Certi discorsi sembrano ridicoli, parlano
di somari, di certi che fanno i metalmeccanici
o i calzolai oppure i conciatori, e sembra
che dicano sempre le stesse cose con le solite
parole. Uno senza cultura
(e senza intelligenza) li sente e
si mette a ridere. Ma apriteli questi
discorsi, cercate di entrarci dentro:
soltanto nel loro profondo voi scoprirete
quanto sono intelligenti, e vi sembreranno
ispirati e pieni di simboli affascinanti,
e ne capirete la grande tensione,
e quanto badano a tutto quello che
serve per diventare una persona a posto.
(Platone, Il Banchetto, 221-222)
Il 28 agosto del 1989, venticinque anni fa, nella stessa giornata in cui si stavano celebrando -a Villa Literno- i funerali del sudafricano Jerry Essan Masslo[1], moriva, a Somma Vesuviana[2], Lucio Albano, il più alto testimone della cultura popolare che mai quella terra avesse espresso. Avvengono strane combinazioni nella vita di un uomo! Se ne avesse avuto il tempo sicuramente Lucio Albano avrebbe chiesto di farsi accompagnare ad onorare le spoglie di Masslo, perché aveva una grande considerazione per le diversità e, perciò, un grande rispetto per l’uomo a qualsiasi razza, religione o condizione sociale appartenesse. Durante la veglia funebre, come di norma accade nella tradizione paesana ed ancor più in quella contadina, nel raccontare episodi in vita dell’estinto, molti ricordavano di una tappa a Boston, quando aveva minacciato di mandare a monte tutta l’organizzazione, se al tavolo del ristorante non fosse stato ammesso anche l’autista di colore che lo aveva accompagnato ed al quale era stato inibito l’accesso.
Lucio Albano era nato a Napoli, all’Immacolatella Nuova, il 12 gennaio del 1913. Era l’ultimo di dieci figli; i suoi genitori, proprietari di un’osteria, lo avevano affidato, per 14 soldi al mese, a Maria Cerciello, sommese della Casa a Tre Pizzi, alla quale da poco tempo era morto un figlio di nome Gennaro. La povera donna –fortemente provata dalla drammatica e precoce perdita di un affetto tanto caro- si era cullata nell’illusione di aver ritrovato il suo bambino e così Lucio era diventato, per tutti e per sempre, Gennaro. In seguito, poi, fino al giorno della sua scomparsa (e in tutti gli anni che da quella data si sono cominciati a contare), era stato solo zi’ Gennaro ‘o gnundo[3].
Lucio Albano era alto, magro anzi ossuto; aveva il volto scavato, scolpito come una maschera. Era di un’onestà e di un senso della giustizia senza limiti. Era, soprattutto, un fedele devoto della bella mamma –così come aveva caro rivolgersi alla Madonna di Castello[4]– anzi, ne era quasi un amante. Con la bella mamma, infatti, aveva un rapporto confidenziale, a tu per tu, come lo può avere solo una persona di famiglia, che giustificava raccontando: “Moltissimi anni fa, fui colpito da una violenta malattia; non potevo nemmeno parlare, ma capivo. La visita costante dei miei amici e le lacrime di mia moglie mi facevano capire di essere prossimo alla morte. Non so se in veglia o in sogno, mi rivolsi alla Madonna di Castello dicendole: Io ti voglio bene, ma tu non ne vuoi a me; mi fai morire giovane e con i figli piccoli. La Madonna apparve ai piedi del letto e mi ammonì, dicendo: chi te l’ha detto che muori?”[5].
Per la festa della sua montagna e per quella della sua Madonna – dal sabato in albis (il sabato dei fuochi) al tre maggio (il tre della croce)[6]– Lucio Albano era solito riunire tutti, familiari ed amici, alla Novesca, sul monte Somma, dove aveva fatto erigere una piccola cappella (la cappella d’’o gnundo), emblema della sua devozione mariana. Lì, tra balze e ginestre, Zi’ Gennaro, dopo aver salutato, con giaculatorie e occhi imploranti, la Madonna[7] col solito affetto filiale, capeggiava una sua paranza[8], che dirigeva con gesti di consumato artista, con uno stile e con movenze da grande direttore d’orchestra, tanto che, una volta, il maestro Roberto De Simone[9], nel corso di una conferenza sulla cultura popolare nella zona vesuviana, aveva detto: “parlare di zi’ Gennaro è come parlare di Eduardo De Filippo, ultimo altissimo esponente di una tradizione teatrale”. E non per caso, forse, quell’antica maschera di contadino –con i calli alle mani e la camicia pregna del sudore di chi si spacca la schiena a dissodare le zolle- vantava anche una certa somiglianza nei tratti somatici, nello sguardo indagatore, nelle pause e nei pensieri che infilava come quelli di un Luca Cupiello o di un Antonio Barracano, il “sindaco del Rione Sanità”.
