Conobbi Fabrizia Ramondino nel corso dell’edizione 1992 di Galassia Gutenberg, che, allora, si teneva ancora nei saloni della Mostra d’Oltremare a Fuorigrotta. Approfittai della mia vecchia amicizia con Eleonora Puntillo, per avvicinarla, mentre si intratteneva al bar con la giornalista napoletana. Mi apparve, inizialmente, una persona abbastanza scostante, così che –dopo i convenevoli di prassi-, quando le chiesi di parlarmi del periodo della sua permanenza a Somma Vesuviana, rispose, in modo brusco ma chiaro, che una scrittrice i suoi ricordi li affida alle pagine dei libri. Come a dire: “non abbiamo niente da dirci, se proprio vuole sapere qualcosa, legga quello che ho scritto”. E di Somma Vesuviana, a dire il vero, si trovava traccia abbondante in “Althénopis” (Einaudi, 1981), in “Star di casa” (Garzanti, 1991) ed in qualche altro racconto.
Nonostante quell’impatto un po’ raggelante, grazie soprattutto alla mediazione di Eleonora, mentre tutti insieme sorseggiavamo un caffè, cominciai a scambiare qualche parola in più con la Ramondino. Poi, parlando di alcune vicende accadute a Somma negli ultimi tempi, come se un momentaneo flash le avesse acceso un improvviso ricordo, mi chiese: “E Paola…Alberto Angrisani, come stanno?”. Si sciolse d’incanto quella sua rigidità, mostrandosi più incline a parlare, più disponibile a ripercorrere gli anni della sua permanenza sommese. E, quasi, a temere che i fantasmi della sua memoria potessero perdersi tra la folla di Galassia, aggiunse: “Se le fa piacere, venga a trovarmi a Itri”.
E io ci andai a Itri. Lo feci in una tarda mattinata di febbraio; era un mercoledì 26 e c’era un sole già primaverile. Percorsi l’Appia ed arrivai a Formia col suo mare dallo scintillio accecante. Poco più avanti, al bivio per Fondi, mi arrampicai verso il paese di Fra’Diavolo, nell’antico territorio degli Ausoni. Una volta a Itri, mi infilai in un meandro di viuzze; quindi, lasciata l’auto sulla piazzetta, in alto, di fronte al vecchio castello della nobile famiglia Dell’Aquila, proseguii a piedi. Non ebbi difficoltà a trovare lì, nel cuore del minuscolo centro in provincia di Latina, l’abitazione di Fabrizia Ramondino. Ci arrivai, devo dire, con grande facilità, perché la scrittrice era stata molto precisa nel darmi le indicazioni. Bussai. Mi accolse, questa volta, con un bel sorriso, che le illuminava quel volto abituato da tempo a giocare a nascondino sotto un caschetto di capelli grigi. Mi tese la mano e mi condusse, quindi, verso un lindo e silenzioso soggiorno. Ci sedemmo uno di fronte all’altro; bevemmo un caffè, ben ristretto (secondo la tradizione napoletana!); lei si accese una sigaretta –ne avrebbe fumate parecchie-, poi, con una voce impastata di nicotina e catrame, cominciò a infilare parole come perle in una collana di ricordi. E io mi ritrovai ad entrare, portato per mano da chi le aveva partorite, tra pagine che grondavano di nostalgia, di profumi adolescenziali, di sogni virginei.
“Sono arrivata a Somma Vesuviana nell’autunno del 1950, dopo la morte di mio padre, console in Francia, avvenuta nel marzo di quell’anno. Con mia madre eravamo io, mia sorella Annalisa e mio fratello Giancarlo. Eravamo passati, all’improvviso, da una situazione di agio ad una di relativo bisogno. Vivevamo, dopo la scomparsa di papà, solo con i proventi di una misera pensione. Una mia zia, cugina di mia madre, sposata ad un Cutolo, ci aveva procurato un alloggio in una villa del Casamale, di fronte alla chiesa della Collegiata. Lì siamo rimasti tre anni, fino a quando mia madre non riuscì a sistemare meglio le nostre cose, perché potessimo tornare ad abitare a Napoli”.
