli, per strade sconnesse, incrociando i carretti che erano partiti di notte, colmi di frutta e verdura, alla volta del mercato. C’era, poi, un unico telefono: era a manovella ed era presso l’ufficio postale. Non c’erano sale per divertimento; la vita associativa e culturale nasceva e si concludeva nell’unica farmacia o, al massimo, intorno ai tavoli della vecchia pasticceria.
Nella piazza grande del paese si celebravano le adunate fasciste. Lì, di sabato, si concentravano figli della lupa, balilla, avanguardisti, camicie nere. Un giorno, il 30 giugno 1935, anno XIII, in quella piazza giunse anche S.A.R. il Principe di Piemonte, per inaugurare il monumento alla memoria dei 162 combattenti di tutte le guerre. Da palazzo Indolfi avanzarono, allora, uno stuolo di belle ragazze in abito paesano; si posero lungo i lati della guida rossa che conduceva alla tribuna reale, impettite ed altere, alternandosi a grandi vasi di fiori. Erano, forse, le fanciulle più belle di Somma, scelte per censo, conoscenza diretta e fedeltà alla corona. Nel saluto pomposo il podestà Angrisani disse: “Levo il mio animo devoto all’augusta persona di S.M. il re Vittorio che condusse la nazione al glorioso cimento, a V.A.R che rappresenta l’orgoglio della nazione tutta per la certezza del più grande avvenire della patria, ed al Duce che riconsacrò sull’altare della Patria le glorie dei combattenti, caduti e superstiti, nello spirito della vittoria”. Il maggiore Bontraeger, oratore ufficiale della cerimonia, invece, disse: “Somma che vide durante i tempi della grandezza romana le quadrate legioni dell’Urbe passare per le sue terre nelle alterne vicende della guerra annibalica e della guerra di Spartaco, oggi, esprime dal suo seno legionari che faranno onore alla patria”.
La piazza fu tutta un esultare: “Viva il Re”,” Viva il Principe”, “Viva il Duce”.
In quella stessa piazza Trivio, il 10 giugno del 1940, quando le parole del Duce annunciarono, in modo inequivocabile, l’entrata in guerra –Popolo italiano: corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore! – ci furono nuove scene di gioia. Finalmente, immemore dei lutti antichi e recenti provocati dalle guerre, il Paese poteva accettare di nuovo la sfida del sangue, della morte; poteva sognare di essere un grande impero, vestendosi d’orbace, dichiarandosi razzista, immaginandosi ad allineare i cadaveri dei soldati nelle trincee e sugli affusti di cannone o a procurare violenze agli inermi civili, uomini e donne, vecchi e bambini.
Il numero degli antifascisti sommesi era diventato, intanto, sempre più esiguo. Alcuni – tra cui lo stesso Raffaele Arfé, Domenico Di Palma e Francesco De Martino- erano soliti riunirsi a casa di Gino Auriemma, per ascoltare le notizie da Radio Londra. Una sera di quel terribile 1940, in seguito ad una denuncia anonima, la squadra politica della Questura di Napoli sorprese i “sovversivi” ed arrestò Arfé, Auriemma e Di Palma, accusati di diffondere notizie provenienti da Radio Londra. La detenzione nel carcere di Poggioreale durò qualche mese. Poi, davanti alla commissione per il confino, fu celebrato il processo, che si chiuse con un provvedimento di “ammonizione”.
Finì l’immonda guerra. Ai primi di ottobre del 1943, un reparto di paracadutisti della divisione Hermann Goering, in ritirata da Napoli, mise a ferro e fuoco la città di Somma Vesuviana. Gli inermi sommesi subirono violenze e rapine; le iene tedesche entrarono nelle case, sottrassero ogni tipo di bene, appiccarono il fuoco, spararono all’impazzata. Furono trucidati tre poveri cittadini: Teresa Granato, Michele Muoio e Ciro Giannoli. Anche la casa degli Arfé, nella centralissima via Roma, proprio di fronte alla scuola elementare, non fu risparmiata. I tedeschi vi penetrarono, rubarono, sventagliarono colpi di mitra contro suppellettili, mobili e libri, quindi, condannarono al rogo centinaia di preziosi volumi accuratamente conservati da Raffaele Arfé.
La biblioteca di Arfé era ricca ed originale; contava classici greci e latini, opere di folklore napoletano, vite di santi e di letture religiose –quest’ultime provenienti da un lascito di uno zio canonico-, collane e riviste di varia eresia, protestanti, ebraiche, islamiche, grammatiche e dizionari di diverse lingue, classici della letteratura italiana e della storiografia, molteplici pubblicazioni socialiste.
