Brutta alba quella di stamattina. È morto il mio cane; si chiamava Pirgo, aveva sedici anni, era un componente la famiglia. Negli ultimi giorni è stato molto male ma mai ha emesso un guaito per le sue sofferenze. Aveva solo uno sguardo intenso ed i suoi occhi scuri, espressivi, scrutatori, seguivano ogni minima mossa e chiedevano di non essere lasciato solo ad affrontare l’ultimo, inevitabile, passaggio.
Stanotte, riverso su di un fianco, respirava con affanno. Gli ho parlato, l’ho accarezzato, mi è sembrato acquietato. L’ho lasciato alle quattro di mattina, convinto che avrebbe superato anche quella crisi. Sono tornato dopo un’ora e l’ho trovato morto.
Pirgo. Tutti dicevano che era uno strano nome; anche per un cane.
Lo accolsi che aveva solo qualche mese di vita. Un amico mi aveva chiesto se ero interessato a prendermi un cane; nel giardino di casa sua c’erano sei o sette cuccioli nati dall’incrocio tra un pastore tedesco ed un husky. Quando entrai in quel giardino l’intera famiglia canina scappò a nascondersi; mi si fece incontro solo un cucciolo dalle orecchie non perfettamente ritte, dalle zampe ben tornite e dall’aria smargiassa. Mi fu immediatamente simpatico e mi richiamò alla mente un personaggio di Plauto, il miles gloriosus, il soldato fanfarone di nome Pirgopolinice.
Bene. Pirgopolinice, però, non mi sembrava molto adatto; lo chiamai, più semplicemente, Pirgo.
Quel cane è stato, per me, qualcosa più di un cane. Eravamo in totale sintonia di sguardi, di umori, di intese, di voglia di scherzare, di necessità di stare ciascuno per proprio conto ma sempre molto vicini. Mi seguiva in campagna, mi accompagnava lungo i sentieri del monte Somma, aspettava, nel giardino di casa, il mio ritorno e –al solo rombo del motore dell’auto- si metteva in agitazione. Attendeva, con quel suo modo buffo di scodinzolare (la coda oscillante come un pendolo), con le sue orecchie asimmetriche ma sensibili al minimo fruscio, con il suo abbaio, che era un misto di saluti, di gioco e richiesta di attenzione. Attendeva, fiducioso, sempre.
A volte si appoggiava con una zampa anteriore al davanzale della finestra della cucina e reclamava, solo con lo sguardo, il suo assaggio quotidiano. Altre volte, percependo in anticipo la mia volontà di andarmene in campagna, era preso da una smania irrefrenabile, saltava, abbaiava, pregustava le corse, la scoperta di nidi tra le siepi, la caccia alle lucertole, alle bisce, ad i ricci, che –al termine delle sue perlustrazioni- veniva a depositare ai miei piedi, come trofeo di guerra, nonostante gli aculei gli avessero fatto sanguinare la bocca.
Per molti anni, nel giardino di casa, ha amato giocare con una palla, con più di una palla, che dissotterrava quando ne aveva voglia. Aspettava che gliela lanciassi lontano o che tentassi di sottrargliela. Se vedeva, poi, uno zampillo d’acqua o una pompa per annaffiare cominciava –ma non negli ultimi tempi- a saltare, a tentare di acchiappare ogni goccia, ad attraversare ogni rivolo, a fare, insomma, il giocoliere, che gli riusciva –data la stazza- non tanto bene così come il clown.
Pirgo si porta via alcuni miei sfoghi, molte delusioni, momenti di riflessione a voce alta. In campagna, infatti, mi piaceva sedermi -appoggiato al tronco di un albero- e guardare la maestosità del monte Somma. Pirgo intuiva quei momenti di nostalgia o di amarezza, si distendeva al mio fianco e mi guardava. Lo accarezzavo, gli parlavo e quasi annuiva alle mie parole.
Dall’alba di stamattina, davanti a Pirgo si sono aperte immense praterie dove egli può scorrazzare libero e felice.
Voglio immaginare, credere fortemente che esista un al di là anche per i cani. In fondo, la loro fedeltà, il loro affetto per gli uomini devono in qualche modo essere riconosciuti anche post mortem. Così tra le presenze silenziose delle persone care che continuano a vivere in contiguità -non solo nei ricordi ma anche nelle percezioni extrasensoriali- sarò certo di non aver mai lasciato né di essere stato mai lasciato dal mio Pirgo.