Fabrizia Ramondino era nata a Napoli, nel 1936, nei giorni in cui aveva avuto inizio la guerra di Spagna. Aveva trascorso la prima infanzia a Palma di Maiorca, terra in cui suo padre aveva assunto incarichi nei palazzi della diplomazia. Nella terra catalana aveva frequentato i primi anni di scuola, fin quando, dopo l’8 settembre 1943, non aveva dovuto far ritorno in Italia e si era trasferita ad Amalfi. Dal mare salernitano, poi, tutta la famiglia di Fabrizia si era spostata a Chambéry, nel dipartimento della Savoia della regione Rodano-Alpi. Quando era sopraggiunta la morte del console Ramondino, c’era stato il mesto ritorno in Italia, nel borgo antico di uno sperduto paese dell’hinterland napoletano, a Somma Vesuviana.
Il Casamale della metà del secolo scorso –con le sue strade sconnesse, le pozzanghere d’acqua piovana, i panni stesi al sole, i canti contadini, la conserva di pomodori messa ad essiccare al sole, le controre delle ricamatrici- era apparsa alla giovanissima Fabrizia come una realtà in notevole ritardo rispetto al fluire della storia e del progresso. D’altra parte, tutto il paese vesuviano era come in catalessi; pagava il dazio alle ferite dell’ultima guerra; i suoi ventimila abitanti, sparsi su un territorio vastissimo, si spaccavano la schiena –uomini e donne- al sole dei campi o arrancando tra le scoscese balze della montagna. L’abito buono, che ogni sommese indossava per le feste e per i funerali, era sempre quello del giorno delle nozze. Le uniche distrazioni concesse a quegli onesti lavoratori erano l’andare a messa la domenica, l’infilarsi dietro la processione dell’Addolorata o della Madonna della Neve, l’attardarsi sul muretto di casa nelle sere d’estate. A scuola, in quei tempi, ci andavano ancora in pochi; c’erano molti analfabeti. Coloro, poi, che avevano conseguito un titolo di studio all’Università degli Studi di Napoli erano nemmeno una cinquantina. Scandaloso che tra i laureati ci fosse anche qualche donna!
“Nel paese vesuviano dove trovammo rifugio dopo la morte di mio padre regnava in quegli anni un’atmosfera ottocentesca –russa- così mi pareva almeno confrontando i romanzi sulla provincia francese di Balzac e Mauriac con quelli russi, che leggevo con maggiore passione. La stessa casa che ci ospitava pareva essere stata appena abbandonata da un Oblomov. Sorgeva in cima a un rione antico e popolaresco che si chiamava Casamale, alle pendici della montagna, spesso d’inverno innevata, il Monte Somma, un vecchio cratere del Vesuvio, che nascondendo il vulcano, pareva solo un monte qualsiasi; né da dove era situato il paese si vedeva il mare. Avevo appena assaggiato in Francia il gusto del nostro secolo che mi ritrovavo ripiombata in quello passato: bracieri al posto dei termosifoni, tinozze per lavarsi al posto dei bagni, ragazze che sognavano fidanzati invece della libertà, contadini simili ai servi della gleba al posto degli operai. Niente mancava al décor russo: signori decaduti che vivevano in promiscuità con beghine e praticanti di casa; sotto il treno si era gettata un’adultera; vari Cicikov trafficavano in anime morte, promettendo di svolgere pratiche rapide a Roma per le pensioni di guerra; un grandissimo attore comico veniva ogni tanto in visita al suo castello, situato un po’ sopra la nostra casa, presentandosi come principe di Bisanzio; nelle gite invernali verso la neve non si sapeva mai, come in una novella di Cechov, se era stato il vento o l’amato a dire: ti amo. E le tirades delle zie, che ogni tanto venivano in visita, e trascorrevano da noi vari giorni, parevano quelle della generalessa Epancin contro il modernismo delle donne”.
