Terra di leggende e di divinità. In principio furono i discendenti di Sem -uno dei figli del patriarca Noè-, che tra le fertili balze vesuviane avevano ritrovato la vite perduta nei giorni del diluvio universale e, mantenendo fede alla promessa fatta all’antico progenitore, avevano fondato la città di Somma.
Terra di luoghi incantevoli e fascinosi. Quando nel 79 d.C. il Vesuvio, gonfio di ombrosi pampini e di eccellente uva, aveva riversato la sua natura distruttrice sulle attonite e inermi popolazioni posate ai suoi piedi, Marziale [Epigrammi, IV, 44] aveva scritto “ora tutto giace sepolto dalle fiamme e dalla lugubre cenere: gli stessi dèi non avrebbero voluto che la cosa fosse stata loro permessa”.
Qualche anno prima, nel 73 d.C., un nobile tracio fatto schiavo dai Romani ed avviato a Capua, alla scuola gladiatoria di Cneo Cornelio Lentulo Vazia, con un manipolo di compagni si era ribellato alla prigionia ed era fuggito sui crinali del Mons Vesuvius. Si chiamava Spartaco e, quando si era accorto di essere stato bloccato dai legionari di Caio Claudio Glabro, prima di essere sconfitto dalle armi di Cneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, “con i tralci delle viti selvatiche [vitis vinifera sylvestris] fa intrecciare numerose scale e, di notte, con i suoi seguaci, superando le ripide, erte balze vesuviane, piomba di sorpresa sull’accampamento nemico, massacrando i legionari”.
Terra di Dioniso (chiamato anche Bacco o Libero), giovane figlio di Zeus, antica divinità della vegetazione, della fertilità e della linfa vitale, che si ritraeva nel mondo ctonio durante i mesi invernali, per tornare, poi, a scorrere vitale nei mesi primaverili ed estivi. Ma anche dio del vino, bevanda trangugiata per dimenticare il dolore e entrare in comunione col divino e la natura attraverso l’estasi. Si tramanda che, in onore di Dioniso, nell’antica Grecia, si era soliti celebrare le feste Dionisie, durante le quali si portava in processione (il rito delle falloforie) un simulacro fallico, simbolo della fertilità. Le Dionisie si svolgevano ad Atene, tra la seconda quindicina di marzo e la prima metà di aprile, durante il mese di Elafebolione (il nono mese del calendario attico nell’antica Grecia), quando cadevano anche le Elafebolie, la festa della caccia al cervo in onore della dea Artemide. Nello stesso periodo, ad Atene, venivano celebrate anche le festività in onore della dea Pandia, figlia di Zeus e di Selene, personificazione del plenilunio. Straordinaria coincidenza! La regola che fissa la data della Pasqua cristiana, stabilita nel 325 dal Concilio di Nicea, prevede che la festa di Resurrezione cada la domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera (21 marzo).
In onore di Bacco, invece, in Italia -e particolarmente in Campania e nella Magna Grecia- si celebravano i Baccannali, feste orgiastiche (il significato originario di orgia non era negativo) poi scadute in riti immorali. I Baccannali, come le Dionisie, erano feste propiziatorie e coinvolgevano più popolazioni di uno stesso territorio, che si riunivano attorno ad enormi fuochi, in un luogo-simbolo, per diversi giorni. Le seguaci di Dioniso erano chiamate baccanti ed anche menadi (Le baccanti cominciano ad agitare il tirso per i loro riti…l’eccitazione si era trasmessa all’intero bosco, alle belve: non c’era più niente di fermo, tutto si agitava in frenesia, Euripide, Le Baccanti.): vestivano di pelle di cerbiatto, si cingevano il capo con l’edera e portavano il tirso, un bastone di legno (solitamente di abete ma anche di corniolo) alla cui punta acuminata, sormontata da una pigna, si attorcigliavano pampini, edere e, talvolta, una benda di lana in segno di consacrazione. Il tirso, chiara allegoria fallica, veniva scosso durante i riti e spesso usato anche come arma di difesa. Le movenze ritmiche delle baccanti erano cadenzate da un timpano (tympanon), un primitivo strumento a percussione (una tammorra) battuto per dare i tempi e per attirare l’attenzione del popolo. Nella ceramica grecoitaliaota, i satiri e le menadi danzanti si muovevano al suono anche dei crotali (le castagnette, una coppia di valve di argilla, di legno, di rame, di avorio tenuta insieme da una correggia che l’assicurava al polso. Talvolta i crotali (greco: cròtala; latino: crepitacula) erano costituiti semplicemente da due conchiglie) e del flauto (il sisco, l’antico strumento a fiato (greco: aulos; latino: tibia), a canna cilindrica, in legno, raramente in metallo, in uso presso le popolazioni pastorali dell’antica Grecia).
