Mio padre era nato nel 1911 ed alla visita di leva –nel 1931- era stato fatto idoneo ed assegnato alla ferma minore di II grado, per motivi familiari. Aveva, poi, ottemperato ai sei mesi di servizio militare tra settembre del 1935 e giugno del 1936, quando era stato collocato in congedo illimitato.
Per l’imminente entrata in guerra dell’Italia, fu richiamato alle armi –il 27 maggio del 1940- e assegnato, nella Divisione Brescia, al 68° Reggimento Artiglieria Mitraglieri. Nemmeno il tempo di indossare i panni militari e fu imbarcato per il Nord Africa -27° Battaglione Mitraglieri- con destinazione Tripoli.
A distanza di pochissimi mesi, poi, nella battaglia di Agedabia, il 6 febbraio 1941, fu fatto prigioniero dagli Inglesi. Fu costretto, perciò, un po’ con camion e un po’ a piedi a superare pezzi del Sahara, vide compagni morire, si dissetò con l’urina degli animali. Fu condotto, infine, a circa quaranta chilometri di distanza da Pretoria, nel campo di internamento sudafricano di Zonderwater, luogo in cui gli Inglesi –tra l’aprile del 1941 e gennaio del 1947- diressero gli oltre centomila soldati italiani catturati nell’Africa settentrionale ed orientale.
Nel campo di Zonderwater mio padre non fu solo. Tra quei primi prigionieri ebbe, infatti, la fortuna di incontrarne alcuni di Somma Vesuviana. Fraternizzarono, piansero insieme, pregarono insieme, si scambiarono il pane ed il dentifricio (che si lanciavano oltre i reticolati), si raccontarono i sentimenti più riposti insieme alle storie di paese, per farsi compagnia.
In quell’indimenticabile anno 1941 la Pasqua cadeva il 13 di aprile. Quella volta –e chissà per quanto tempo, se non per sempre (ciascuno pensava in cuor suo)- il sabato in albis (il sabato dei fuochi) e il 3 di maggio (il tre della croce) quegli “amici ritrovati” sarebbero stati lontani da Somma, dai loro affetti e, soprattutto, dall’antica tradizione di ascendere la montagna, di salire sulla vetta più alta (il ciglio), di accendere i fuochi, di onorare (ma loro dicevano di salutare) la Madonna di Castello.
Quelle feste tradizionali, antica sintesi fra il sacro e il profano, costituivano il segno identitario di quei poveri prigionieri. Essi, infatti, erano nati e cresciuti nel culto della Madonna di Castello unito a quello della montagna. La Madonna era l’aspetto sacro, era la madre protettrice, la vergine a cui rivolgersi non solo nei momenti difficili della vita. In quel santuario posto a mezza montagna quella statua lignea ci abitava da sempre. Quell’immagine sacra aveva raccolto attorno sé numerose storie di miracoli, di lacrime, di gioie e di pene raccontate da spose con i mariti in guerra, da una comunità prostrata dalle sofferenze, dalle malattie, dalla miseria, dalla lontananza e dal futuro incerto di tanti loro consanguinei.
La montagna rappresentava, invece, l’aspetto pagano, fungeva da madre laica dei figli sparsi su quella terra. Aveva il compito di preservare il paese, nato alle sue falde, dal fuoco del Vesuvio. Ma la montagna era anche fonte di sostentamento per i tanti contadini del luogo, che, dopo essersi spaccata la schiena nel lavorare le sue dure zolle, ne erano ripagati con le delizie dell’uva catalanesca, delle mele annurche, delle albicocche e delle castagne. Ed, inoltre, quel monte –un tempo oasi di riposo di re e regine della vicina Napoli- era il custode di mille leggende fantastiche, di animali parlanti, di tesori nascosti, di sorgenti incantate.
