Ai tempi della mia infanzia era proprio impensabile la plastica; nei miei ricordi, forse, nemmeno esisteva. I pochi giochi a disposizione erano di latta o di legno. Anzi, la scelta del materiale –la latta o il legno grezzo- aveva anche un valore legato alla classe sociale d’appartenenza, direi quasi di connotazione politica. Perché chi si poteva consentire giocattoli di latta doveva necessariamente appartenere ad una famiglia agiata; e, allora, fra i suoi giocattoli abbondavano le automobiline di marca americana, i piccoli aerei dotati di carrelli con ruote ed elica alla testa della fusoliera e piccoli cavalli semoventi con in groppa rigidi pistoleri del far west. Erano, grosso modo, gli stessi giocattoli che riempivano anche gli scaffali e le vetrine dei negozi d’elite nelle festività natalizie, come Leonetti a Napoli. Ma chi si poteva permetterne l’acquisto? Solo i “ricchi di famiglia”, che all’atto di esprimere il voto politico lo facevano quasi sempre per i partiti moderati, pure se conservavano una segreta simpatia per i fasti della monarchia ed anche per chi, in un tempo non lontano, aveva promesso di spezzare le reni alle nazioni vicine all’Italia o di far tornare l’impero sui colli fatali di Roma!
Il legno, invece, quando non ci si riferiva a quello finemente lavorato (maestosi cavalli a dondolo da sembrare veri, colorati mattoncini per costruzioni, variopinte marionette e maschere teatrali), era un materiale povero ed era di pertinenza degli ultimi della classe, dei derelitti, dei meno abbienti, dei figli degli operai e degli zappatori, dei Garrone e dei Rabucco (Antonio Rabucco, il Muratorino) da libro Cuore, i cui genitori, quasi sicuramente, votavano falce e martello, il partito di Baffone! Ed i giochi di quei predestinati all’umiltà non potevano non essere che di legno, grezzo o appena appena lavorato, talvolta ancora con la corteccia che ne avvolgeva l’anima.
Ai tempi della mia infanzia non si era accettati nella comunità dei pari se non si possedeva una fionda. Bastava un ramo di castagno o di ciliegio a forma di ypsilon; la ricerca del “pezzo pregiato” avveniva tra i boschi prossimi al paese e non era di difficile impresa. I legni di castagno e di ciliegio erano facili da lavorare ed erano resistenti alle deformazioni; quel legno si presentava in genere liscio e compatto e sosteneva bene le torsioni e le trazioni. Per cui un ramo ad ypsilon rappresentava la conquista di un ambito traguardo, un possesso che apriva la strada al mondo dei più grandi. La fionda per essere completa aveva bisogno di un elastico spesso, che si ricavava dal taglio circolare di un tubolare (la camera d’aria) inserito, un tempo, all’interno degli pneumatici delle automobili. Ad operazione ultimata, la fionda serviva per cacciare uccelli, colpire innocenti lucertole o farfalle, giocare a un tirassegno immaginario.
Quelli fra noi più fantasiosi (e bravi) riuscivano ad intarsiare la corteccia della fionda con le iniziali dei propri nomi o con disegni vari. Quindi, prima di completare “l’arma”, accendevano un fuocherello e facevano passare “l’agognato arnese” velocemente attraverso le fiamme. Il fuoco serviva a rendere definitivamente indeformabile la fionda, conservandone, allo stesso tempo, l’elasticità e la compattezza. Quello del passaggio tra le fiamme era un insegnamento ricevuto dai nonni: essi, infatti, erano soliti così modellare i bastoni di castagno, quelli che usavano per accompagnare l’avanzata degli anni.
Ai tempi della mia infanzia, in ogni stagione, poi, si lanciavano sfide con un innocente strummolo, una trottola di legno molto artigianale. La goffa pera danzava, girando vorticosamente su se stessa, sui basoli delle strade, tra le vene dei sampietrini, i cazzibocchi, sull’acciottolato della piazza. Lo stombolo di fra Jacopone roteava, poi, nel palmo della mano di chi fra i ragazzi era più abile ad innalzare quel trofeo, che, sempre roteando, ridiscendeva lì, da dove era salito. Prima che un truce colpo non ne interrompesse la danza sbilenca. Iniziava, infatti, in quel momento un altro gioco. La trottola non doveva più girare. Si stava giocando a spaccastrummolo. Un’altra trottola, infatti, veniva lanciata, con mano ferma e sicura, non per cominciare una nuova danza, ma per colpire al cuore lo stombolo che già stava girando. Era un vero tripudio per chi ci riusciva.