Le statue, le ceramiche, i dipinti hanno da sempre restituito un Dioniso vestito di pelle di leopardo (tanto simile alla statua del dio emerso dallo scavo di qualche villa romana della zona), che, su di un carro di trionfo, insieme alla sua compagna Arianna (la donna abbandonata da Teseo), segue il tirso e il corteo delle feste con animali, satiri e sileni, sfrenati nei loro canti e nelle loro danze.
La montagna è stata sempre un punto di riferimento per tutta la popolazione del vesuviano. È stata come una persona che si venera, si ama, si rispetta. In un passato ormai un po’ lontano, coriacei contadini partivano all’alba, per inerpicarsi sulle balze di quella montagna benedetta; portavano sulle spalle qualche rudimentale attrezzo agricolo, per dissodare le zolle, per potare gli alberi, per innalzare uno steccato. Al braccio portavano anche un tozzo di pane, stretto in un panno colorato, insieme ad una bottiglia di buon vino. Poi, al tramonto, tornavano col carico di legna secca sulla groppa, con un cesto di castagne o una sporta, in equilibrio sul capo, piena –a seconda della stagione- di fave, di uva, di albicocche, di mele.
La montagna era un luogo di incontro e di festa. Ma soprattutto di devozione, perché nella storica cappella nei pressi della rocca normanna abitava la Madonna di Castello. Vi si ascendeva per una cupa tortuosa, tra ripe alte di terra. Quando il popolo dei pellegrini si incamminava per salutare la Madonna, una folta vegetazione e i tuori incombenti impedivano allo sguardo la vista dell’antico santuario con la vigile castellana Assuntulella, la devotissima orfanella Assunta Ferruccio. Poi, tra i vigneti, appariva, per la prima volta, il profilo della cappella. Di nuovo alberi, tuori, ginestre; ed ecco, per la seconda volta e da più vicino, la chiesa della Madonna di Castello. Per i pellegrini, dopo la prima e la seconda scoperta, la meta era ormai vicina. Poco prima di affrontare l’ultimo sforzo, si affacciavano, sulla sinistra, le assi traballanti della trattoria di Ciro ‘a Pupatella. Una pentola di fagioli, un bicchiere di catalanesca, forse, una mangiata di piselli, le castagne spezzate. E, poi, i canti e i balli della tradizione.
La città di origine contadina posta sulla fascia pedemontana, si è sempre dichiarata fedele alla vergine ed alla montagna ed ha unito nella festa le sue protettrici. La festa della montagna va dal sabato in albis al tre maggio successivo; la sua durata è, quindi, variabile a seconda della ricorrenza della Pasqua ed è, perciò, legata alle fasi lunari. Pasqua di aprile è speranza di raccolti abbondanti; Pasqua di marzo non è di buon auspicio per chi vive del lavoro e dei prodotti della terra; non per caso ancora circola, tra gli anziani del luogo, il detto: quanno Pasqua è marzatico, o murì o famatico. Il culto della montagna, di origini pagane, interessa tutte le popolazioni ai piedi del Vesuvio, che con la festa primaverile tendevano ad esorcizzare la paura del fuoco ed a trovare momenti di coesione sociale. Negli anni, come in tutte le feste popolari, gran parte dei culti pagani sono trasmigrati –sostituendosi ai simboli della natura o agli dei falsi e bugiardi (Dioniso, Bacco, Cibele, Cerere, Venere, Mater matuta) nelle liturgie dei santi e delle madonne- in quelli cristiani. La notte del sabato in albis, quindi, mille falò illuminano valli e costoni della montagna: li accendono gli uomini delle paranze, dopo aver bivaccato per l’intera giornata ed inanellato canti e balli tradizionali. La festa, occasione di abbondanti libagioni e sfrenati canti-balli liberatori, dura fino al tre maggio, il cosiddetto tre del ciglio o della croce. Il ciglio è la punta più alta del Somma-Vesuvio; è il luogo in cui, la notte del tre maggio, si dà fuoco ad una maestosa croce, posta davanti a una cappelletta, a protezione della città. Ed intanto, sulla nera montagna, un suggestivo spettacolo di fuochi pirotecnici ne illumina le pendici.