In occasione, infatti, della festa della montagna di Somma e della Madonna di Castello, nello spiazzo antistante la cappella d’’o gnundo, arrivava gente da tutte le parti e, col passare degli anni, aumentava all’inverosimile. Alla Novesca si davano appuntamento il popolo delle favole e quello dei mestieri umili, il popolo della ricerca accademica e quello dell’età dei giochi. C’erano contadini umili e imbarazzati tra la folla sconosciuta, uomini coi calli sulle mani ed i solchi della fatica sui volti; c’erano donne altere e rubiconde, ancora intrise degli aromi della pastiera di grano o della pizza rustica; c’erano etnomusicologi ed antropologi -con i loro registratori e le loro macchine fotografiche-, che rispondevano al nome di Paolo Apolito[10] ed Annabella Rossi[11], di Anna Lomax[12] e dello stesso De Simone. Tutto intorno alla cappella della Novesca, subito dopo la celebrazione della messa e l’offerta della perteca alla Vergine Maria, si mangiava abbondantemente; i bottiglioni di catalanesca erano di carta assorbente; poi, subentravano i ritmi del ballo scanditi dagli strumenti poveri della tradizione popolare[13], che, al calar delle tenebre, si assopivano nel brillio dei fuochi d’artificio. A chiusura della festa, zi’ Gennaro (o, a volte, il cantatore più anziano della paranza), con la voce rotta dalla commozione, salutava la Madonna e tutt’’a cummertazione[14], ricordando “ca cheste nun se chiammano feste,/ se chiammano devuzione a chella vergine santa, bell’overo,/ d’o cantà a figliola…”. Quando zi’Gennaro intonava il suo canto, un brivido correva lungo la schiena di tutti quanti l’ascoltavano; la sua voce sembrava provenisse dalle viscere della terra e salisse verso il cielo. Cantava pregando e pregava cantando per quell’unica donna-madre-madonna, la Vergine di Castello, che era stata la guida della sua vita. “Da quando avevo otto anni, avendo frequentato solo per pochi mesi la scuola, sono stato in giro sui carretti per Benevento, Agropoli, Mercogliano, i mercati di Napoli, per acquistare e per vendere frutta ed altri prodotti della terra. Ho passato notti intere a cantare per esorcizzare la solitudine o il freddo o il sonno. Cantavo i canti dei contadini, ripetevo i motivi popolari che un’antica paranza della zona vesuviana modulava ogni tre maggio in onore della Madonna di Castello. Una era, a sorpresa, dovendo offrire la perteca[15] ad una giovane sposa, vollero che fossi io, un ragazzetto di nemmeno dieci anni, ad innalzare il canto. La cosa riuscì talmente bene che mi ritrovai legato a doppio filo alla paranza e non ne uscii più.”
Zi’ Gennaro era unico ed inimitabile; con la sua voce dolce ed intonata faceva avvicinare al paradiso; era amore e passione, seduzione e malia. Una volta, in una delle tante feste organizzate dalla paranza d’’o gnundo, dei giovani osservatori avevano chiesto a Fausta Vetere quale fosse il segreto del canto a figliola[16]; l’artista aveva risposto che non c’era una tecnica precisa per cantare il canto a figliola; bisognava, invece, osservare l’intensità della devozione e dell’espressione di fede di chi quel canto intonava. A sostegno della sua tesi, poi, la stessa Fausta aveva raccontato di una volta in cui zi’Gennaro, preoccupato per un principio di raucedine, aveva detto: “Signo’, nun tengo voce”; e la bella signora –così come Lucio Albano chiamava Fausta- aveva risposto: “zi’Genna’, voi non avete bisogno della voce, perché quando cantate siete enorme, diventate un gigante”[17].
