Semplice –ora- dire: me l’aspettavo! No, non ci pensavo e non me lo aspettavo. Rifiutavo il pensiero e rifiutavo anche l’attesa. Eravamo insieme -noi due, tu ed io- intreccio di un mosaico di cui già molte tessere sono andate perse. Quante volte ce lo siamo ricordati negli ultimi tempi! Un po’ per cronaca, un po’ per vezzo, un po’ per esorcizzare la nostre paure.
Questi ultime due o tre mesi sono stati riempiti solo di telefonate. Avevo insistito per venire a farti visita ma tu avevi sempre cambiato discorso. Ho intuito che il tuo voleva essere un dolore intimo (oltre che fisico) da non voler condividere con nessuno e non ho insistito. L’ultima telefonata te l’ho fatta venerdì 3 luglio, una decina di giorni prima della tua scomparsa. Non mi hai risposto ma dopo qualche minuto mi hai richiamato tu. Mi hai detto che il dolore era insopportabile, che ti toglieva il sonno, che non riuscivi a muoverti. Ho cercato di distrarti, di farti sorridere, raccontandoti amenità dei nostri amici. Ci siamo salutati, dandoci appuntamento a presto. Ma a presto quando?
Ieri mattina, ho saputo di te che già avevi perso conoscenza dal giorno prima. Fino, poi, al pomeriggio di oggi, quando da quel maledetto telefono la voce rotta dal pianto di Ciro, il tuo socio, ha sussurrato Enzo non c’è più!
Un lungo dolore. Come hai potuto prendere una decisione simile? Sei stato un egoista e non ti sei preoccupato di tutti quanti ti hanno voluto bene.
È bello e drammatico conoscersi da oltre sessant’anni e per oltre sessant’anni essere amici. Ti dicevo sempre che mi dovevi rispetto per la mia età. Io ero nato in gennaio, tu in febbraio dello stesso anno. Eri più piccolo.
Ho conosciuto te e la tua famiglia da sempre. A parte la scuola –all’asilo dalle suore, alle elementari in via Roma, alle medie in piazza Trivio, al liceo ad Ottaviano- la nostra è stata una conoscenza di famiglia.
Tuo padre, alto, imponente, con i capelli ondulati, la mascella scolpita, era un noto macellaio della nostra comunità. Era l’erede e poi egli stesso capostipite di una famiglia di onesti macellatori. Si chiamava Gennaro. Per la sua mole, però, era per tutti Gennarone, che nel nostro dialetto era stato trasformato in Innarone.
La domenica, ogni benedetta domenica, Innarone passava dalla pasticceria di mia zia Tittina e prenotava un vassoio di pasticcetti alla crema ed all’amarena. Diceva: Signorina, mandatemeli per l’ora di pranzo. La Signorina Tittina – o anche donna Concettina, la sorella di mia madre che aveva ereditato l’arte bianca del nonno- sorrideva, annuiva e rispondeva: Va bene, don Gennà, non vi preoccupate. Per l’ora di pranzo la guantiera di pasticcetti caldi, gli ultimi sfornati, sarà a casa vostra.
Toccava a me fare quelle consegne esterne, che non avrei mai voluto fare, perché mi vergognavo. Ero uno studente mica un garzone! Invece, di corsa passavo prima dalle sorelle dell’avvocato Ammendola per recapitare loro un vassoio di dolci e, quindi, arrivavo a casa tua. Dalla tua famiglia mi faceva piacere presentarmi con la guantiera di pasticcetti. Eravate seduti tutti attorno alla tavola. Tua madre, donna Giuseppina, faceva la spola tra la cucina e la sala da pranzo; tuo padre era seduto a capotavola con tutti i figli intorno. Sette figli più i genitori: un’allegra famiglia di nove persone. C’era sempre un buon odore di ragù, di braciole ed anche di carne arrostita, quella del primo taglio . Io e te ci scambiavamo uno sguardo di intesa, come per dire ci siamo visti anche oggi. Portavamo ambedue grossi occhiali da miopi e tu, se ricordo bene, avevi anche un leggero strabismo.
