Si sa, i simboli sono importanti. Rappresentano un modello, una guida a cui fare riferimento, un indirizzo, quasi un senso da dare al cammino di ogni uomo. E, particolarmente quest’anno, proprio il 25 aprile deve avere più senso, più significato, non solo di memoria ma ancor più di costruzione, di avvenire.
Oggi, come 75 anni fa, si ha il dovere e la necessità di raccogliere l’addio di chi, sul punto di morte, ha cercato di mandare a chi ancora vive. Un addio rimasto, però, chiuso e perduto nell’animo di chi se ne è andato.
Settantacinque anni fa fu l’addio di coloro che ci fecero dono della libertà, dei condannati a morte della Resistenza, delle madri private dei figli e le spose dei mariti, di un’intera generazione sacrificata dall’avventura fascista. Oggi è l’addio di chi è stato costretto a varcare la soglia dell’aldilà senza il conforto di una parola, di una mano da stringere, di una lacrima asciugata.
Settantacinque anni fa quei morti imposero il loro estremo sacrificio sul piano ineludibile della trasformazione dello Stato. Uno Stato che doveva costruirsi sulle direttrici della libertà, della democrazia, della giustizia, dell’unità e dell’eguaglianza.
Anche i morti di oggi impongono che il loro sacrificio non sia avvenuto invano e gridano che la trasformazione dello Stato debba verificarsi non attraverso un camaleontico continuismo ma con mutamenti effettivamente innovativi e anticipatori.
I morti di oggi impongono, altresì, di stanare ed abbattere i fascismi (specialmente quelli latenti, che sono i più pericolosi), di sostenere fortemente i rappresentanti delle istituzioni non vocati alla pratica del trasformismo ma capaci di interpretare l’arte della politica come mezzo per garantire il benessere (lo stare bene insieme) della comunità, di reiterare costantemente la fede e il patto di coesione –come durante la Resistenza- tra uomini diversi per ideologie ma uniti per la difesa delle libertà degli uomini.
Il 25 aprile del 2020 non potrà essere solo ricordo né desiderio di un sogno resistente. Dovrà essere soprattutto consapevole azione, individuale e collettiva, per indirizzare ogni sforzo verso una differente lettura della realtà. Ed in questa realtà ci sono i bambini e gli anziani, gli ammalati e le vittime di femminicidio, gli immigrati e gli emarginati, i morti sul lavoro e i giovani in cerca di un’occupazione. E c’è pure tanta necessità di scuola, tanta Europa unita, tanta ricerca di pace tra i popoli.
Solo così si potrà dare –rifuggendo da ogni ripetitiva demagogia- valore storico e culturale alla parola Resistenza: opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti, star fermo e saldo in democrazia, contro le mafie, i terrorismi, i razzismi, i fanatismi religiosi, la corruzione, la mala politica.
Nella ricorrenza di questo 25 aprile, perciò, ogni cittadino ha il dovere di richiamare alla mente quanti –sacrificando la propria vita o mettendo in conto di perderla- ci garantirono il bene supremo della Libertà. Perché la capacità di ricordare è la vera essenza di un popolo.
Quest’anno mancheranno le manifestazioni pubbliche. Mancherà anche il nostro consueto incontro nel giardino dell’Arci di Somma Vesuviana al quale –di volta in volta- hanno dato il loro contributo Luigi Marino, Nino Daniele, Guido D’Agostino, Tommaso Sodano, Elena Coccia e tanti altri amici e compagni.
Ed allora credo sia opportuno e doveroso onorare il debito di riconoscenza con quanti ci hanno assicurato un destino diverso e migliore (per diritti, libertà e giustizia sociale), rinnovando il ricordo dei cittadini sommesi, che, sulle montagne del nord o nelle terre ancora in mano nazifascista, abbracciarono la causa partigiana ed offrirono il proprio contributo alla riconquista della libertà.
Ferdinando Costantino Aliperta (1919-1944), sergente maggiore del Genio ferrovieri, aderì alla 176^ Brigata d’Assalto di Issogne, in Val d’Aosta. Col nome di battaglia di Somma, si distinse in varie azioni partigiane, fin quando –ferito- fu costretto ad arrendersi ai tedeschi, che lo trucidarono, il 7 novembre 1944, insieme ad altri suoi due compagni di ventura. Un monumento a Verrès (cittadina posta nella valle attraversata dal fiume Dora Baltea) ed una targa a Gressoney (ai piedi del Monte Rosa) ricordano il sacrificio del giovane Ferdinando in terra valdostana.
Gaetano Arfé (1925-2007), in contatto con la rete antifascista di Sondrio, nel settembre del 1944 si arruolò da partigiano nel Corpo Volontari della Libertà (Prima Divisione Alpina di Valtellina) delle Brigate Giustizia e Libertà, nelle cui file operò sino al giorno della Liberazione.
Arcangelo Capasso (1921-1945), aviere nell’aeroporto di Venaria Reale (To), si arruolò nella 20^ Brigata partigiana Garibaldi operante nel comune piemontese di Barbania, nella zona del Canavese. Arrestato in seguito a un rastrellamento, fu fucilato dai nazifascisti il 21 febbraio 1945.
Antonio Converti (1922-1980), soldato del 13° Reggimento fanteria Pinerolo, aderì alla 183^ Brigata Squadre di Azione Patriottiche. Operò nella zona di Solaro (Mi) col nome di battaglia di Nino. Il presidio di Rho della Guardia Nazionale Repubblicana di Saronno scrisse di Converti: “pericoloso elemento partigiano responsabile dei gravi danni subiti dalle Forze Tedesche per i sabotaggi compiuti alla Polveriera di Ceriano Laghetto e al treno munizioni fatto saltare a Milano Lambrate”.
Luigi Gerardo D’Avino (1924-1999), dopo l’armistizio dell’8 settembre fu arrestato dai tedeschi ed avviato alla deportazione in Germania. Riuscì a scappare nei pressi di Vercelli; quindi, raggiunse le montagne del Biellese, dove, col nome di battaglia di Luigi, entrò nella 182^ Brigata partigiana Garibaldi.
Antonio Fornaro (1916-1971), era sul fronte ligure e lì, col nome di battaglia di Nino, si arruolò nelle file della IV Brigata Arnera, VI Divisione Garibaldi Bonfante.
Vincenzo Giordano (1924-2005), arruolato nel 53° Reggimento Fanteria d’arresto Umbria, operò, poi, nel 115° Battaglione Montebello della Guardia Nazionale Repubblicana, da partigiano, col nome di battaglia di Vesuvio nella 18° Brigata Garibaldi, che azionava nella zona del Canavese (tra Torino ed Aosta).
Gaetano Russo (1920-1992), era stato combattente in Libia contro gli Inglesi e gli Americani, subendo anche una ferita agli arti inferiori. Inviato, poi, al confine francese, dopo l’8 settembre 1943, rifiutò l’arruolamento nella Repubblica di Salò; aderì al movimento della Resistenza, militando prima nelle file di Giustizia e Libertà e, poi, nella 104^ Brigata Garibaldi.
Vincenzo Muoio (1919-2005), si trovava nel comune francese di Mentone (ai confini con l’Italia), quando, dopo l’8 settembre, fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Austria. Riuscì, però, a scappare e, scegliendo la lotta armata, si arruolò nella Brigata Garibaldi operante nelle zone di Varzo, Sale e Viguzzolo, in provincia di Alessandria.
Onore e riconoscenza -sempre e per sempre- a questi illustri figli di Somma Vesuviana, nati uomini liberi “che volontari si adunarono, per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo”.