A Zonderwater fu Lucio Albano, uno dei prigionieri sommesi incontrati da mio padre, a decidere che anche nel campo di prigionia la tradizione sommese non doveva essere interrotta. Lucio –che poi sarebbe diventato il più alto esponente della cultura popolare sommese col nome di zi’ Gennaro ‘o gnundo- conservava nel fondo di una tasca l’immagine della Madonna di Castello, che, Emilia, la giovane moglie, gli aveva messa tra le mani il giorno in cui era partito per la guerra.
Nella ricorrenza della Pasqua del 1941, dopo averne parlato con i suoi paesani, Lucio affidò, allora, quell’immaginetta sacra nelle mani di uno di quei derelitti, che, con tratti abbastanza felici e servendosi unicamente di una punta di carboncino, riuscì a riprodurla su un cartone.
Ne venne fuori una figura un po’ sbilenca della Vergine di Castello, assisa sul suo trono e con il figlio in grembo. Essa conservava, però, la tipicità somatica delle madonne contadine, lo sguardo indagatore e comprensivo delle donne vesuviane, la dolcezza delle labbra di una madre adusa a baciare tutti suoi figli. Al fondo del cartoncino, controfirmato dal cappellano militare, seguivano i nomi dei quindici prigionieri sommesi del campo di Zonderwater: Fiorillo Luigi, Albano Lucio, Raia Mario, Piccolo Francesco, Romano Luigi, Piccolo Ciro, De Falco Gennaro, D’Avino Raffaele, Aliperta Vincenzo, Lauretta Vincenzo, Magnetta Gennaro, Di Palma Giuseppe, Esposito Vincenzo, Di Sarno Giuseppe, Di Sarno Ruggiero.
Poi, Lucio Albano-zi’ Gennaro o’gnundo vincolò i firmatari di quella icona ad un voto: se la Madonna di Castello, accogliendo le loro invocazioni, ne avesse permesso il ritorno a Somma Vesuviana, tutti insieme, con patto solenne, sarebbero andati in processione all’antico santuario, dove avrebbero depositato – come ex voto- l’immagine a carboncino con le firme.
Dopo poco, i quindici prigionieri sommesi del campo di Zonderwater furono trasferiti in altri luoghi.
Mio padre, via mare, fu condotto in Inghilterra, a Manchester. Nell’attraversamento dell’oceano Atlantico – lo raccontò più volte nel corso della sua esistenza- la nave sulla quale era deportato riuscì, solo per fortuna (ma lui diceva che fu la mano della Madonna), a schivare un potente missile tedesco. Rientrò, poi, in Italia –all’aeroporto di Bari- nel settembre del 1945, dopo ben cinque anni, tutti passati in prigionia.
Dall’Inghilterra mio padre tornò con due impegni da onorare. Per primo doveva riunire i suoi compagni di prigionia e andare a ringraziare la Madonna di Castello. Poi, doveva portare –e lo fece- un fiore sulla tomba di Davis, un giovane inglese, caduto in guerra e sepolto nel cimitero di Montecassino. Di quel povero soldato, mio padre aveva conosciuto i genitori, che, all’atto di lasciare Manchester, gli avevano affidato una foto del figlio e una preghiera da recitare sulla sua pietra tombale.
I quindici sommesi prigionieri degli Inglesi andarono al santuario della Madonna di Castello e sciolsero il loro voto. A testimonianza, lasciarono quell’icona a carboncino dietro l’altare maggiore della chiesetta in montagna. Lucio Albano salutò –come avrebbe, poi, fatto fino alla sua morte- a nome di tutti la Madonna con un canto a figliola: Quant’è bello/ quant’è bello/ chi va pe’ feste/ e nce va co’ nomme e ca’ fede/ ‘e mamma schiavona…’a figliola!
Lucio Albano-zi’ Gennaro ‘o gnundo morì nel 1989. Mio padre morì nel 1997.
L’icona della Madonna di Castello ritratta col carboncino è sempre dietro l’altare della chiesa.
Una riproduzione di quella icona, regalatami da Sabatino, il primogenito di Lucio Albano-zi’ Gennaro ‘o gnundo, è incorniciata su una parete di casa mia.