Lei era giovane, non ancora trentenne, bella, simpatica, con la carnagione scura e la chiacchiera azzeccosa. Io avevo meno poco meno di sei anni e per pochi giorni (ero nato 16 dopo la fine dell’anno solare, quando a scuola non esistevano gli anticipatari) non avrei potuto iscrivermi alla prima elementare. Allora, lei, che quell’anno cominciava proprio il primo ciclo, convinse mia madre a farmi frequentare la prima classe da uditore. Si assunse completamente la responsabilità di tenere “un alunno clandestino” e assicurò la concreta possibilità che potessi essere iscritto, l’anno successivo, previo esame, alla seconda classe delle elementari.
Così, lei, Flora Romano, che abitava sopra l’emporio gestito da mia madre, in via Casaraia, ogni mattina mi prendeva per mano e mi portava nella sua classe. Mano nella mano, stando attenta ai pochi autoveicoli dell’epoca, mi introduceva in un’aula ricavata nella canonica della chiesa di San Pietro, al Casamale. Era una classe numerosa, formata da tutti maschietti in grembiule nero e colletto bianco con fiocco blu. Con grande amore ed arte -oggi, si parlerebbe di metodologia e didattica – la maestra Flora Romano ci insegnò a scrivere, cominciando dalle asticelle, passando, poi, alle vocali ed alle consonanti, che lei riproduceva alla lavagna e ci invitava a copiare. Dapprima erano veri e propri sgorbi, poi prendevano forma e, quindi, diventavano segni eleganti, grazie agli esercizi di bella scrittura (calligrafia), a cui continuamente ci obbligava.
La maestra Flora Romano ci insegnò, quindi, i numeri e ci insegnò anche a leggere. Dapprima era proprio uno sforzo inumano mettere insieme i suoni delle lettere scritte sul libro. Ma lei insisteva con passione e, alla fine, ciascuno di noi riuscì a leggere una parola, poi, una piccola frase e, quindi, una pagina del libro. Chi lo faceva con difficoltà, chi con scioltezza ma tutti cercavamo di farlo con espressività, cosi come ci aveva insegnato la nostra maestra.
L’anno scolastico ebbe fine; io sostenni l’esame da privatista e fui iscritto alla seconda elementare, in via Roma, nel plesso centrale, dove fui affidato, fino alla classe quinta, alle cure di un altro bravo maestro, Francesco Cozzolino.
Però, più di tutti, la maestra Flora Romano mi è rimasta nel cuore. Per la sua bontà, per la sua umanità, per la sua dolcezza e la sua eleganza, come la maestrina con la penna rossa della scuola di deamicisiana memoria.
Ho frequentato a lungo anche la casa della maestra Flora. Infatti, ero solito salire a giocare con i suoi due figli (Alberto e Patrizia), più piccoli di me, e intrattenermi con loro di pomeriggio davanti alle storie televisive di Rin Tin Tin e di Lassie. C’era nonna Elisa a sorvegliare i nostri giochi; c’era Rafilina, una fidata collaboratrice familiare, alla quale niente sfuggiva ed, infine, c’era la cantilenante parlata calabrese del marito della maestra, il dottore Tommaso Diaco, con i suoi occhialini bianchi, con i suoi capelli ondulati, col fascino misterioso che un tempo emanavano tutti i medici, considerati nell’immaginario collettivo un po’ santi e un po’ stregoni.
La maestra Flora, la mia maestra, se ne è andata in un giorno di questo mese di aprile. Ed io sono andata a salutarla per l’ultima volta. Le ho raccontato molto di me e molto di lei ho saputo. È stato un colloquio muto. Il suo corpo era freddo sul letto di morte; ma la sua anima aleggiava in quella stanza. Mi è sembrato di godere di nuovo del calore della sua mano; mi è sembrato di trotterellare accanto a lei sulla salita ripida del Casamale; mi è sembrato persino riascoltare la sua voce mentre bonariamente mi riprendeva, perché si scrive coda e non goda come hai scritto tu!
Ciao, maestra! Per tutto il tempo che mi resta, quando passerò sotto casa tua, continuerò a guardare se sei sempre dietro la finestra. E sempre ti manderò un bacio.
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Contemporaneamente alla mia maestra se ne è andato anche Franco Naddeo. Siamo andati a scuola insieme alle elementari e alle medie. Ma non ci siamo mai persi di vista per tutto il resto del tempo della nostra giovinezza e dell’età adulta. Specie di domenica ci incontravamo in piazza a commentare i fatti della nostra comunità con ironia e un pizzico di amarezza, per ciò che poteva essere e non era stato!
Gli anni della scuola elementare frequentata con Franco, oggi, mi sembra di averli vissuti pari pari come nelle pagine del libro Cuore. Il maestro Perboni era uguale al maestro Francesco Cozzolino, quello avuto dalla seconda alla quinta elementare e del quale noi alunni non abbiamo mai saputo se avesse o meno famiglia. Tra i miei compagni di classe Pietro Mosca era Garrone: era il più grande della classe, testa grossa e spalle larghe; Antonio De Falco era Votini, sempre ben vestito; Luigi Pentella era Franti, ripetente e sempre senza quaderni; Mariano Barra era Precossi, il figliuolo del fabbro ferraio (ma il papà di Mariano era maniscalco). Derossi, quello che aveva più ingegno di tutti, chi poteva essere? Ma, forse, era diviso tra Mimmo Costa, Pietro Vernillo e Franco Naddeo (tifoso sfegatato, lui, dello svedese Kurt Hamrin [il mitico Uccellino] e della Fiorentina). Pietro Ossorio, invece, era tanto simile a Crossi: povero di famiglia, volenteroso a scuola, umile di carattere.
I miei tre compagni di scuola che potevano essere Derossi sono volati via tutti. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato proprio Franco. Ero legato anche alla sua famiglia. Il suo papà era un bravissimo artigiano; fu proprio lui a costruire una solida scaffalatura per libri su richiesta di mia madre. Io ne andavo molto fiero di quel mobile artigianale: perché era stato fatto per me (e i miei libri) e perché l’aveva costruita il papà di un mio mio compagno di scuola. Era, quella scaffalatura, una sorta di estensione della nostra amicizia, un ritrovo sicuro delle nostre letture, un ricovero per i nostri sogni, anche i più innocenti. Sia che si vestissero delle sembianze di D’Artagnan o di Robin Hood, sia che indossassero i pantaloncini corti con i calzettoni alle caviglie come il vecchio Kurt o il mitico Antonio Valentin Angelillo, l’angelo dalla faccia sporca.
Buon viaggio anche a te, Franco. In attesa che quella nostra classe si ricomponga tutta, non perdere la tua ironia, il tuo candore e la tua umiltà. E, soprattutto, tieni uniti tutti i nostri sogni, quelli che ci hanno fatto crescere ed invecchiare, facendoci schierare sempre dalla parte dei più deboli e facendoci rifiutare i salti sui carri dei potenti. Un bacio.