La grandezza di Lucio Albano era racchiusa nella capacità di aver saputo insegnare a tutti quanti gli avevano voluto bene a non piangere, nemmeno nel giorno del suo funerale. Egli, infatti, sapeva -da sempre- di aver vissuto in un luogo drammatico, in una delle terre più belle ma fra le più ricche di contraddizioni, di sofferenze, di disagi[18]. E aveva voluto lasciare in eredità, insieme alla testimonianza di una persona sommessa, umile, discreta, la carica e la capacità di un uomo semplice nell’allargare i confini della cultura, nell’indicare ciò che era, secondo la sua visione della vita, veramente importante nel percorso terreno di un uomo: l’uguaglianza sociale, l’onestà, la disponibilità ad amare, la devozione per la Madonna di Castello.
Lucio Albano non aveva mai amato la retorica, le luci dei riflettori, le parole affettate, le strette di mano date per convenienza. Aveva avuto un rapporto ancestrale con la terra, quella nera e dura dei contadini, l’aveva amata con la passione e il sentimento, che santificano e cementano un grande amore: “mariulizia e puttanizia s’arap’’a terra e ‘o dice; sul’’a terra te dice ‘a verità. Se l’hai curata ti dà frutti, se ci sei stato in comunione ti ripaga”[19]. E questa sua struttura caratteriale l’aveva indotto a non fare mai sconti a nessuno, nemmeno alle persone più vicine. Riconosceva, infatti, meriti e professionalità ma sempre con molto distacco e freddezza: “Roberto De Simone è un grande studioso, ci ha fatto andare in America in occasione del bicentenario della nascita degli USA[20], però, si è servito delle nostre fatiche e delle nostre canzoni. Ha approfittato di un terreno ricchissimo, ha raccolto i nostri canti in cofanetti e noi non ne abbiamo mai tratto un beneficio. Paolo è, invece, un ragazzo serio, gli voglio bene, non ha approfittato di niente. Anna Lomax è una persona di famiglia, quando viene in Italia per le sue ricerche è sempre a casa mia. Si è creata veramente un’amicizia molto bella, come col padre, Alan[21]”.
Con la sua morte, tuttavia, Lucio Albano, come cantava il poeta latino (Non omnis moriar[22]), non sarebbe morto del tutto. Era riuscito a sopravvivere nell’impegno sempre profuso per la costruzione di un futuro per i giovani. Era riuscito a sopravvivere nella certezza che quello dell’amore, della fede –“la fede è quando una persona è sincera, onesta con tutti-, dello stare insieme in comunità potesse essere l’unico futuro possibile. Oltre ci sarebbe stata solo autodistruzione.
Somma Vesuviana, madre e matrigna per molti suoi figli, gli ha intitolata una strada[23]. E’ stato un grande passo sul sentiero che porta al recupero della memoria: “A Lucio Albano, contadino”. E, forse, poeta in paradiso.
Ogni volta che l’avevo incontrato, zi’ Gennaro era sempre stato prodigo di attenzioni e non aveva mai tralasciato di mandare saluti a mio padre, col quale aveva diviso la prigionia nei campi inglesi del Sudafrica insieme ad Alfonso Coppola (zi’Fonzo ‘o cafone, capostipite dei proprietari del ristorante ‘O cafone), Emilio Giordano (‘o pataccone [grosso, massiccio]) e Gennaro De Falco (Gennarì, capostipite dei proprietari di una catena di supermercati). Si erano ritrovati, nel 1942, dopo che i reparti italotedeschi, al comando del generale Erwin Rommel, erano stati sconfitti, nella battaglia di El-Alamein, dalle truppe alleate del generale Bernard Law Montgomery. Mio padre aveva sempre raccontato che l’incontro con alcuni suoi concittadini l’aveva aiutato a superare giorni terribili. Insieme, infatti, avevano diviso il pane e la speranza, i sogni e la nostalgia. Erano stati fratelli e, lanciandolo oltre il filo spinato che delimitava i diversi campi di reclusione, si erano passati il sapone, il dentifricio, il sogno di poter tornare nella loro Somma. Insieme erano stati obbligati a marciare nella sabbia del deserto, sotto il sole rovente; insieme avevano sofferto la sete; insieme si erano dissetati con l’urina degli animali; avevano visto cadere, disidratati e sofferenti, tanti commilitoni, che, solo grazie alla pietà dei soldati inglesi, avevano smesso di patire con un colpo di pistola alla testa. Tutti insieme avevano confidato solo nella protezione[24] della Madonna Schiavona, la bella mamma, la cui effigie qualcuno di loro aveva riprodotta con un carboncino su un cartone, che ancora oggi è esposto, tra gli ex voto, nel piccolo santuario di Santa Maria a Castello.