A guerra finita il paese era allo sbando. La scuola elementare di via Roma era diventata l’alloggio per i sinistrati. Raffaele Arfé, allora, insieme ai suoi libri si preoccupò di mettere al riparo anche la biblioteca della scuola. Ed allora pesanti casse di rari volumi furono avviate da un’abitazione semibruciata ad una semidiroccata. A distanza di oltre sessant’anni, il figlio Gaetano ricordava con commozione: “Durante il trasloco, il carro tirato in più viaggi da un asino e mal difeso da teli impermeabili, fu colto da un temporale e alla fine si rovesciò su una strada di campagna. Sulle guance di mio padre scesero due lacrime”.
Bisognava resistere, sperare, ricostruire. Raffaele Arfé non si sottrasse all’impegno civico e politico. Da socialista e repubblicano egli si schierò a difesa del sindaco comunista Francesco Capuano, espressione del CLN, quando quest’ultimo fu fatto segno di un attacco da parte dei nostalgici monarchici. Fu sferrato, in quei lontani giorni, un vero assalto al municipio; invano Carlo Obici, venuto da Napoli, aveva tentato di spiegare agli inferociti assalitori cosa fosse la Repubblica. Le sue parole, anzi, erano state soffocate da una pugnalata alla schiena, che lo ferì in modo abbastanza serio. Gino Vittoria, napoletano ed amico del ferito, sparò all’attentatore di Obici; Raffaele Arfé, tra i protagonisti anche di questo evento, fu costretto, invece, a nascondersi nel fondo di un corridoio. Poi, Gaetano Arfé, il figlio, insieme ad Obici e Vittorio, attraverso i tetti, si misero in salvo verso Mercato Vecchio; nel paese fu dato fuoco alle sezioni del PSI e del PCI.
Erano altri tempi. Tempi di lotte. Tempi epici. Tempi di ideali e di passioni.
Erano tempi in cui Raffaele Arfé era intento alla ricostruzione del PSI locale. Erano tempi in cui il professore Arfé , da responsabile della sezione e secondo la propria sensibilità di repubblicano, nel 1946, sostenne la campagna referendaria contro la monarchia. Amico e compagno di Giovanni Lombardi, egli invitò la figlia, Vera, a tenere un comizio a Somma, perché quella donna rappresentava l’imperativo etico, l’impegno costante, la certezza di una coscienza socialista non adusa a progettare di saltare sul carro dei vincitori.
Nel 1947, poi, Raffaele aderì al partito socialista dei lavoratori italiani costituito da Giuseppe Saragat. Quindi, in collegamento con il Centro Italiano di Solidarietà Sociale, una organizzazione assistenziale, che era un’emanazione del PSLI, egli si impegnò nella difesa delle lavoratrici agricole, addette al trattamento delle noci e delle mele. Il suo altruismo lo portò, anzi, ad organizzare anche cooperative di lavoro e colonie marine per i figli dei meno abbienti.
La guerra era, ormai, alle spalle. Cominciavano gli anni cinquanta, quelli difficili della ricostruzione, quelli affidati al sogno di ripudiare per sempre le armi. A Somma Vesuviana, come in Italia, l’abiura delle ideologie passate divenne la nota dominante. Erano sopravvissuti, infatti, solo alcuni nostalgici monarchici e qualche incallito fascista, ancorato più ai fasti della gioventù che a quelli del regime. Erano cresciute le schiere di clerico-moderati; avevano avuto difficoltà a crescere i socialisti ed i comunisti. Indubbiamente, la città cominciava a trasformarsi. Si leccava e guariva non solo le ferite della guerra, ma programmava anche il suo sviluppo futuro. Solo che molti diritti di cittadini, facenti parti a pieno titolo della Repubblica italiana, venivano elargiti a guisa di concessioni. Così, gli allacciamenti idrici nelle zone periferiche del paese furono possibili solo se si garantivano i voti alle maggioranze democristiane; ogni opera pubblica era gestita come un favore personale e se qualcuno alzava un po’ la voce lo si invitava a considerare la condizione di “ chi sta peggio di noi”. Mai che qualcuno avesse detto “facciamo qualcosa per questo paese” senza prefigurare uno scopo recondito. In effetti c’erano già i prodromi dei fatti di quarant’anni dopo: i partiti politici -che avevano segnato la fase storica dell’organizzazione delle masse, la sede privilegiata dell’elaborazione delle idee, la fucina dei consensi alla nazione repubblicana- cominciavano ad appartenere sempre di più a famiglie ed a gruppi di notabili.
