Sono stato ragazzo, in una realtà di provincia, in un’età in cui il 25 aprile segnava, sì la festa, ma intesa come coesione, come incontro della comunità, come riflessione su quanto accaduto ed occasione per parlare del futuro, di come costruirlo o di come migliorarlo. Il 25 aprile precedeva solo di una settimana l’altra fatidica data del 1° maggio! In prossimità di quelle due ricorrenze del calendario civile sapevo che stavo per vivere due giornate di intense emozioni. Sui balconi delle sezioni del PSI e del PCI avrebbero sventolato la bandiera italiana e quella rossa di partito. I compagni socialisti e comunisti avrebbero diffuso le copie dell’Avanti! e dell’Unità, che avrebbero riportato, come sempre, le tappe che avevano condotto al 25 aprile del 1945 attraverso i ricordi di Sandro Pertini o di Riccardo Lombardi, di Luigi Longo o di Umberto Terracini. La parola Resistenza si sarebbe svelata in tutto il suo significato storico e culturale: opporsi a un’azione, contrastandone l’attuazione e impedendone o limitandone gli effetti; star fermo e saldo in democrazia, contro le mafie, i terrorismi, i razzismi, i fanatismi religiosi, la corruzione.
Le facce dei nostri padri, allora, erano contrite in una smorfia dura di ricordi: si incontravano e rivedevano in retrospettiva i luoghi delle sofferenze, le purghe del fascismo, i patimenti delle trincee o dei campi di prigionia, la lunga e tormentata strada del ritorno a casa (a molti negata!). Anche le nostre madri ricordavano la guerra che avevano vissuto senz’armi, i bombardamenti, la fame, i cuori accelerati, i tedeschi inferociti in ritirata, i beni perduti, il lutto che aveva segnato il cuore e la testa. Ma noi eravamo bambini, che ne sapevamo di quello che era successo prima del 25 aprile? Che ne sapevamo, se ancora qualcuno diceva che “ai tempi del fascismo si stava bene”? “che Mussolini era stato tradito dal re”? Che ne sapevamo che, in quel 10 giugno del 1940, all’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia, nella piazza del paese –nelle piazze di tutti i paesi- c’erano state scene di festa, cappelli lanciati al cielo, abbracci per celebrare la grandezza della nazione?
Per molti di noi ragazzi il 25 aprile viveva nelle parole del capo partigiano Nino, che aveva combattuto a Solaro, nel varesotto, nella 183 Brigata Garibaldi; il 25 aprile era nei racconti dei concittadini che parlavano di Gaetano Arfé combattente in Valtellina nelle file di “Giustizia e Libertà”; era nei ricordi di quanti, un anno e mezzo prima della liberazione, avevano organizzato la resistenza ai tedeschi in fuga, alcuni insieme a Francesco De Martino, altri affidandosi all’ala protettrice della Madonna di Castello o di Pompei o alla Vergine dell’Arco.
Poi, giunse il tempo in cui i ricordi cominciarono a confondersi, le facciate dei palazzi -prima annerite dal fuoco della divisione Goering- cominciarono a colorarsi di nuova luce, molte lapidi si stinsero insieme ai nomi dei martiri che vi erano stati scolpiti; ma rimase la festa della Liberazione. A scuola ci insegnarono che “l’Italia è una Repubblica democratica” e che “la sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi”. Ci dissero anche –ma distrattamente- delle folle oceaniche che si erano riversate, nei giorni vicini al 25 aprile, nelle strade delle grandi città come nei piccoli centri. Ma cosa era successo a Castiglione di Sicilia, a Marzabotto, a Sant’Anna di Stazzema, a Pietransieri, a Boves? E, più vicino a noi, oltre le “Quattro Giornate”, cosa era avvenuto a Caiazzo, a Teverola, a Nola, ad Acerra? Non lo sapevamo. E quale era stato il significato della repubblica partigiana di Montefiorino? Anche questo ignoravamo; come ignoravamo il contributo dato dalle donne alla lotta partigiana, perché ci erano completamente estranei, per esempio, i nomi di Gabriella Degli Espositi o di Irma Marchiani. Fummo, così, costretti ad archiviare un pezzo di storia in cambio dell’attenzione che ponemmo ai ponti del calendario, alle offerte di vacanze, sfruttando quei giorni dal 25 aprile al 1° maggio. Così, un po’ dappertutto, la data in rosso dell’anniversario della Liberazione si concluse in brevi ed esangui cortei per la deposizione di corone sui monumenti ai martiri, in manifestazioni di partito, in labari di enti ed associazioni sempre meno numerosi.