“Viti rampicanti ombreggiavano la piazzetta antistante la chiesa, sempre chiusa, che veniva aperta per un’ora solo la domenica. La vite apparteneva alla parrocchia, ma coglievano quell’uva i bambini, quasi a risarcimento delle poche cure religiose che ricevevano. Lì intorno, nelle vecchie case abitavano i più poveri del paese, quelli che al mattino uscivano per offrirsi come braccianti o muratori a giornata nella piazza dei Mulini e che per cambiare condizione potevano soltanto sperare di emigrare. La sabbia del vulcano lambiva quelle case dove sui balconi in grossi barattoli di latta crescevano piccoli pomodori e margherite gialle. La sera i bambini si rotolavano in quella sabbia, che aveva coperto i basoli, e la sollevavano in un polverone nei giochi. Al mattino nella piazza sostava un carretto con in mostra povere verdure che parevano gli scarti della fertile campagna sottostante. Le donne uscivano raramente di casa, avevano un fazzoletto in testa, gli occhi cupi, arrossati dalla sabbia quando c’era vento. Quando a mezzogiorno arrivava il camion dell’acqua e chiamavano invano i figli perché venissero ad aiutarle, parevano indemoniate”.
La Ramondino, come in uno stato di ipnosi, attraversandomi con lo sguardo e scossa da un fremito di antiche emozioni, continuava a srotolare i fotogrammi della sua permanenza a Somma (che nell’immaginifica stesura di Althénopis aveva battezzato col nome di Frasca). Dentro di sé rideva ancora, lo si vedeva dallo scintillio degli occhi, raccontando di quella volta che “scendendo per la Cupa, che dal Casamale portava alla Piazza del paese, si avvicinò un giovanotto e mi disse: signorina, si vuole fidanzare con me?”. Era quello il paese del 1950! Certo, non si respirava la cultura d’oltralpe, ma si viveva dell’afflato dei vicini di casa, del reciproco soccorso sia per uno spicchio d’aglio come per un mal di denti; si viveva anche dei racconti delle ‘mbriane e dei munacielli, delle scampagnate a Castello e delle posture ammiccanti nelle danze popolari.
Quello “star di casa” vesuviano aveva segnato, soprattutto, il tempo di amicizie spensierate, di escursioni liberatorie sul monte Somma, di corse in bicicletta. “Tra gli amici ricordo, in particolare, gli Angrisani. La madre degli Angrisani, molto simpatica, era diventata amica di mia madre. Noi eravamo diventati amici dei figli Paola e Alberto, nostri compagni di gite e di giochi. C’erano anche altri amici, di cui ora mi sfugge il nome, appartenenti alla cerchia di Paola e Alberto. Spesso, insieme andavamo al mare a Torre Annunziata. Oppure li spingevo tra le balze del monte Somma o in bicicletta sino a Madonna dell’Arco. Nella comitiva dei miei amici c’erano anche i figli di Francesco De Martino; in particolare Armando, coetaneo di mio fratello. Ricordo ancora la casa delle sorelle De Martino, dove organizzavamo spettacoli teatrali, con giochi di travestimento ed esibizioni per le donne di famiglia”. Giochi innocenti, relazioni sincere. Il travestimento significava la trasgressione, l’immaginazione, il trasferimento in un mondo di sogni. Quei sogni pullulanti di principi azzurri e fate dai capelli turchini, con i personaggi dei romanzi in dissolvenza, come a dare corpo, sangue e anima alle ombre della fantasia.