Ci saremmo visti di nuovo dopo pranzo, per ascoltare alla radio Tutto il calcio minuto per minuto e seguire i secondi tempi delle partite dalle voci di Nicolò Carosio, Enrico Ameri e Andrea Boscione. Io tenevo per il Milan, tuo cugino Ciro per la Juve; tu e tuo fratello Gaetano eravate interisti, la squadra mitica di Helenio Herrera. Anzi, quando giocavamo a pallone, in quelle interminabili partite iniziate nel primo pomeriggio e finite quando la palla non si vedeva più, tu eri Jair da Costa, perché come l’ala destra nerazzurra ti inventavi dribbling stretti e facevi gol su gol dopo aver scartato anche il portiere.
Il calcio, la nostra passione sin da piccoli. I sentieri sterrati, le strade in costruzione, i cortili dei palazzi erano i campi della nostra fantasia. Lì il pallone rimbalzava poco, perché era sgonfio e non avevamo una lira per comprarne uno nuovo. Lì tu ti esaltavi con la sfera tra i piedi. Lì c’era anche il più piccolo dei tuoi fratelli, Ciro, che, invece, giocava da portiere ed era anche molto bravo.
Siete stati una famiglia sfortunata. Ciro morì tre giorni dopo il terremoto dell’80. Fu una morte tragica e repentina. Poi, era morto un altro tuo fratello, Ciccio. Era stato un punto di incontro della nostra adolescenza provinciale. Aveva aperto un locale – un autentico buco, il buco di Ciccio– dove erano in funzione i primi flipper. Passavamo intere giornate a raddrizzare –con le mani, col corpo, con insensate spinte- il percorso di una pallina di metallo tra pistoncini e buche musicali, rincorrendo un tabellone segnapunti sino alla fatidica scritta game over, fine dei giochi!
Successivamente se ne era andata una tua sorella, Antonietta, e, quindi, un anno fa, era stata la volta di Gaetano, che aveva ereditato in tutto e per tutto il mestiere di tuo padre. Anche Gaetano era proprio un buono. Alto, magro, col camice bianco in macelleria, con giacca e cravatta a passeggio per la piazza del paese. Frequentavo il suo esercizio commerciale sin da piccolo; mi fermavo a parlare con lui intere serate. C’era un cartello nella sua macelleria con una scritta che non ho mai dimenticato: Anemia, deperimenti? Sempre carne sotto i denti!
Ti portavi la morte addosso, sempre. Accusavi mille malattie, consultavi infiniti medici, ingoiavi decine di compresse. Una per il cuore, una per la prostata, una per lo stomaco, una per la tosse… eri una specie di farmacia ambulante. Ogni volta che ci incontravamo, dicevi sempre di aver temuto che non avresti superato la notte, che non saresti arrivato al prossimo Natale, alla prossima estate, al nuovo compleanno. Ti prendevo, per questo tuo modo di essere, continuamente in giro. Dai –ti dicevo- è passato un altro Natale, un’altra estate, un nuovo compleanno e non sei morto. Tieni duro che ce la farai anche per il futuro!
Alle mie parole ridevi con quella tua risata da fumatore. Poi, ti distraevi parlandomi e parlandoci di amici comuni, di politica di paese, di calcio e di piccoli avvenimenti di vita quotidiana.
Sei stato sempre un signore dall’animo nobile e dalla mano aperta. Avendo caratteri simili, ci dicevamo, spesso, che eravamo proprio due scemi. Tu mi chiedevi a chi avessi fatto bene durante la settimana, intendendo dire se ero riuscito ad avere la pigione per il fitto dell’appartamento al terzo piano o se mi fossero stati restituiti dei soldi dati in prestito. Poi, mi raccontavi, ridendo, delle tue personali disavventure: la signora, che per evitare la fila alla banca di fronte alla macelleria, ti aveva chiesto in prestito cinquanta euro e non s’era fatta più viva; il cliente che aveva fatto una bella spesa di carne e ti aveva detto passo più tardi e non s‘era fatto più vedere o, se era tornato per una nuova spesa, tu ti vergognavi di chiedere di saldare il conto. E Maria? Passava ogni sabato sera con un trolley carico di merce. Era una mendicante. Il marito l’accompagnava in auto e aspettava che facesse il giro dei negozi. Ti irritava che entrasse nella tua macelleria, salutasse educatamente, si sedesse ed aspettasse che le fosse preparato il cartoccio. Dicevi: stasera la caccio via. Invece, come sempre, ti giravi dall’altra parte e invitavi a prepararle un pacco con salsicce, petti di pollo ed altro. Io ti guardavo sorridendo. Tu dicevi: che vuoi fare? poveretta, ha i figli piccoli.
