È successo verso le sei di stamattina: per un paio di minuti mi sentivo la testa scoppiare, il cuore accelerato, una improvvisa secchezza alla bocca. Avevo appena saputo della scomparsa di Corrado Sfogli. Ho sentito come la mancanza di una persona di famiglia; poi, è sopraggiunta –mentre una indescrivibile forma di malessere mi invadeva le gambe, le braccia, lo stomaco- una sensazione, che si prova solo quando si subisce un tradimento.
Appena ieri pomeriggio mi era arrivata la prima copia di un mio lavoro su la “Terra di Somma”; in questi drammatici giorni dominati dal coronavirus si era aperta, come per incanto, una finestra di futuro. Avevo cominciato a pensare alla fine del tunnel, alla ripresa di una vita normale, alle persone che si incontrano di nuovo, si abbracciano, discutono, litigano, si rappacificano. Avevo pensato a come organizzare la presentazione di questo nuovo libro. E mi ero detto che dovevano essere necessariamente presenti –con la loro musica ed i loro ricordi della terra vesuviana- Fausta Vetere e Corrado Sfogli.
Difficile parlare di due persone come lui e Fausta con nomi separati. Per me non siete mai esistiti da soli; né potevo parlare di uno dei due senza parlare dell’altro. A un certo momento eravate diventati una sola persona, con un solo nome FaustaCorrado o CorradoFausta.
Conosco Fausta e Corrado da quasi cinquant’anni. Pronubo del nostro primo incontro fu Giovanni Coffarelli. E gran parte dei nostri successivi appuntamenti si sono avuti tutti a casa di Giovanni. Mentre la moglie, Rosa, preparava la minestra maritata (Corrado ne andava pazzo), Giovanni sciorinava i suoi progetti, intonava canti a figliola e canti alla potatora. Di norma, io e Corrado ci sedevamo sempre vicini e, tra una discussione e l’altra, costruivamo, suggerendocele all’orecchio, frasi infinite con i paraustielli soliti di Giovanni. Spesso, a quel nostro stesso tavolo erano seduti anche Roberto De Simone, Paolo Apolito e Amato Lamberti.
La Nuova Compagnia di Canto Popolare era venuta ad esibirsi per la prima volta a Somma Vesuviana nel 1974. Fu subito amore, perché per quei tempi la musica popolare diventò, con la sua novità, una indescrivibile passione. E, poi, allora, era molto attiva la ricerca culturale promossa sul territorio dall’ARCI; e così con la NCCP erano arrivati, nel centro storico del Casamale, anche Concetta e Peppe Barra, Eugenio Bennato e –in anni più avanti- persino Giovanna Marini. Da quel lontano 1974, quindi, nessuno occasione fu trascurata per approfondire/ricercare/parlare di cultura popolare.
Corrado era un uomo colto, di grande sensibilità, simpatia e disponibilità. Mai che una volta avesse dato una risposta adirata o avesse pronunciato una parola fuori posto. Sempre pronto a raggiungerti in qualsiasi posto, sempre pronto a collaborare, a dare il suo contributo. Bastava alzare il telefono.
In occasione del bicentenario dei fatti del 1799 – allora il Salone del Libro (che si chiamava ancora Galassia Gutenberg) si teneva alla Mostra d’Oltremare- alla presentazione del mio testo sulla rivoluzione c’erano Fausta e Corrado. In un’atmosfera di grande emozione, dopo l’esposizione del lavoro, Corrado tirò fuori dalla custodia la sua chitarra e Fausta intonò Serpe a Carolina e Il canto dei Sanfedisti. Si ripetettero, quando fummo chiamati, insieme, a ricordare prima Gennaro Albano (zi’ Gennaro ‘o gnundo) e, poi, Giovanni Coffarelli (‘o pignuolo).
Era nata, negli anni, una fraterna amicizia. Magari in un anno ci vedevamo o ci sentivamo un paio di volte soltanto, però, poi, ogni reincontro diventava una festa. Lo fu in una notte di un freddo dicembre in un teatro di Caivano (Sei un pazzo a stare qui con questo freddo); lo fu in una calda notte di ferragosto, con i fuochi a mare, sulla spiaggia nera di Torre Annunziata (Che bella sorpresa; fate passare dietro il palco, sono amici nostri); lo fu -per caso, inaspettato e festoso (“Cosa fai qui?”. “Sono venuto a sentirti.” “Fausta, vedi chi c’è?”), in una piazza di Firenze.
Corrado era molto legato alla terra di Somma Vesuviana. Al seminario organizzato su “L’eredità culturale di Giovanni Coffarelli” –tra le parole di antropologi, letterati ed etnomusicologi- ci tenne, infatti, con grande modestia e sensibilità, a raccontare “come Somma e Vesuviana e la presenza di Giovanni Coffarelli sia stata determinante per la nascita di un brano che noi abbiamo chiamato “Chi è devoto” e che abbiamo poi registrato nel nostro cd “La voce del grano” […] Ci siamo ispirati all’ascesa al ciglio, al picco del Somma. Siamo entrati con quegli uomini nella loro e nella loro fede […] Questa è per noi l’eredità culturale di Giovanni, questo è quello per cui gli dobbiamo essere grati: di avere sollevato i veli, di averci fatto conoscere ed amare questa nostra terra, questa diversa storia di cui dobbiamo soprattutto essere fieri”.
Per l’ultima festa delle lucerne (2018) invitai Corrado a scrivere una sua testimonianza, che, poi, insieme a quella di altri amici pubblicammo in un volumetto. Fu, come sempre, sollecito. E, con quel sua risata contagiosa, discusse di quella edizione della festa come di una manifestazione popolare “giunta sino a noi da epoche remote, però modificata da numerosi “tradimenti”. Il tradimento è spesso l’aggiunta di un elemento non presente dall’inizio che, dopo un certo periodo consolidato di tempo, si trasforma da tradimento in tradizione”.
Caro Corrado, con la tua scomparsa sei diventato, anche tu, l’emblema del tradimento e della tradizione. Tu hai tradito, ti sei consegnato al nemico, alla signora in nero in un momento in cui si è costretti a morire da soli. L’hai fatto, però, nel tuo stile, con discrezione, signorilità, nobiltà. Sei stato un traditore (nel senso di sleale) per le persone che ti amavano e ti amano, ti stimavano e ti stimano.
Però sei entrato nella tradizione, ti sei consegnato oltre, hai fatto in modo, cioè, che la tua identità abbia certezza di sopravvivere per sempre a te stesso. Per la tua cultura, per la tua sensibilità, per la tua innata capacità di donarti nell’amicizia.
Mi dispiace, Corrado, di non averti potuto salutare per l’ultima volta. Conserverò di te le nostre facezie e le nostre cose serie, le risate e le cene, il gesto della mano per sistemare i tuoi capelli candidi. E tutta l’emozione che sapevi trasformare in musica.
Ma cosa sei stato capace di combinare! Ora te lo ripeterà, con un suo paraustiello, anche Giovanni Coffarelli: “Corrà, è ghiuto ‘o treno dint’’e fave”.
Ti voglio bene.