“C’era in quel tempo anche il rosso dei belletti, non per uscire la domenica –non si usava nel nostro ambiente- ma per i giochi di travestimento e gli spettacoli teatrali. Ogni tanto infatti, come balzassi dalla poltrona dove ero immersa a leggere, scrivere o fantasticare, presa da improvviso e forte slancio vitale, animata da spirito di proselitismo, mi facevo organizzatrice di qualcosa, quasi volessi risvegliare me stessa e la gioventù sonnolenta di quella provincia. Mentre nelle mie letture di romanzi e di teatro non mi immedesimavo mai in eroina, solo in qualcuno dei protagonisti, quando mi mettevo a organizzare una pièce, il cui pubblico erano le zie e le signore del paese, mi piaceva invece travestirmi da donna, e mentre nella vita ero così selvatica da odiare il reggiseno e i reggicalze, per non parlare dei busti, che ancora si usavano, o almeno usavano alcune –e quanti se ne vedevano di immensi nelle domeniche in cui c’era mercato in piazza- , nel travestimento mi piacevano; e mi piacevano il rossetto, la cipria, il belletto, le ciglia finte, i nei, i capelli gonfi e rialzati, le velette; e sognavo di possedere un vestito nero e scollato come quello di Anna Karenina o bianco ornato di strass come quello della nonna giovane in una sua foto, per impersonare certi ruoli: i ruoli delle peccatrici, delle pentite, delle seduttrici: di quell’eterno femminino, nel teatro dei maschi. O organizzavo gite nelle feste natalizie sul Monte Somma: di lassù si vedeva la Valle dell’Inferno e lontano il mare, si poteva con l’immaginazione viaggiare negli Inferi o verso le Colonne d’Ercole- viaggi a ritroso nel tempo, per me, che già realmente, e non metaforicamente, ero passato per lo stretto di Gibilterra e che dalla morte di mio padre scendevo nell’Ade per ritrovarlo nelle schiere dei mendichi. In una gita ci fu di nuovo qualcosa di rosso: incauti ci eravamo avventurati fin sulla cima del monte innevata privi di attrezzature. Tutto scivolava sotto i nostri piedi, ci scivolarono di mano le provviste e rotolarono fino a valle le arance. A mia sorella si congelarono i piedi. Incontrammo dei giovani più grandi che su una barrella improvvisata la condussero nel santuario abbandonato dove accesero un fuoco. I piedi le ridiventarono rossi e passammo ore felici accanto al fuoco e ai nostri salvatori”.
Cosa c’era oltre il confine della Terra Murata? E quali mondi si aprivano oltre la piazza della Collegiata, le merlature del Castello D’Alagno, i misteriosi passaggi sotterranei delle tante regine Giovanna? Il paese non poteva finire lì, sarebbe stato troppo angusto, troppo limitato. Bisognava scoprire altri spazi e vivere altre emozioni.
“Sulla mia rossa bicicletta, che mi ero portata dalla Francia, incitavo i coetanei e le coetanee a smettere di girare attorno alle loro piazze e giardini e a esplorare i dintorni. Così ci spingemmo fino alla Madonna dell’Arco […], che era un paese lontano e esotico, si trovava quasi in Messico. Qualcuno usò il santuario per pisciare in un angolo negletto. Spendemmo una fortuna in gassose in un bar”.