La tua giornata la passavi seduto alla cassa della macelleria. Eri molto abitudinario. Di buon mattino eri al bar della stazione, da Rita, per il primo caffè; subito dopo il giornale: assiduo lettore del Corriere della sera e, talvolta, di qualche foglio sportivo oltre che di varie riviste. Il giornale lo sfogliavi sul piano della cassa, lo leggevi e lo rileggevi. Poi, fino a sera, quando non ti distraevi con una Settimana Enigmistica, quei fogli di stampa li riempivi di ghirigori sempre più minuti. Alla fine le pagine diventavano dei reticoli, come i pensieri e le preoccupazioni che affollavano la tua testa. All’interno dei reticoli, ogni tanto, inserivi dei numeri. Perché i numeri erano la tua passione, la cabala la conoscevi a memoria. Interpretavi i sogni, le parole senza senso dei tuoi avventori, i comportamenti particolari di personaggi particolari e trasformavi tutto in numeri, che giocavi al lotto. Con passione e maestria più volte ti ho sentito dire: il cavallo bianco fa 50; quello nero fa 3; se è grigio fa 25; se il cavallo è imbizzarrito devi aggiungere 20… Giocati una bella quaterna!
Dopo il giornale c’era anche qualche buon libro. Ti tenevi informato, amavi le buone letture. Ogni tanto mi chiedevi un titolo da prenderti in libreria. Qualche mese fa, siccome ti avevo sentito interessato, ti avevo regalato Numero zero di Umberto Eco, aggiungendoti, però, che a me non era piaciuto.
Non so da quanti anni non ti concedevi un giorno di vacanza. Anche nelle feste comandate o in quella settimana di ferragosto rimandavi sempre l’idea di trasgredire alla tua solitudine, alla tua tristezza, al tuo male di vivere. E, così, te ne restavi chiuso in casa non senza, però, passare dalla macelleria e recuperare qualcosa da mangiare per i randagi che soggiornavano lì fuori. Anche i cani conoscevano il tuo grande cuore. Ogni cane abbandonato veniva da te. C’era qualcosa che li guidava. Tu davi loro da mangiare, da bere e qualche carezza ed essi ti restituivano l’affetto e la riconoscenza con gli occhi, con le moine, con la fedeltà.
Se ad andare in vacanza ero io, spesso, ti telefonavo dal luogo in cui mi trovavo (qualche volta ti ho anche mandato una cartolina di saluti) e, al ritorno, ti raccontavo tutto quanto avevo visto. Eri sempre molto interessato. Ma non avevi mostrato mai tanta attenzione come, invece, era accaduto l’anno scorso, quando ti avevo raccontato del viaggio ad Auschwitz. Mi chiedevi continuamente dettagli: degli ebrei, dei reperti catalogati e museizzati, dei luoghi che li accoglievano, dei forni crematori, di Birkenau.
Se ti dicevo che sarei andato a un teatro o ad un concerto, promettevi che in una prossima occasione saresti venuto anche tu. Quando fu organizzato il concerto di Roberto Vecchioni a Napoli, al teatro San Carlo, ti presi il biglietto. Tu fosti entusiasta dell’idea. Ma avvicinandosi la data dell’evento –lunedì 21 maggio 2011- cominciasti a dire che non ti sentivi troppo bene, che era meglio soprassedere. Poi, la sera del concerto mi telefonasti dicendo che non te la sentivi proprio. Ti risposi: va bene, non fa niente, vengo a prenderti lo stesso!
Ti facesti trovare pronto ed elegante come sempre. Abito scuro, camicia bianca e cravatta a tinta. Indossavi anche un impermeabile bianco, come quello del tenente Sheridan, stretto in vita. sembravi un attore con quel tuo fisico alto, magro, diritto.
Fu una bella serata. Mi ringraziasti varie volte per quell’opportunità, per quel diversivo che eri stato costretto ad accettare solo per la mia caparbietà.