In tempi di vacche magre lo strummolo/stombolo veniva costruito in modo artigianale dalle mani esperte dei fratelli più grandi o anche dei nonni, che utilizzavano un pezzo di legno semiduro di limone, di olivo o di quercia. Quindi, il legnetto veniva tornito con delle scanalature (necessarie per avvolgere lo spago) e completato con un piccolo foro alla punta, dove si inseriva un chiodo fino a lasciarne fuori circa un centimetro, che, previa molatura, avrebbe garantito allo strummolo/stombolo di girare su se stesso.
Al tempo della mia infanzia, anche quando non c’era vento dovevano sempre volare gli aquiloni. Allora si chiamavamo comete, come le stelle, con una grande testa, con una chioma nebulosa ed una coda di vari colori. È vero, si ignorava ogni riferimento astronomico ma si sapeva costruirli proprio ben chiomati quei fantastici aquiloni. Si usavano carte veline dai colori forti; con arte si ricavava una forma come un parallelogramma. Gli angoli opposti, quelli della diagonale minore, erano tenuti da un arco formato da una stecca; gli altri due angoli opposti, invece, erano solcati da una lunga stecca diagonale. Ogni pezzo era incollato alla carta velina. Le stecche erano gli avanzi di vecchie persiane avvolgibili, che venivano cercate in ogni ripostiglio di famiglia, tra i rifiuti, negli alvei nauseabondi, nelle soffitte, tra impolverate casse imballate e ceste di vestiti smessi. La colla, invece, era fatta con un miscuglio di acqua con farina, che a volte veniva troppo denso e a volte eccessivamente rado. Un sottile ago serviva a cucire un cappio di cotone, per legarvi il filo della cometa in libramento. Allora ignoravamo ogni poeta, ma le voci uguali si rincorrevano: “ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza, risale, prende vento, s’innalza e ruba il filo dalla mano”.
Si era tutti col naso in su: alcuni aquiloni volavano alti, sembravano lambire il cielo; altri, invece, o non riuscivano ad alzarsi o picchiavano continuamente in basso. Montavano, tra i ragazzi, la gioia, la rabbia, la delusione. Il successo del volo era assicurato dalle proporzioni esatte del parallelogramma di carta velina, dalla distribuzione equilibrata delle lunghe e variopinte code (sempre di carta velina), e dalla garantita flessibilità dei legnetti di bambù, specie in tempi in cui –in assenza di negozi di modellismo- a noi ragazzi era ignota l’esistenza del legno leggero di balsa o del ramino.
Al tempo della mia infanzia molto diffuso –anche per la facilità di costruzione e di reperimento dei materiali- era il gioco della lippa (a seconda delle varietà regionali, di volta in volta chiamato mazza e pivezo, mazza scudo, bastone e nizza, mazz ‘e scuzz, ciaraméla, a pesticchie); occorreva una mazza (ricavata normalmente da un manico di scopa) lunga tra i 50 ed i 70 cm ed un pivezo (da una antica voce greca pilos = bacchettina, fuscello) di max 20 cm, con le estremità affusolate. Il gioco consisteva nel colpire un’estremità del pivezo con la mazza e successivamente assestare un colpo a volo, tentando un lancio quanto più lontano possibile.
Al tempo della mia infanzia un ultimo giocattolo in legno (ma con meccanismi già più moderni) era il “Pulcinella suona piatti”. La piccola riproduzione della maschera napoletana (in cartapesta) era posta su una base di legno sotto cui erano posizionate due ruote, anch’esse di legno, che si azionavano grazie ad un manico dello stesso materiale della lunghezza di un metro, attaccato alla base. La pressione sul manico generava il movimento delle ruote e del piccolo pulcinella, che suonava ritmicamente due piattini in alluminio fissati alle mani.