In quel lindo soggiorno di Itri Fabrizia mostrava di avere piacere a ripercorrere il tempo della sua adolescenza sommese, ricostruendo ambienti, raccontando aneddoti, dando spessore ai sentimenti. E la politica? Ma cosa c’entrava la politica in un paese dell’entroterra vesuviano, a metà del secolo scorso? La politica la potevano fare solo gli uomini e nemmeno tutti. Le donne, da parte loro, impersonificavano i lavori domestici, l’angelo del focolare, i panni da lavare e da stendere al sole, il marito da servire e, quand’era il tempo, i figli da sgravare. Gli uomini, invece, erano il sesso forte, l’occasione per peccare, il lavoro che abbrutisce, il capo della casa, il padre-padrone. A scuola, maschi e femmine frequentavano classi diverse; in chiesa, le donne erano da una parte e gli uomini dall’altra: come nelle processioni, come per piangere un morto, come per festeggiare una nascita! Era ancora il tempo in cui i comunisti mangiavano i bambini e le Madonne lacrimavano nelle campagne elettorali. Era anche il tempo in cui i “consigli” sussurrati attraverso le grate di un confessionale avevano il valore di un comandamento. “L’amicizia tra uomini e donne era sconosciuta; i ruoli erano quelli definiti da una società maschilista. Passavo le mie giornate immersa nelle letture e nei sogni e mi sentivo, perciò, molto separata dagli altri. L’ambiente era stimolante, le stanze silenziose, il giardino… è stato, forse, quello il periodo della mia formazione alla lettura. Attraverso i libri mi si aprivano, allora, orizzonti più larghi che non per mezzo l’esperienza della realtà. O meglio, l’esperienza della realtà si allargava e si approfondiva attraverso la lettura dei libri”.
“Le ragazze potevano uscire con i giovanotti? Potevano insieme ai giovanotti di Frasca andare al mare? Era lecito frequentare dei giovani socialisti o addirittura comunisti? E –domanda più delicata questa, quasi sussurrata-, poteva l’amica dormire con la figlia nello stesso letto, o era meglio, quando veniva l’amica, che dormissero invece insieme le sorelle?”.
Era il tempo dell’incanto. Fabrizia sembrava doversi difendere dalle consuetudini e dalla cultura del luogo. E doveva, di conseguenza, attestarsi su un diverso livello culturale e su una diversa libertà di costumi. Bisognava respingere le immagini oleografiche, i modelli stereotipati; bisognava scardinare le usanze, gli atteggiamenti di una provincia ancora distante dalle mode di una società già rivolta a ripristinarsi (il boom degli anni sessanta!) nei costumi, nella cultura, nella partecipazione alle decisioni collettive.
Ma c’era un ricordo lontano, in quella Somma del 1950, che includeva anche le masse? “Il treno della vesuviana. Quel treno, affollato di lavoratori e studenti, che diede a me adolescente la prima nozione di cosa fossero le masse…E, poi, le elezioni del 1953, quelle contro la legge truffa. A Somma ci fu una vittoria dei socialisti…ricordo il corteo dei vincitori, con le bandiere rosse, che andavano a ringraziare la Madonna di Castello”.
“Anche gli uomini erano moltitudini: la folla dei braccianti che al mattino si avviavano lungo la Nazionale, quella degli operai che andavano nelle fabbriche dei Mulini. La processione e le feste religiose s’intrecciavano con i comizi e i cortei delle manifestazioni, tanto che nel ’53, per festeggiare la sconfitta della Legge Truffa, i socialisti, dopo tre giorni di liti e di contrattazione con i preti che non volevano accompagnarli, andarono in massa al santuario della Madonna della Montagna.[…] Nel treno per andare a scuola tutta la brigata di Frasca viaggiava nello stesso scompartimento, e dopo qualche scherzo, le risate e gli spintoni, le ragazze si appartavano in un angolo per fare un gioco. Ognuna doveva dire come immaginava il suo innamorato; alcune lo avevano, e noi lo sapevamo, ma lo vestivamo di così meravigliose sembianze che stentavamo a riconoscerlo; ce n’erano altre che non lo avevano e noi cercavamo di immaginare a quale dei nostri amici potesse corrispondere quella balbettata descrizione, perché il loro bisbiglio ci induceva a credere che fosse qualcuno di ben noto, che forse era lì nello stesso scompartimento; ci voltavamo allora indietro e c’era sempre lo sguardo di qualche compagno fisso nella nostra direzione”.