I canti a figliola caratterizzano la festa. I balli, poi, sono cadenzati da tutti quegli strumenti arcaici, che vanno dal doppio flauto alla tammorra, dallo scetavaiasse, alle castagnette, al putipù.
Elemento essenziale nella festa della Montagna (e della Madonna di Castello) è la perticella o perteca, la pertica-tirso, che si ricava da un legno di castagno pulito dei rami. Una pertica-simulacro fallico sulla cui cima si colloca l’immagine della Madonna di Castello; una pertica-simbolo di fertilità, lungo il tronco della quale, si alternano corone di castagne e rami di ginestre, torrone e limoni, mele e dolciumi. Tutti ornamenti che stanno ad indicare la produttività agricola del territorio, l’abbondanza, la consacrazione.
La pertica, quindi, così addobbata, è offerta in omaggio alle donne-mogli-fidanzate-sorelle-madri, sui ritmi di un canto a figliola. La funzione è un misto di sacro e pagano: la devozione per la vergine, madre e padrona, sfocia –con novello rito delle falloforie- nell’offerta di un omaggio alla persona amata.
Dopo la festa, la pertica diventerà un oggetto di uso quotidiano. Ed in attesa di essere sostituita da una nuova, si presterà ad essere sostegno alle funi tese per asciugare le lenzuola o si lascerà coinvolgere dalla mano esperta della massaia nella preparazione del forno per il pane cafone
La Chiesetta di Santa Maria a Castello vive di una lunga storia. Al tempo di Carlo d’Angiò nacque come cappella dedicata a santa Lucia, la martire di Siracusa. Solo molto più tardi fu dedicata alla Vergine del Castello. La chiesetta è stata distrutta e ricostruita più volte. Le guerre, il tempo, la dimenticanza degli uomini, il Vesuvio sono stati i suoi nemici ricorrenti. Ma sempre qualcuno ha provveduto ad accendere la lampada votiva davanti alla sacra immagine di Maria.
A sbrogliare la matassa delle spiegazioni inspiegabili concorrono sempre i dogmi, i miti o le leggende. Un giorno di tantissimi anni fa, un certo Giancaniello Fusco, un contadino del luogo, si recò alla sua vigna in montagna. All’improvviso una mano invisibile lo trasportò all’altro mondo, all’inferno. E Giancaniello osservò tutte le pene dell’aldilà. A fargli da guida fu san Francesco, che incoraggiò il contadino a non perdersi d’animo e ad essere risoluto, perché a lui, privilegiato, era stato richiesto di osservare e di raccontare tutto, al suo ritorno, ai suoi concittadini. Nel viaggio con san Francesco, Giancaniello vide anche una prossima, deleteria eruzione del Vesuvio. Era il 1631, proprio l’anno in cui la deleteria eruzione ci fu davvero.
Il povero vignaiolo, dopo l’incontro col santo, fu trovato, madido di sudore e senza forze, nel suo campo. Il suo corpo giaceva esausto, quando i parenti, preoccupati dalla lunga assenza, lo rinvennero. Una volta ripresosi, Giancaniello non ebbe intenzione di rivelare quanto visto: temette di essere preso per pazzo. Più volte, però, san Francesco lo esortò a raccontare, fin quando il villico si decise a farlo e, puntualmente, fu irriso e preso per un vero visionario. Egli invano raccontò che la terra sarebbe stata scossa da un forte terremoto, che il fuoco avrebbe bruciato ogni luogo, che solo la chiesa di Santa Maria a Castello sarebbe stata preservata. Tutti risero alle parole del folle.
Dopo pochi giorni il Vesuvio eruttò tutta la sua rabbia di fuoco e di morte.