Non per caso mio padre, nella narrazione della “sua” guerra, era solito concludere: “È vero, sono stato fortunato. Ma è anche vero che a me la Madonna mi ha sempre voluto bene!”
Lucio Albano era sì un capo paranza ma anche un sacerdote, un mistico, un punto di riferimento per tutti quanti avessero avuto bisogno di aiuto –materiale ed economico-, di una parola di conforto, della saggezza di un uomo antico.
Aveva passato la sua vita a contatto con la terra (la campagna), ne aveva sposato gli umori, ne aveva curato la fioritura in innumerevoli primavere, l’aveva cullata con una ninnananna antica per settantasei anni: “Ogni lavoro si fa con affetto e passione. La vita del contadino è faticosa, però, ti dà soddisfazione”. E per settantasei anni filati aveva lavorato la terra con la vanga, la zappa, la ronca, mai trascurando, però, le chiamate mistiche o gli incontri misteriosi di una comunità e di un tempo affollati di spiriti e munacielli, anime vaganti di morti uccisi, magie di fate, di lupi mannari e belle ‘mbriane[25]. Ci voleva un niente, infatti, perché Lucio Albano cominciasse a raccontare di rimedi contadini, di bambini curati di ernia solo facendoli passare attraverso un tronco spaccato di una quercia, di mammane che praticavano sortilegi, di cavalli trovati con criniere intrecciate, di anime di morti in perenne lamento fin quando non venivano purgate dal rito di una messa o dall’immagine di un santo.
Personalmente ho un ricordo ancora vivo della venuta –non so come o meglio lo so, fu solo per amicizia ed affetto- di Alan Lomax[26] a Somma Vesuviana. Zi’Gennaro e Giovanni Coffarelli[27] erano riusciti, infatti, nell’impresa di portare l’illustre ospite americano, impegnato in una conferenza a Firenze, nella tribolata terra vesuviana. C’era una grande apprensione fra tutti noi che eravamo vicini ai due antropologi nativi. Già la stessa venuta in Italia del Lomax era stata sofferta. Non avevamo, infatti, alcun riferimento certo; il nostro unico tramite era Giovanni, il mitico Giovanni che non riusciva a dire una parola in italiano, che diceva Vuosc per dire Washington o polvere d’arco per dire borotalco o è ghiut’’o treno dint’’e fave per dire che si era di fronte ad una situazione irrecuperabile, drammatica. Ed era stato proprio Giovanni che mi aveva telefonato trionfante, per annunciarmi: “ Gì, ‘o professore vene a Firenze, me l’ha ditte Odisseo[28]”. Meravigliato avevo risposto: “E tu mica capisci l’inglese...!” E l’ineffabile Giovanni mi aveva inchiodato dicendomi: “No. Ma Odisseo parla greco e l’aggio capito ‘o stesso”. Poi, in una notte di metà novembre del 1986, Alan Lomax era partito alla volta di Somma Vesuviana, perdendosi, però, tra le nebbie pontine. C’erano stati momenti di grande tensione. Accompagnati da una pattuglia di vigili urbani erano partiti alla ricerca dell’etnomusicologo americano zi’ Gennaro e Giovanni. Mistero dei misteri: senza telefoni mobili, senza navigatori, senza alcuna indicazione certa se non l’intuito, il fiuto (l’uòsemo, l’annasamento, come quello dei cani), che accomuna tutti quelli dotati di uguale sensibilità, lo avevano scovato, all’alba, in un albergo dalle parti di Formia. Prima di fermarsi tutti insieme davanti ad una ricca colazione, zì Gennaro mi aveva telefonato: “Prufesso’, state tranquillo, l’aimme truvato. Ce mangiammo ‘na cusarella e po’ nce ne turnammo”.