Intanto a Napoli, a pochi chilometri dalla mia realtà di provincia, alcune iniziative della stagione da sindaco di Maurizio Valenzi coincisero con le ultime attività di “Paese Sera”. Si era nel 1983: ero cresciuto ed insieme a molti altri avevo volontariamente scelto di educare le giovani generazioni. Fu, anche allora, manco a farla apposta, un partigiano, Gennaro Pinto, a volere inserire, infatti, in “Caro Anno ’83” –una manifestazione riservata alle scuole e sostenuta anche dall’amministrazione comunale di Napoli- tutto lo spazio possibile ai protagonisti della Liberazione. Nelle scuole furono attori/testimoni proprio i combattenti per la libertà, alcuni dei quali rispondevano ai nomi di Mario Palermo, Gaspare Papa, Ugo Piscopo, Ettore Bonavolta. L’11 aprile nella platea del maestoso cinema “Metropolitan”, centinaia di ragazzi, in un’atmosfera di grande emozione, dopo la proiezione de “Le quattro giornate di Napoli”, si schiusero all’abbraccio con il regista Nanni Loy ed il sindaco Valenzi. Poco lontano al Quirinale, il presidente partigiano, Sandro Pertini, riceveva innumerevoli scolaresche e con tutti riproponeva i nomi, le vicende, le condizioni che avevano consegnato l’Italia libera al popolo.
Passò, purtroppo, la stagione delle speranze e degli entusiasmi. Si avvicinò la stagione che avrebbe decretato la fine dei partiti. Diventò difficile invitare anche qualche oratore “politico” per celebrare il 25 aprile. Sopravvisse quella data solo grazie all’esistenza dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza e di qualche vecchio combattente. Nelle scuole più che in altri settori, si tentò di cancellare il 25 aprile. Una storia vecchia: un ministro della P.I., nel decennale della Liberazione, si era già concesso l’impudenza di emanare una circolare con la quale invitava le scuole a celebrare il 25 aprile, data di nascita di Guglielmo Marconi (25/4/1874). La mania del revisionismo divenne pratica quotidiana, molti libri di storia non ne furono esenti: la Resistenza si cercò di farla passare come guerra civile, mentre i partigiani –spesso-furono descritti come crudeli assassini, i loro crimini gridavano ancora vendetta. Berlusconi si consentì anche il lusso di raccontare che non era affatto vero che gli antifascisti erano stati mandati in esilio da Mussolini; erano stati mandati semplicemente in villeggiatura. Qualcuno dovette anche crederci. Ognuno diceva e faceva qualcosa di diverso. Bossi invitava i suoi padani a non riconoscere la Repubblica, Fini chiedeva scusa agli Ebrei ma non partecipava alle celebrazioni pubbliche per la Liberazione; lo stesso Berlusconi, presidente del consiglio dei ministri, bucò ogni appuntamento per commemorare la data del 25 aprile, preferendo riposarsi al sole della Sardegna o nel rifugio di Arcore. Furono quotidianamente calpestate le idee e le azioni di Feruccio Parri e Piero Calamandrei. Ma chi se ne accorse? Il richiamo ai reality era più potente di ogni nobile passato.
E questa non è solo storia passata, è storia di oggi.
E’ una storia che si scrive giorno per giorno, nelle grandi città e nelle piccole realtà di provincia. Cos’è il 25 aprile? Cosa ha significato per l’Italia? Cos’è stata la Resistenza. A parlare di quei giorni, in Italia, e a difenderne i valori, sono rimasti veramente in pochi. Anche la scuola, purtroppo, contribuisce a cancellare memoria del 25 aprile; tra molti utenti della scuola si sa che, quest’anno, la fatidica data segnata in rosso sul calendario cadrà di lunedì, l’ideale per allungare il fine settimana!
Solo nei luoghi delle stragi naziste o sulle lapidi che ne perpetuano il ricordo qualcuno volgerà un pensiero a Gennaro Capuozzo o Adolfo Pansini, a Lenuccia o Armando Salvati, alcuni dei caduti nei combattimenti delle Quattro Giornate a Napoli, preludio alla lotta di liberazione nazionale.
Ora che mi son fatto “di una certa età”, vivo sempre in una realtà di provincia, ma passo la mia giornata nella città. Chiedo in giro, dialogo, ascolto, mi confronto: il 25 aprile è caduto in disuso! Anzi, molti ne ignorano l’essenza e la ragione della celebrazione. E’ sempre più pressante, perciò, il dovere di ricordare e far ricordare, di raccontare ciò che successe e la strada che prese la storia dell’Italia repubblicana, di far quadrato intorno alla carta costituzionale ed ai principi che ne consacrano i valori di democrazia e di antifascismo. Solo così potrà avere di nuovo senso la data del 25 aprile; solo così potranno avere significato di testamento le parole scritte sui certificati rilasciati ai partigiani, che riuscirono a tornare alle loro case. Come quello che aveva in tasca il partigiano Nino –un concittadino, mio amico-, contrassegnato dal n. 220152 e nel quale si riconosceva che “nell’Italia rinata, i possessori di questo attestato saranno acclamati come patrioti che hanno combattuto per l’onore e la libertà e col loro coraggio e la loro dedizione hanno contribuito alla liberazione dell’Italia e alla grande causa di tutti gli uomini liberi”.