Eri di un paio di centimetri più alto di me e molto più magro (sempre molto attento a ciò che mangiavi: verdure, assenza grassi, attenzione alle proteine, ai carboidrati, una dieta da eremita anche se, alla fine, ingoiavi un paio di pacchetti di Marlboro al giorno!). Entrambi portavamo occhiali, eravamo pettinati con fila di lato –a sinistra-, avevamo la faccia un po’ squadrata. Da quando, insieme, avevamo fatto anche una campagna elettorale per le elezioni amministrative con la lista La Ginestra (bella e sfortunata), molte persone ci confondevano, scambiando le nostre identità: a te ti chiamavano Professore, a me don Vincenzo. Clamoroso il caso di quella nostra comune conoscenza –se ne è andata un paio di anni prima di te- che fuori al bar di mio cugino Armando mi aveva chiesto; don Vincè, dove posso trovare il professore? E tu, invece, mi avevi raccontato che, qualche tempo dopo, rivolgendosi a te, aveva detto: Prufessò, devo parlare con don Vincenzo, dove lo trovo? Noi ci sbellicavamo dalle risate, alimentavamo l’equivoco e ci rimballavamo le identità.
Avevi un bel sorriso. In certi momenti della tua vita –sempre segnata da drammi- avevi una serenità, che ti faceva sciogliere in un sorriso disteso. Come appari in quella foto, che ora tengo esposta nel mio studio –tra le cose care- , scattata la sera in cui festeggiammo i tuoi sessant’anni. Siamo insieme, io e te, davanti a quella torta al limone con la scritta 60. Ci divertimmo molto quella sera: oltre ai tuoi familiari e a Claudio, l’amico di sempre (il pazzo, come dicevi tu), c’erano sorridenti anche tuo fratello Gaetano e Natale, che se ne è andato esattamente sei mesi prima di te.
La morte te la sei portata sempre appresso. Anzi, sembravi ci convivessi e, se solo si allontanava di un metro, te la chiamavi continuamente.
Rievoco certi nostri pensieri, che ci raccontavamo ad alta voce. Spesso, di sabato sera, quando passavo a salutarti in macelleria e mi trattenevo con te un po’ di tempo -tu alla cassa ed io alla sedia vicina- facevamo voli pindarici dalle questioni di lavoro allo sport, dalla politica ad alcune sapide avventure di nostri amici e conoscenti. Poi, il racconto delle tue domeniche: ho preso il caffè, il giornale e, prima di rinchiudermi in casa, sono andato al cimitero… Ogni tanto parlavamo del silenzio, della pace dei cimiteri. Io ti raccontavo delle mie visite ai cimiteri alpini; poi, aggiungevo, mi piacerebbe essere sepolto nel cimitero di Ravello, con il mare di fronte e il sole tra i monti. Tu dicevi che non era possibile, bisognava trovare un’altra soluzione, perché quel posto era riservato ai cittadini residenti.
Ora non riesco a immaginarti in quel loculo posto sotto l’entrata della cappella di famiglia. Sono sceso in quell’ipogeo il pomeriggio in cui ti hanno lì inumato. Troppo buio, troppa solitudine e, forse, anche troppo freddo. Ma per questo non c’è problema. Indosserai il giaccone di pelle, quello imbottito o il cappotto color cammello, quello lungo, che tu portavi con la cintura stretta ai fianchi.
Che faccio ora? Non lo so bene. Ti interessa sapere se continuerò a passare per la tua macelleria? L’ho già fatto qualche giorno dopo la tua scomparsa. Ti ho rivisto seduto alla cassa con l’immancabile giornale, con i soliti ghirigori, con gli irrinunciabili numeri. E ti ho raccontato di come ho vissuto la scomparsa di un mio carissimo amico, di un quasi fratello, che conoscevo da sessant’anni ed al quale, sin da piccolo, io, nipote di pasticciere, la domenica, all’ora di pranzo, portavo una guantiera di pasticcetti alla crema ed all’amarena.
E tu mi hai, all’improvviso, interrotto: – allora, la pasticceria fa 63; se i pasticcini sono stati donati, devi puntare sul 40; se, invece, sono stati comperati, giocati l’86.
Poi, sorridendomi, hai aggiunto che ti farai trovare sempre là, seduto dietro la cassa, ad aggiungere tessere ad un mosaico scomposto.
- Ci sarò, stanne certo.
- Ma non venire soltanto il venerdì santo, per la processione dell’Addolorata o nelle serate fredde dell’inverno che verrà.
- Il venerdì santo…quanta gente fuori la tua macelleria per la processione…
- Quanto fa la processione? La processione fa 55. Se, invece, vieni solo per vederla, allora devi giocare 88..!
Fratello mio, non cambiare mai. Ti ricordo esattamente così.