Poi, la sera di quell’ormai lontano 14 novembre 1986, Alan Lomax, nel corso della una conferenza sul “Valore antropologico della cultura locale”, aveva detto che il folklore serve a creare un legame stretto tra il passato e il presente, per evitare di mandare in frantumi la società contemporanea. Ed aveva aggiunto che l’integrazione tra il vecchio e il nuovo, tra gli anziani ed i giovani, era possibile solo attraverso la conoscenza ed il rispetto delle culture popolari. Quindi, aveva definito zi’ Gennaro “ambasciatore di pace tra i popoli”. E zi’ Gennaro, tra un silenzio commosso e composto del pubblico presente in sala, aveva intonato il suo canto di ringraziamento alla Madonna di Castello. Paolo Apolito era in lacrime; Angelo Di Mauro aveva aggiunto sottovoce: “quando canta zi’ Gennaro, si apre il paradiso”.
Domenica 1 ottobre 1989 era una giornata mite, quasi calda. Fu grazie all’interessamento e alla collaborazione dell’allora sindaco di Somma Vesuviana, avvocato Vittorio Piccolo, e del maestro Salvatore Rea, che ero riuscito a organizzare – a poco più di un mese dalla sua scomparsa- un incontro in memoria di Lucio Albano. C’erano molti amici, quel giorno, nella sala del cenacolo in Santa Maria del Pozzo. Ricordo molto nitidamente che, quando stavo per entrare nel chiostro che mi avrebbe portato al cenacolo, Giovanni Coffarelli si stava interrogando ad alta voce sul significato dell’espressione funerale laico (in realtà un trigesimo laico), così com’io avevo definito quella manifestazione.
Al tavolo della presidenza col sindaco e con me, quella mattina, erano seduti Paolo Apolito, Angelo Di Mauro[29], Elisabetta Pace Papaccio[30] e Fausta Vetere. Introdussi io i lavori e non ho memoria di quanto dissi, perché ero molto emozionato e mi dimenticai di avviare il registratore. Errore che non si ripeté per gli interventi successivi dei quali, perciò, è rimasta testimonianza incancellabile.
C’era un silenzio religioso, quasi mistico. L’attenzione di tutti era altissima e i miei pochi pensieri sgorgarono dalle praterie del cuore senza passare per la sintassi della mente. Volavano quelle parole e consegnavano ricordi, sentimenti, passioni che si posavano tutti negli occhi di una donna minuta e commossa seduta in prima fila, zi’Emilia[31], la moglie di zi’ Gennaro.
Dopo di me, ancora più emozionato e con le lacrime agli occhi, prese la parola Angelo Di Mauro. Egli per tutti noi –amici e concittadini- era e restava sempre e solo Angelino, quello che aveva animato l’ormai antica gioventù sommese con la Viribus Unitis, con le zingarate a Palinuro, con le comitive del Circolo Sociale e, poi, con la passione sempre viva (supportata da un registratore a tracolla e una vecchia agenda per appunti) del ricercatore/indagatore/curioso di fatti e uomini, che erano stati testimoni di storie locali. Angelino, di zi’Gennaro, ne aveva già parlato, esaurientemente, anche in alcune sue pubblicazioni. “Non serve voler bene per tenere in vita i genitori o i figli, altrimenti zi’ Gennaro starebbe ancora qui. O l’amore seminato, gioito davanti a tavolate tra le ginestre, davanti ai camini autunnali a tessere memorie, giocando a rimpiattino di festività in festività, non è bastato a farci immortali? Poi giungeva, improvvisa, la festa di Castello preparata nelle notti d’inverno, come un raccolto gestito e incentivato da piccoli atti. Dalle sedimentazioni di volontà e sentimenti della comunità nasceva la festa per la Madre Schiavona, consolazione dei derelitti, propiziatrice del raccolto e della serenità delle famiglie. Unico baluardo alle inesorabilità delle calamità, delle malattie, del correre del tempo. Zi’ Gennaro, che aveva goduto dell’amore della madre adottiva, rievocava ogni volta una Madonna in latte per