Tra le rovine fumanti, a distanza di giorni, alcuni contadini trovarono, intatto, il volto della Madonna di Castello. Il sacro reperto subito fu mandato a Napoli, da un esperto scultore, perché ne ricostruisse l’intero corpo.
Ma lo scultore fu negligente, non aveva troppa voglia di lavorare o, forse, era distratto da altre faccende. Non trovò niente di meglio, quindi, che rinchiudere la testa della Vergine in un cassone e lì tenerla per molti mesi. Un giorno, però, che lo scultore era fuori per commissioni, dalla cassa si levò una voce, raccolta da sua figlia, una povera ragazza, paralitica, emaciata, condannata a passare il suo tempo in un letto.
-
Vieni ed apri, perché non voglio più star qui racchiusa.
-
Mi spiace, non posso essere utile, sono inferma.
-
Alzati, che ben potrai, non avendo più male alcuno.
La ragazza si levò, incredula. Camminava. Quindi aprì la cassa. La testa della Vergine aggiunse: –Dirai a tuo padre che è già molto tempo che mi ha trattenuto ed io non posso aspettare più, poscia che voglio ritornare alla casa mia e perciò digli che solleciti il suo lavoro.
Lo scultore, al suo ritorno, restò allibito. Diede subito fondo alla sua arte e restituì agli increduli contadini vesuviani il busto della Vergine, in pochissimo tempo. Né pretese ricompensa alcuna.
Le madonne contadine, come tutte le donne contadine, sono solitarie, coraggiose e silenziose.
La Vergine Maria di Castello è stata sempre da sola. Ha accolto le lacrime delle vedove e quelle degli ammalati, le paure degli uomini in guerra, le angosce degli sfollati, le promesse degli innamorati, le delusioni dei traditi. La sua bontà è stata ripagata su una delle tante tavole votive, che tappezzano le pareti della fredda cappella: –Ma all’intrasatto, justo nu’ mumento, ‘ncopp’a nuvola schizzata rosa, m’accumpariste tu, Madonna mia, e tutto se schiarae, tutto, ogni cosa, e me miettette a di’ l’Avemaria.
E’ stata da sola la Vergine Maria di Castello, fin quando non ha accettato la compagnia di Assuntulella, la fiera castellana, piccola, minuta, che nata in provincia di Avellino, giunse nel ricovero della chiesetta all’indomani della prima guerra mondiale e vi rimase fino alla fine dei suoi giorni.
Assunta Ferruccio, Assuntulella per tutti, non volle mai lasciare sola la sua Madonna. Ogni volta che fu invitata a scendere in paese, rispose sempre: –Resto con la mamma, grazie. Ed a tutti quelli che negli anni si fermarono al santuario, Assuntulella pose un’unica domanda: –Avete portato i lumini?. Il pensiero che la Vergine potesse restare al buio era più forte della richiesta di pane, acqua e viveri in genere.
Tutti, negli anni, hanno portato i lumini. Perché tutti sapevano che Assuntulella era figlia della Madonna, con essa viveva, con essa parlava, con essa passeggiava per le solitarie balze.
La montagna è stata amata come si ama un grande amore, mai uno sfregio, mai un torto, mai un livore. Gino Auriemma, poeta vesuviano, per quell’antico amore scrisse Muntagna ‘e stu core/ te voglie assaie bene/ me lieve de’ pene/ e torn’’a canta.
D’improvviso, però, erano mutati i sentimenti. Aveva avuto inizio la corsa al consumismo e alla inevitabile ingiuria alla montagna, quella che aveva visto Spartaco in fuga e i pampini attorcigliati sui tirsi di Dioniso. Enormi colate di cemento e velenosi gas delle auto avevano contaminato una natura dall’aere finissimo. La vecchia cupa era diventata una strada carrozzabile, la vecchia trattoria aveva generato una miriade di lussuosi ristoranti.
La politica locale, le amministrazioni comunali avevano permesso che, nel grembo della montagna, si aprissero immense voragini: cave per l’estrazione della rena, discariche per ingoiare i rifiuti urbani provenienti da svariati territori. Ora, a dissodare le zolle, ci stava pensando anche la malavita, che aveva sotterrato nelle incontaminate balze fusti di rifiuti tossici.