Certo, c’erano molte bandiere rosse. Agli inizi degli anni ’50 i socialisti di Somma, però, non avevano nemmeno una sede. Avevano dovuto cedere al locatore quella antica di via Turati e si erano appoggiati alla sezione comunista. Ma tra i due partiti della sinistra storica non c’era nessuna corrente di simpatia. I comunisti ironizzavano, continuamente, sui “socialisti del re”, perché consideravano, questi ultimi compagni, come militanti all’acqua di rosa. La sezione socialista, indomita e sdegnosa, si stringeva intorno a Francesco De Martino ed al giovane Gaetano Arfé, oltre che ai vecchi fondatori della cellula turatiana, del 1919, come Gino Auriemma, Ernesto Coppola e Vincenzo Marciano. I comunisti, da parte loro, mantenevano coerente linea di opposizione al governo dei moderati cattolici. Il paese tutto già viveva sotto l’ala protettrice della democrazia cristiana. Proprio in quegli anni cominciava la carriera amministrativa di un sindaco democristiano perdurante. Alle manifestazioni di lotta, per il possesso delle terre e la difesa del lavoro, sventolavano innumerevoli bandiere rosse; alle competizioni elettorali aumentavano sempre di più le preferenze per i candidati dello scudocrociato!
“In quel paese vesuviano in quegli anni c’erano grandi manifestazioni socialiste. E siccome i contadini e gli operai rimanevano cristiani, volevano che anche Cristo e sua Madre diventassero socialisti, come lo erano diventati i loro numerosi parenti. Perciò imponevano al parroco di salire al santuario guidando la processione in cui sventolavano insieme agli antichi vessilli anche le bandiere rosse. Il colore porpora rimaneva invece custodito nel vescovado e si intonava coll’oro e col glicine, con la luminosa evidenza e la dolce ombra sensuale. Per il pendio assolato l’ombra, tanto degli azzurri vessilli che di quelli rossi, era invece eguale e nera”
Quanti personaggi, oramai fantasmi, in quella Somma del 1950! Suore con abiti svolazzanti, pitocchi nenianti, beoni, cantatori di fronne, carrettieri, scopatori (non ancora netturbini né operatori ecologici), uomini e donne di fatica, venditori di fichi d’india, di gamberetti del fiume Sarno, di lupini, di caldarroste, di pannocchie. C’erano sicuramente personaggi “particolari”, alcuni dei quali, poi, sono rimasti indelebili nel ricordo. “Ho ancora viva l’immagine di uno stagnino che, allora, lavorava ancora come adesso fanno in Africa. Con le scatolette vuote di conserva, per modellare oliere ed altri oggetti. Questo stagnino emigrò, poi, in Germania…Un altro personaggio sommese è protagonista di un racconto pubblicato su “Il Mattino”, nel gennaio del 1987. È la colombaia. È Assunta Perna, nata a Somma Vesuviana nel 1910, appartenente a una famiglia borghese e, per sua scelta, randagia nei chiostri napoletani dei Girolamini o di Santa Chiara, a offrire pane secco e granturco ai colombi”.
“Gennaro non lavorava il rame, l’ottone o altri metalli pregiati, li riparava soltanto; lavorava invece la latta. I suoi due figli una volta la settimana giravano con un carretto per le case e per le campagne a comprare, a raccogliere tra i rifiuti o a farsi regalare i barattoli vuoti di pomodori, di olio o di altre conserve e con quella latta confezionava vari oggetti, oliere, misurini, tazze, ciotole, bicchieri, lumini, portacandele, perfino portaceneri; aveva poi esposto su una mensola della bottega un bellissimo calice di chiesa e un ostensorio che pareva d’oro. Per i bambini poi costruiva vari tipi di giocattoli. Con i barattoli più grandi faceva dei secchi; quando i recipienti non erano destinati a contenere olio li stagnava all’interno; quelli per l’olio e i giocattoli mostravano invece nella parte interna le marche dei prodotti, disegnate in vari e vivaci colori, perché lui usava nella lavorazione rovesciare il barattolo, così la superficie esterna era sempre dorata o argentata. Mio fratello e io trascorrevamo ore e ore nella bottega di Gennaro a osservare il suo lavoro; e mio fratello addirittura tentava a casa di imitarlo e di costruire anche lui quelle meraviglie. Ma durante l’ultimo anno del nostro soggiorno a Frasca cominciarono ad arrivare gli oggetti di plastica; già circolavano a basso prezzo i recipienti di vetro e di alluminio; e ormai solo le pizzerie ordinavano dei recipienti allo stagnaio, ma non appena gli affari andavano meglio li sostituivano con pentole di rame. Sicché rimase senza lavoro. Quel materiale inerte e indistruttibile lo indignava; e con rabbia ne bruciava dei pezzi per farcene sentire il puzzo. Un giorno chiuse bottega e ci disse: “Vado a vedere da dove viene tutta questa plastica”. E se ne andò nel Nord a fare il muratore, non ricordo se a Milano o in Germania”.