tutti. Egli non aveva avuto il tempo d’accorgersi della sua condizione d’adottivo, perché subito risucchiato dal lavoro dei campi.”Era l’ebbreca d’’a miseria e ‘o carcere era oscuro oscuro” –diceva lui. Su in montagna a lavorare da ragazzo, quando i morsi della fame l’assalivano e la terra aveva consumato tutta la frutta lasciata alle fanciulle belle, egli tendeva l’orecchio al venditore ambulante di lupini, che saliva col carretto dalla Piazzolla e mandava avanti la voce per i vicoli, sopra le case e gli alberi, come un aquilone. Quella voce, quando giungeva all’acquolina in bocca di Gennaro, sapeva di lupini, odorava di sole ma non sfamava. Eppure era un miraggio di luce lontana, un desiderio di giochi mai fatti. Un giorno zi’ Gennaro portò la merenda ai braccianti. Nel lagno, tra la terra fine, cercata dai piedi scalzi, trovò una talpa, ‘o trappino –diceva lui- chille ca tene ‘e mane comme ‘e cristiane. La mise in tasca e, durante la pausa dei lavori, quando i braccianti si stendono nei solchi a sonnecchiare, la infilò nei calzoni di un contadino. La talpa interpretò a dovere il ruolo assegnatole dal giovane Lucio e cercò una via d’uscita nell’inguine del contadino. Salti ed urla tra i solchi novelli, corse e rincorse tra sferzate di frasche urtate. Quella sera zi’ Gennaro non poté dormire a casa.
I cavalli furono una sua passione; forse, ne esprimevano l’indole. Avviato giovanissimo a trasportare frutta da Battipaglia, durante i viaggi notturni si stringeva nelle spalle e parlava al cavallo. C’erano i ladri sulle salite di Cava dei Tirreni e due occhi piccoli e tanto coraggio non bastavano. L’inverno, i freddi, le piogge, tutto giù senza distinguere tra uomini al lavoro, ladri e animali… E la malaria in agguato negli acquitrini di Battipaglia! Una notte alla Dogana di Salerno fu portato un ragazzo intirizzito: nun arrivave a spagliuccà parole –diceva zi’ Gennaro. Il cavallo riprese fiato e zi’ Gennaro fu ristorato dalle guardie della garitta. E pensare che un tempo –ricordava lui- i carrettieri di Somma arrivavano fin nel Cilento a prelevare le cerze, le querce, che poi servivano da torchio in immense cantine. Zi’ Gennaro, amico dei cavalli, non mancava mai alla benedizione e alla corsa di sant’Antuono. Quella giornata era dedicata al suo compagno di viaggio; lo lavava, lo metteva ad asciugare sotto un albero con una coperta addosso, perché il pelo brillasse di più; gli passava del grasso blu sugli zoccoli, lo copriva con un manto ricamato e con collane e corone di fiori e confetti…
Poi zi’ Gennaro si fece anche le privazioni della guerra, senza che gli estirpassero dal cuore la gioventù e l’amore per la sua terra. Conservò la voce pulita d’un tempo ed al ritorno intonò un canto pregno di fatica ma ormai riconosciuto e portato in giro per il mondo. Cos’era il suo canto lo sa Antonio De Luca, zi’ Ntonio ‘o Masano[32]!
Tutti sono capaci d’amare; non tutti, però, sanno fartelo sentire. Zi’ Gennaro era uno di questi fortunati. Quando ti incontrava ti trasmetteva fisicamente il suo entusiasmo di vivere, il suo amore per le piccole cose, come per le grandi. Come ti parlava lui di Dio e della Madonna non l’ho sentito fare ad altri. Se non erano lì con lui, su quel vecchio tamburo della credenza o tra le immagini dell’altarino di casa, certo erano lì vicino… Bastava che lui allungasse la mano, uno sguardo alla moglie, un monosillabo, e pareva che zi’Emilia si alzasse dal suo claudicare lento, passasse il velo dell’altra stanza in penombra e ritornasse, da lì a un momento, con qualcosa di invasivo tra le mani. Gesti che rischiaravano i nidi di pace che il tuo cuore aveva smarrito da tempo. Quella magia d’estate poteva all’improvviso materializzarsi in un bicchiere d’acqua, limone e ghiaccio.