S’era infranto per sempre un antico sentimento. La montagna era stata malamente tradita! Nessuno ne aveva preso più le difese. Anzi, molti avevano detto che quella montagna, con tutti i divieti che comportava, era più un limite che un vantaggio per il nuovo paese ed i suoi abitanti. Tanto valeva che scomparisse al più presto! Magari insieme alla vecchia chiesa della Madonna di Castello, che già da sola se ne cadeva a pezzi.
Eppure la Montagna e la Madonna erano state sempre un suggestivo binomio. Molti contadini dalla forte fede e dalla grande saggezza, parlavano della Madonna come della propria madre e della Montagna come della propria casa. Fortunatamente salvavano la memoria e tramandavano anche di strani riti, di alberi che si intrecciavano e di lupi che parlavano, di anime vaganti di morti uccisi violentemente, di magie di fate e di mammane. Erano uomini che, a sfregio dell’era consumistica, continuavano a passare la propria vita a contatto con la terra, sposandone l’umore, curandone la fioritura in innumerevoli primavere, cullando le gemme con una ninnananna appassionata. Lavorando ancora, nonostante l’affermazione della cosiddetta agricoltura industriale, con la vanga e la zappa, la ronca e l’innestatoio. E mantenendo intatte le tradizioni che legavano i figli alla madre, i sommesi alla Montagna ed alla Madonna.
Quando si è sviluppato l’ultimo grande incendio sulla Montagna, io c’ero. Mi sono chiesto più volte perché l’avessero fatto. Sono sempre stato convinto, infatti, che le fiamme di agosto sulla vecchia montagna avessero avuto una paternità. Ignota, ignobile, ignominiosa. Ma pur sempre una paternità!
Ero arrivato fra le balze ustionate della montagna nel pomeriggio di un 14 agosto, su per via Maresca, accompagnato dai vigili urbani e da alcuni volontari. Un fumo denso, il crepitio delle fiamme, alcuni contadini che guardavano increduli ed inermi la morte delle loro creature-piante. Un maresciallo della forestale, a capo di un manipolo di una decina di uomini, aveva commentato : –E’ un brutto incendio; sono preoccupato. Intanto, le fiamme passavano da cima a cima ed ischeletrivano e carbonizzavano ogni tronco e creatura incontrati.
Vidi alcuni volontari tentare di arginare, invano, con mezzi di fortuna, quel demone dilagante.
Annottava. Restava poco tempo per una labile speranza di salvezza. La prefettura era stata avvertita; come la protezione civile; come il 113 ed ogni altro numero utile ad irrorare una speranza.
-
Mandateci un aereo, un elicottero.
-
Non è possibile; bruciano molte altre località e non abbiamo mezzi.
Quando fu completamente notte l’incendio sembrava domato. Si alzavano solo dense colonne di fumo. Qualcuno diceva: –Non c’è da preoccuparsi, è il sottobosco; e qualche altro aggiungeva: –farà bene alla montagna, si pulirà…. Una trave di fumo sembrava essersi posta a sostegno della stessa montagna, giusto a metà, come a preservarla. Da una parte, la zona pedemontana, offerta in olocausto, con le mille costruzioni abusive; dall’altra parte, la zona alta, protesa al cielo, col “ciglio”, la croce di ferro issata dai fedeli, la flora e la fauna sopravvissuti agli scempi dei tutori ipocriti e voltagabbana.
Quando schiarò, era l’alba di un 15 agosto, il giorno dell’assunzione in cielo di Maria Vergine.
Alle 6, con le prime luci, erano partite nuove richieste di mezzi aerei. Le fiamme si erano portate al cuore della montagna. Eravamo ritornati, tutti insieme, sui luoghi dell’incendio da via Palmetiello: avevo visto innumerevoli piante di albicocche ingoiate dalle fiamme. I tronchi strinati avevano ancora i rami turgidi; cadevano increduli, come soldati indomiti ma condannati ad una dissennata quanto inutile difesa.
Poi, finalmente, alle 9 del mattino, il rombo degli aerei. Un canadair aveva effettuato i primi lanci. Interminabili. Per quasi cinque ore.
All’improvviso, però, l’aereo era scomparso; il fuoco era diventato indomabile, la montagna era una immensa graticola.