“I vecchi del quartiere la ricordavano giovane e bella, raccontano che era di buona famiglia e che cominciò quella vita dopo aver visto la Madonna. […] Era piccola di statura, tozza, robusta, curva, sempre vestita di nero fino ai piedi, con un mantello sulle spalle e in testa un fazzoletto annodato sotto il mento: aveva una faccia piena e pallida, labbra rosse, socchiuse in una sorta di smorfia, che ora esprimeva indignazione e disgusto, ora si volgeva in un sorriso garbato, mai in ghigno, nemmeno quando inveiva; occhi neri, grandi, mobili sotto la fronte alta e corrucciata, quasi sempre chini. […] Portava in spalla un grande sacco scuro pieno di tozzi di pane secco, e varie borse di stoffa le pendevano dalla cintola e dalle braccia. […] Come usava, e ha fatto fino all’ultimo, una mattina stava dando da mangiare ai colombi in piazza del Gesù. A questo le serviva tutto quel pane secco; […] La “Colombaia” era nata nel 1910 a Somma Vesuviana, apparteneva a una famiglia borghese e dopo la morte della madre era fuggita dal paese”.
Dopo che Fabrizia Ramondino e la sua famiglia erano tornati a vivere a Napoli, la città di Somma era rimasta solo un luogo della memoria. E la memoria, nell’elaborazione di una scrittrice, diventa una miniera di fantasmi, che si animano, si confondono, svaniscono, ritornano. Nel corso di quell’incontro a Itri, più volte la Ramondino mi ripetette: “Non amo tornare sul luogo dei ricordi”. E a Somma non era, in verità, tornata se non in due occasioni. Una, quando era stata candidata, come indipendente, nelle liste del Pci, alle elezioni europee del 1989. C’era stato, allora, un incontro pubblico e molti dei vecchi amici erano andati a salutarla; c’era stato anche il tempo per una passeggiata al Casamale, “che mi parve, almeno strutturalmente, non essere cambiato”. Un’altra volta, invece, Fabrizia era tornata a Somma Vesuviana agli inizi degli anni ’70. “Allora appartenevo ad un gruppo della sinistra extraparlamentare e, dopo il corteo di un 1° maggio, andammo alle pendici del monte Somma, in concomitanza con la festa della montagna. Rimasi molto colpita da una scena. C’era una zona sabbiosa dove i contadini avevano creato una sorta di recinto sacro con pali e festoni di foglie. Dentro il recinto si ballava una tarantella con un rituale molto arcaico e significativo. Le giovani donne stavano intorno; al centro ballavano gli uomini e le donne anziane, lanciavano sguardi alle ragazze ed ogni tanto invitavano al ballo una donna di mezza età. Queste ultime a volte accettavano; altre volte si schernivano, perché, secondo la mia interpretazione, ancora non avevano accettato di entrare nel mondo della vecchiaia”.
Le ore di quel 26 febbraio del 1992, in quella casa di Itri, scivolarono in fretta. Troppo in fretta. Quella voce narrante, infatti, sempre più impastata di catrame e nicotina, aveva assunto come qualcosa di mieloso, molto accattivante, intrigante.