Dopo la caduta notturna, zi’ Gennaro si alzò su un fianco nel letto, forse nascondendo dolori e un dubbio atroce sulle sue condizioni di salute, e raccontò quella forza triste e crudele che lo aveva piegato in una notte di sete. Si accomunò alla moglie e alla cognata in un moto d’ironia sulla vecchiaia:
Se ‘nzora Minisso
Se piglia a Minessa
Povere ‘e figlie che veneno appriesso.
Alla moglie che l’assisteva in ospedale chiese di andare a casa: -Altrimenti ti avvilisci pure tu- le disse. Zi’ Emilia non lo lasciò mai. Lo esaudì, invece, nella richiesta di scendere in giardino, una volta a casa, licenziato dall’ospedale.
Si doveva “spartere” la terra come ogni buon cristiano che si accinge a liberare l’anima. Con la giacca sulle spalle si affacciò sull’uscio della porta: dal giardino gli vennero incontro tutte le benedizioni che dalla Novesca aveva egli stesso nel tempo calato sui campi e sulle persone. Gli si fecero avanti col sole tra i limoni, con il profumo del basilico, con la corsa della gallina… Gli brillarono gli occhi, l’anima s’era “allariata”; ingoiò il mondo per un’ultima volta: “Quanta fatica avimme fatta, Emì!”-sospirò verso la moglie. Due passi ancora e poi: “Come vuole nostro Signore”. Si consegnò nelle braccia di Mamma Schiavona, senza dolori, parlando a chi gli stava vicino come da sogno lontano.
Tenera m’è sembrata la terra che l’ha coperto, senza pietre, bruna, carica di raccolti ancora da fare. Crescono e cresceranno le viti di lui piantate nel mio giardino, anche nel mio giardino, con un lungo pesante palo di ferro. Ogni autunno continueranno a parlare di chicchi d’oro, di vino stivato, di amici che si sono cresciuti gli uni con gli altri… Era così facile trovarlo a chiacchierare con gli anziani e i bambini, con le ragazzette e le donne fatte, senza mai un’ombra nello sguardo. Ma quando è venuta l’ora, Dio lavora, direbbe lui. Ed ora qui rimangono catturate le sue parole, i suoi sentimenti.
Nel giorno del lutto mi disse: “Non piangetela più, vostra madre non avrebbe piacere. Rassegnatavi!” Com’è difficile ancora una volta rassegnarsi, zi’Gennaro!”
Paolo Apolito non era mai mancato a una festa della montagna ed ai riti in onore della Madonna di Castello. Al tuoro[33] della Novesca era una presenza fissa. Come era una presenza fissa nelle ricerche sulla cultura popolare vesuviana, che cominciavano tutte in casa Coffarelli e in casa Albano. Si racconta[34] che quando il giovane Apolito si presentò per la prima volta da zì Gennaro, per fare ricerche sulla cultura popolare orale, sia stato così accolto dal vecchio capo paranza: “Tu sei entrato qui da straniero e te ne esci come un figlio. Ora fai parte della famiglia”. Conosco Paolo da oltre trent’anni e posso garantire di averlo visto pochissime volte emozionato come, invece, accadde in occasione della commemorazione di zì Gennaro. Da un vero figlio che aveva perso un padre.