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Al tempo della mia infanzia Peppino era un vecchio falegname, indicato con l’antico termine di masterascio, maestro d’ascia. Aveva bottega di fronte alla casa dei nonni e ogni volta che passavo da lì non potevo fare a meno di sbirciare all’interno di quel meandro. Perché era proprio un meandro, come un’ansa di un fiume, in cui c’erano arnesi del mestiere, pezzi di legno, sedie sgangherate, tavoli con piedi scorticati o spezzati, ritagli di legno sagomati, sacchi di segatura. Peppino era figlio d’arte, suo padre era stato falegname, suo nonno era stato falegname ed anche il suo bisnonno. Con le mani, la pialla e la sega era capace di modellare qualsiasi oggetto; il legno sembrava piegarsi al suo volere in modo servile ma compiaciuto di cotanta arte.
In occasione del carnevale diventava un vero spettacolo; Peppino, infatti, nei giorni che precedevano il martedì grasso metteva mano alla costruzione di un fantoccio di legno con sembianze umane; poi, lo vestiva con abiti smessi, giacca, camicia, cravatta e cappello; lo sedeva su una sedia davanti a un tavolo e all’ora del desinare, gli faceva compagnia, mettendo sull’improvvisato desco un piatto di fumanti polpette al sugo ed un fiasco di vino rosso. Mangiava e parlava, beveva e parlava, fumava e parlava col suo commensale. Sì, perché Peppino, non solo con il fantoccio, ma con tutti i pezzi di legno della sua bottega parlava, si confrontava, si irritava o anche rideva. Il legno, per lui, aveva un’anima (oltre che un corpo). Sceglieva, infatti, ogni pezzo con pazienza, con ostinazione e, poi, metteva mano all’opera d’arte. Ogni prodotto era un vero capolavoro, sofferto, sudato, desiderato, ottenuto. Sembrava quasi che quel prodotto fosse nato da un’intesa tra il mastro d’ascia e il pezzo di legno, una sorta di concordato o di patto matrimoniale!
- Vuoi tu, legno di faggio (o di noce o quercia) diventare un tavolo, una sedia, un mobiletto da cucina, un’angoliera da salotto…?
- Sì, lo voglio.
- Allora assecondami nell’opera; non sottrarti al mio estro. Non ti farò del male; sei sangue del mio sangue…
- Son pronto a seguirti ovunque e in ogni tuo desiderio. A te mi affido con grande fiducia.
Guiduccio, invece, era molto più giovane di Peppino; aveva il suo laboratorio di falegnameria in un sottoscala e non aveva tutta l’attrezzatura richiesta per prodotti al passo coi tempi. Faceva, perciò, solo piccoli lavori precisione. Però anche lui parlava col legno. Anzi, dovendo lavorare di precisione, squadrava, ritagliava, incollava piccoli pezzi, che maneggiava con l’attenzione che si riserva ai bambini, per paura di far loro del male, col sorriso sulle labbra, come per raccontare una favola.
Peppino e Guiduccio erano un po’ come mastr’Antonio, che tutti chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura.
Maestro Ciliegia di un famoso pezzo di legno (un po’ ribelle) voleva farne una gamba di un tavolino. Ma quando prese l’ascia arrotata per levargli la scorza e digrossarlo, sentì una vocina sottile ma decisa.
- Dio misericordioso, allora è vero che il legno parla!
- Non mi picchiar tanto forte!
- Sicuro, legno, che parli?
- Ohi! Tu m’hai fatto male!
Poi, arrivò mastro Geppetto e quel pezzo di legno diventò Pinocchio, un burattino meraviglioso che, nelle intenzioni del vecchio Polendina (il soprannome dato a Geppetto, che portava sempre una parrucca gialla come il granturco) doveva saper ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali.
Quando Polendina tornò a casa, si pose subito a intagliare e a fabbricare il suo burattino, a cui intendeva dare il nome di Pinocchio. Quindi cominciò a lavorare il legno, modellando subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi. Fatti gli occhi, figuratevi la sua meraviglia quando si accorse che gli occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso.
- Occhiacci di legno, perché mi guardate?….
Poi al tempo della mia infanzia, all’improvviso, giunse un altro tempo: quello dello studio, dei libri aperti fino a tarda ora, delle interrogazioni e dei quattro meno meno.