Ci dicemmo poche altre cose, come vecchi amici. Poi, ci salutammo. Fabrizia Ramondino sulla porta mi disse: “Mi dispiace che è venuto sin quassù per così poco!”. Io, allora, approfittando che ormai si era definitivamente sciolta e mostrata disponibile al dialogo, pensai che sarebbe stata una buona idea invitarla a Somma Vesuviana; magari la sua presenza avrebbe potuto sortire il miracolo dell’aggregazione, della socializzazione, del confronto, dello stimolo, del coinvolgimento, della riflessione e, perché no, della critica. Lo feci e la sua risposta non tardò: “Per la verità mi sono tirata un po’ fuori dai tanti circuiti sociali e culturali, che mi richiedono. A Galassia Gutenberg sono andata per vecchi debiti contratti…sono stanca di tavole rotonde, convegni e premi letterari… Anzi… ecco, per questo ci verrei a Somma. Organizzate un premio per il lettore; lavorate a questa idea. Io potrei impegnarmi a farvi avere dei libri, a partecipare alla giuria, a un incontro pubblico…”.
All’incontro di Itri non ne seguirono altri. Ci scambiammo, negli anni, solo alcune telefonate; Ramondino ed io non ci incontrammo più, nemmeno a Galassia Gutenberg o in altre manifestazioni culturali. Ogni volta che usciva un nuovo libro della scrittrice napoletana, ero ansioso di leggerlo, alla ricerca di luoghi, immagini, personaggi, ricordi del tempo trascorso a Somma.
Di recente, avevo avuto modo di parlare, di nuovo, di lei e del suo impegno nell’ARN (Associazione Risveglio Napoli), con il sociologo Gilberto Antonio Marselli.
Fabrizia Ramondino è morta, all’improvviso, nel mare di Formia, il 26 giugno 2008, a 72 anni. Ricordo di aver appreso la notizia quasi in tempo reale. L’avevo ascoltata alla radio, in auto, mentre tornavo, da Casoria, dove avevo presieduto una commissione per gli esami di licenza media per adulti. Avevo pensato a lei proprio qualche giorno prima; ero in attesa del suo nuovo romanzo (La via, Einaudi, 2008), la cui pubblicazione era stata annunciata per il 28 giugno. Speravo, come sempre, di trovarvi una traccia di Frasca. E, poi, a essere onesto, dalla Ramondino mi sentivo culturalmente attratto: non solo perché l’avevo conosciuta di persona; non solo perché scriveva, dragando il mare dei ricordi. C’era qualcosa in più. Di Fabrizia mi avevano sempre colpito due aspetti (sicuramente anacronistici!), che sentivo un po’ anche come miei: una visione socialista della vita, ispirata ai valori dell’uguaglianza sociale, insieme ad una grande passione per i libri.
Anche Angelino Di Mauro, quando mi ha chiesto di scrivere queste poche note sulla Ramondino e sulla sua permanenza a Somma, mi ha raccontato che, “pur frequentando il giardino di casa Ramondino, al Casamale, dove c’era una palma i cui datteri utilizzavo come proiettili del mio fucile, Fabrizia non l’ho mai vista, perché era sempre chiusa in qualche stanza, assorta nella lettura”.
Quella improvvisa morte mi emozionò molto. Inevitabile che ritornassi col ricordo al soggiorno lindo e silenzioso di Itri e alla conversazione con Fabrizia. Rividi, come presente, la sua figura esile; incrociai nuovamente il suo sguardo profondo; riascoltai la sua voce roca. Appena a casa, poi, tirai fuori dallo scaffale “Star di casa”, il libro che avevo portato con me quel 26 febbraio del 1992. E rilessi, come per ripristinare un contatto (come diceva il poeta latino? Non omnis moriar!), la dedica, che la Ramondino aveva vergato per me, con quella sua scrittura minuta, esile, quasi diafana: “in ricordo di Somma”.