-
Ma cosa è successo? Dove sono i mezzi aerei?
-
Niente da fare. Brucia anche la penisola sorrentina…c’è priorità. Voi venite dopo Sorrento.
Era diventata una montagna infernale. Perché il fuoco serpeggiava tra i tuori ed i valloni. Perché si perdeva ogni traccia del Dio Eterno.
Che fare?
Si organizzarono squadre di volontari composte dai contadini del luogo, quelli che la Montagna l’avevano eletta a sposa e madre e che, nei giorni in cui –nella notte dei tempi- si celebravano le Dionisie, portavano in processione il simulacro fallico della fertilità. Si scontrarono con i rambo della forestale e della protezione civile. I volontari conoscevano la montagna palmo a palmo, l’amavano, la veneravano, si univano in amplesso, fremevano di passione e con pale e badili affrontavano, per essa, il fuoco. I rambo, invece, si crogiolavano nelle loro divise, nei lampeggiatori delle auto, nelle sofisticate ricetrasmittenti. I rambo sbagliavano percorso, non conoscevano la montagna, nutrivano per essa un interesse indotto, al massimo la baciucchiavano. Quindi i rambo avevano detto: – se ne parlerà domani. E passava un’altra nottata.
L’alba di un 16 agosto si era presentata con uno scenario apocalittico.
L’intera superficie della montagna sembrava un campo di battaglia. Focolai da ogni parte. Era assente solo l’odore del nàpalm. E i caduti erano le creature divine: gli alberi, gli animali. E il luogo della battaglia, da affidare alla memoria ed ai posteri, era quello dal suggestivo nome di “ Parco Naturale del Vesuvio”.
Ora il fuoco sembrava volesse leccare il paese. Era proprio dietro la chiesa di S. Maria a Castello. A ridosso di quei plinti di cemento che ulcerano le viscere della montagna.
L’aria era sporca di cenere ed acre per il fumo. Il cielo aveva ripreso ad essere solcato da due canadair e da un G222. Lanci di acqua, lanci di materiale ritardante in caduta libera. Tutta la comunità era in continuo contatto con la prefettura. Uno dei proprietari delle tante case (abusive) minacciate dal fuoco aveva bussato, implorante, con le scarpe bruciate e gli abiti neri di fumo, alla porta del sindaco: –Fate qualcosa, aiutateci.
E adesso che si poteva fare più? Oramai il disastro era compiuto.
Il pomeriggio di quello stesso 16 agosto sembrava segnare la fine dell’agonia. Il fuoco si era acquietato. Si alzavano solo dense colonne di fumo. E su di esse, proprio dietro la chiesa di S. Maria a Castello, volavano centinaia di rondini. A chi pensava che fossero uccelli impazziti era stato spiegato, invece, che i volatili dalle ventrali biancastre erano a caccia di insetti in fuga dal fumo.
Ritornò la notte. E, quindi, schiarò l’alba di un 17 agosto. Si spense qualche altro piccolo focolaio. Dopo quattro giorni l’antico monte non fumava più. I rambo erano soddisfatti nelle loro divise, nei lampeggiatori delle auto, nelle sofisticate ricetrasmittenti.
La stampa, riferendosi ai dolosi focolai accesi su tutto il territorio nazionale, aveva cominciato a parlare di incendiopoli. Si insinuò che, forse, ci sarebbero stati interessi legati alla speculazione edilizia, al business miliardario delle operazioni di spegnimento e di rimboschimento, all’occupazione dei lavoratori stagionali. Senza tacere dei possibili piromani, dei nani patologici, degli invidiosi, dei camorristi, degli speculatori, degli strozzini, dei riciclatori di denaro, dei fumatori distratti.
Le fiamme, stranamente, durante tutti i quattro giorni, s’erano fermate proprio dietro la chiesa di Santa Maria a Castello. Sembrava come se che qualcuno avesse ordinato di preservare quegli spazi.
– E’ stata la Madonna a voler salvo il paese.
Quella Madonna contadina, che siede sul suo trono di legno; quella Madonna bella, rotonda, con la faccia da massaia, che con la destra sostiene il mondo e con la sinistra il Bambino Gesù. Quella Madonna contadina che vive solitaria sulla Montagna del Somma-Vesuvio.