Dopo tre giorni di grandi entusiasmi e di incalcolabile folla è calato il sipario sulla festa delle lucerne a Somma Vesuviana. Si registra un po’ dappertutto aria di grande soddisfazione e di euforia, per l’organizzazione generale, per il flusso composto dei visitatori, per i punti luce appena battezzati (locali di esposizione artistica, centri di raccolta documentaria, percorsi dedicati all’amarcord), per alcune presenze eccellenti (antropologi, giornalisti, intellettuali, ambientalisti e politici).
Se fossi chiamato a dare un mio parere, io, però, mi dichiarerei un po’ deluso dall’ultima festa delle lucerne. Direi, infatti, che si è trattata di un’edizione molto mediocre, impostata con distaccato decoro e senza il sangue, la passione, il sentimento d’appartenenza necessari per un evento che, al di là di tutte le sfumature ad esso riconducibili (turistiche, commerciali, imprenditoriali, politiche) ha, innanzitutto, una chiara matrice di identità storico-antropologica di una comunità connotata da una ben definita cultura popolare.
La festa delle lucerne è nata in un centro agricolo, il Casamale, dove si raccontavano e rappresentavano (a modo proprio) le paure e le ansie, le gioie ed i dolori di donne ed uomini radicati in una terra madre e matrigna. Nella stessa terra madre e matrigna in cui si erano venerati prima gli dei e, poi, i santi; in cui l’aria, il fuoco e l’acqua simboleggiavano gli elementi essenziali della vita comunitaria mentre altre allegorie ne definivano i dettagli (le tavole imbandite, le zucche svuotate dei semi, gli abiti da sposi e quelli per il funerale); in cui la stessa rappresentazione “per quadri” della vita dell’uomo si arricchiva di arnesi ed utensili necessari alla copulazione con le zolle vesuviane, al sostentamento degli animali, alle età ed alle responsabilità delle famiglie residenti.
Io penso che, nella seconda metà del secolo scorso, la festa delle lucerne fosse stata ripresa da una generazione intenzionata a continuare la rappresentazione di se stessa, delle proprie giornate, dei lavori e delle speranze, dei lutti e degli oggetti apotropaici. La generazione successiva –penso ancora – già non aveva più l’esigenza di rappresentarsi ed accedeva, perciò, comodamente ai modelli di raffigurazione dei padri. In ultimo penso che la generazione dei nipoti ha, coscientemente, eliminato ogni modello dei padri e dei nonni, accendendo le lucerne, questo sì, con grande abnegazione nell’impegno organizzativo ma con modesti riferimenti al campo della tradizione popolare, della quale si è pur fatto un esagerato riferimento nei programmi e nelle premesse culturali dell’evento ma con un effimero riscontro nelle finalità della festa stessa.
Tradizione ha radici in trans dare (consegnare al di là) ed in trans mittere (tramandare da una persona all’altra); compito della tradizione è quello di tramandare un patrimonio (pater) costituito da un complesso di beni culturali, sociali e spirituali ereditati dai padri attraverso i tempi. Chi si dice legato alla tradizione è necessariamente obbligato ed orientato al superamento di una concezione fatalistica di una cultura dominante (quella finalizzata maggiormente agli aspetti sociologici, commerciali, turistici e, peggio di tutti, all’appartenenza politica); e, senza mettersi alla finestra o rifiutando a parole l’assuefazione, è tenuto a far politica (non nel senso di chiedere voti, salire sul carro dei vincitori o indossare abiti clientelari) in chiave multiculturale, multietnica e multidisciplinare. La Tradizione è un argine al consumismo indotto dal benessere, all’omologazione di qualsiasi forma espressiva, all’accettazione incondizionata di simboli della contemporaneità (espressioni gergali, taglio di capelli, fogge vestiarie, abitudini alimentari), laddove – per dirla con Pasolini- i figli dei borghesi e quelli dei nuovi proletari hanno gli stessi contraffatti lineamenti da automi.
Per la Tradizione, la festa è un laboratorio, un momento di coesione di una comunità, che vuole/deve recuperare la propria identità, superando l’omologazione delle coscienze e l’aridità dei sentimenti. E nel recupero della propria identità ci sono il senso religioso della vita (l’amore verso gli uomini e le cose, il rispetto, la non violenza, l’adempimento dei doveri di uomini e di cittadini), il valore esistenziale della famiglia (la sicurezza degli affetti, il rispetto dei doveri e dei diritti reciproci) ed il recupero della cultura locale (le radici prossime ed il primario senso di vita).
Sono stato presente ai preparativi ed ai successivi tre giorni della festa. Una marea di teste si fermava davanti ai vicoli illuminati dalla luce tremula delle lucerne; abbondavano i selfie e l’invio di sms; molti si chiedevano dove si potesse mangiare, perché le sagre estive si concludono sempre con freselle, stocco e percoche col vino.
E perciò mi dichiaro un po’ deluso dall’ultima festa delle lucerne. E non per fare il bastian contrario né per essere una delle voci fuori dal coro. Ma semplicemente perché ho ancora dentro di me il disappunto di una giovane visitatrice davanti allo spettacolo offerto dall’allestimento di vico Cùonzolo: – Sì, bello! Ma che significa?