Raffaele Arfé non ebbe il tempo di vedere il compimento di questa trasformazione –ideologicamente parlando- in negativo; egli morì, infatti, in un giorno di aprile del 1956, a soli settant’anni. Troppo presto per spingersi un po’ più incontro alla fine del millennio, alle trasformazioni che il paese avrebbe subito con il boom economico, alle successive ed inevitabili crisi, ai successi ed alle diaspore dello storico partito socialista. Aveva avuto modo, però, di attraversare parte di due secoli e si era portato, sicuramente, nel cuore e negli occhi gli spari dei cannoni del generale Bava Beccaris sul popolo in agitazione, gli eccidi di due guerre, il biennio rosso, la violenza del fascismo, l’indimenticabile lotta di liberazione e l’affermazione dei valori repubblicani.
Aveva avuto modo anche di lasciare, però, una grande eredità: le motivazioni ideali sottese ad ogni comportamento, la coerenza, l’ethos politico di un certo mondo, il rispetto delle regole, i valori della solidarietà tra le persone e i popoli.
Date le distanze di tempo, quasi nessuno ricorda, oggi, Raffaele Arfé. Le rare fotografie in bianco e nero, sopravvissute agli anni, lo ritraggono in posa austera –lui alto in contrasto con la moglie bassina-, con una matassa di capelli bianchi, con gli occhialini da miope, in rigido doppiopetto scuro. Qualcuno ricorda che al suo funerale parteciparono altissimi personaggi della massoneria. Qualche vecchio scolaro ricorda anche che era diabetico e che le iniezioni di insulina gli erano fatte a scuola da un vecchio maestro, Vincenzo Vecchione. Un suo alunno, in particolare, ricordava che il maestro Arfé era accomodante, sempre pronto ad aiutare i ragazzi, non avvezzo alle bocciature come solenne punizione, come antidoto all’ignoranza. Da uomo ed insegnante integerrimo pretendeva la verità ad ogni costo; meglio dire subito che i compiti non erano stati eseguiti, altrimenti il quaderno poteva essere anche strappato. Questo era il maestro Arfé, un innovatore ante litteram, un insegnante che cercava di dare strumenti per capire e non verità dogmatiche. Un maestro, per quei tempi (ma forse anche per questi tempi), atipico, perché roso dal dubbio, perché tormentato dal ruolo di educatore, perché lontano dalla pedagogia e dalla didattica di regime. Ancora il figlio Gaetano (scomparso nel 2007) ricordava: “Dalle cose che mi raccontava mio padre, io scoprivo un mondo diverso da quello in cui vivevamo. Il primo stimolo a studiare la storia mi è venuto proprio dalla curiosità, che nasceva dalla differenza tra quello che ci dicevano a scuola e quello che mi raccontava lui, in maniera cauta, senza forzature. Mi rendevo conto che c’erano due modi di vedere la realtà”.
C’è un’etica socialista, che è stata la vera compagna di vita di Raffaele Arfé. E’ un’etica che, poi, ha fatto grande l’uomo e lo ha reso meritevole di un ricordo imperituro. Sia la pratica dell’insegnamento che il suo profondersi nella costituzione di una biblioteca civica e nell’impegno politico senza secondi fini possono, infatti, definirsi tutti atteggiamenti educativi tesi a far nascere o ad implementare una coscienza culturale nelle diverse componenti della società. Soggetti di interlocuzione, di confronto, di condivisione furono per Arfé non solo la cerchia comoda dei colleghi, ma gli operai, gli orfani, i reduci, i diseredati, gli incolti, in poche parole, i deboli. E l’azione di Arfé fu tanto più abile e meritoria in quanto agita alla vigilia del ventennio fascista, durante lo stesso ventennio ed alla sua caduta, senza remore, senza compromissioni e senza paura.
In ogni tempo è stato sempre più facile e remunerativo guardare il proprio orticello. D’altra parte, il ricorso all’isolamento nei momenti difficili collettivi o quello più facile del ricorso alla delega nei momenti delle scelte, è il comportamento di chi non intende assumersi le responsabilità personali e civiche, di chi vive nell’egoismo e nella certezza della validità dei motti “apres moi le deluge” o “muoia Sansone con tutti i Filistei”. Che è la pratica diffusa, pericolosa, anacronistica del fatalismo e dei fatalisti, degli indifferenti, degli agnostici, degli ignavi.
Le trasformazioni, i progetti di cambiamento necessitano non solo di grandi idee ma di uomini che sappiano farle camminare. Raffaele Arfé a buona testa aveva fatto accompagnare buone gambe; egli non si era innamorato solo delle parole, si era giocato la vita fino alla fine e sempre in posizioni scomode.
Il revisionismo storico non lo può certamente riguardare.