“Forse avrei dovuto scrivere questo intervento, per precisare meglio le idee e non farmi prendere dalla commozione. Ma, forse, se avessi scritto qualcosa, avrei considerato anche chiuso il mio rapporto di pensiero con zi’Gennaro. Invece non ho scritto nulla e mantengo un rapporto aperto, una partita non chiusa con quest’uomo. Una cosa che mi ha colpito, ascoltando le parole di chi mi ha preceduto e che dà il segno della grandezza di zi’Gennaro (perché zi’Gennaro era un grande), è che nessuno di noi ha pensato a qualche suo bisogno, a qualche sua necessità; nessuno di noi ha pensato a qualche sua sofferenza rispetto alla quale noi avremmo dovuto dargli qualcosa. E tutto ciò che noi riusciamo a pensare di quest’uomo è ciò che quest’uomo ha dato a tutti noi; tutto ciò che riusciamo a pensare di zi’Gennaro è la sua enorme capacità di dare; questo è il segno della grandezza di un uomo. In genere ciascuno di noi –io, piccolo uomo- guarda e pensa agli altri soprattutto in funzione di quello che gli altri riescono a dare e soltanto a questo prezzo sono in grado di dare qualcosa agli altri; non sono capace di dare senza mai chiedere. Quest’uomo in fondo non ha mai chiesto nulla a nessuno di noi, spero che qualcuno mi possa smentire, perché se non c’è nessuno che mi può smentire ebbene allora dobbiamo per forza dire –fuori da ogni retorica- che quest’uomo è stato di una grandezza umana isolata, l’amore che un piccolo paese come Somma, una piccola regione come la Campania, una piccola nazione come l’Italia, non son capaci di contenere. Se il termine “storia” non fosse così usato ed abusato dalla scuola, a torto o a ragione, io direi che zi’Gennaro è un grande della Storia; se dovessi pensare alla storia come la creazione che gli uomini fanno della vita, come la realizzazione che gli uomini fanno della loro vita. Da questo punto di vista sono totalmente d’accordo con quel che diceva la direttrice Papaccio: “certe volte la vita è segnata dagli incontri”. Anche per me l’incontro con zi’ Gennaro è stato determinante. Erano gli anni della Nuova Compagnia di Canto Popolare, Annabella Rossi veniva qui a ricercare, c’erano quasi settimanali; c’era Roberto de Simone. Qualche volta venivo anch’io e non avevo alcuna idea di quest’uomo né della musica e di questo mondo culturale straordinario. E, mentre credo che armeggiassi col mio registratore, improvvisamente sentii questa voce, che sembrava provenisse dalle viscere della terra non dalla bocca di un uomo; questo canto sembrava dalle viscere della terra salire verso il cielo e, se c’è una divinità, una Madonna, un qualcosa al di fuori di noi, beh credo che quella fosse la voce più giusta per parlare… Sentii questa voce e rabbrividii, come tutti. Ci fu una sorta di malia; capisco anche perché Roberto De Simone dice “si chiude un mondo con zi’Gennaro”, perché quel tipo di voce appartiene più alla divinità che a noi. È straordinario, per me che non ho rapporti con questo ambiente, che no sono nato a Somma Vesuviana, la forza incommensurabile di questa voce ed anche la capacità che quest’uomo aveva di trasmettere questa cultura profonda. Io credo che poche persone abbiano avuto importanza nella storia di Somma, perché se Somma Vesuviana è ancora una realtà molto carica, molto viva, se ancora ha questa forza, lo deve unicamente ad uomini come zi’Gennaro.
Quando sono venuto qua il giorno dei funerali di zi’Gennaro, mi sentivo incapace di rimanere soltanto lì a piangere un uomo; io credo che a zi’Gennaro non piacerebbe, ne sono certo, se noi ci attardassimo troppo alla commozione, a piangere, all’emozione e alla nostalgia; zi’Gennaro era un uomo che guardava sempre avanti, era un uomo che voleva fare, che ha fatto, che raccontava di avvenimenti straordinari e toccanti; ma mai ha avuto un attimo di autocommiserazione. Una volta che avesse detto “me la sono vista brutta!…” No, lui sorrideva quando raccontava queste cose. È come se dicesse a se stesso e agli altri “io, poi, questa sfida con la vita l’ho vinta; mi sono accontentato del carretto che passava attraverso i tratturi che portavano nel Cilento, cantavo perché avevo paura; mi sono addormentato, intirizzito sulle montagne d’inverno; non avevo nessuno a cui rivolgermi ma ce l’ho fatta, sto qua, ce l’ho fatta”. Ed in questo non sapeva che la sua forza non riguardava se stesso ma tutti noi. Credo che zi’Gennaro abbia lasciato un’impronta incancellabile, quasi una poesia. Ma ho sempre paura dei poeti, che ci costringono a pensare che le parole da noi usate non sono mai soddisfacenti. Zi’ Gennaro è un ineffabile, è ciò che non si può dire. Il poeta è tentatore, perché ci fa sentire piccoli. Credo, invece, che la lezione di zi’Gennaro, nel lasciarci, è un invito alla concretezza.
Avrei mille motivi, a questo punto, di piangere liberatoriamente; specialmente in presenza di un momento in cui il vuoto che lascia una persona che se ne va è tanto grande. Vorrei liberarmi, vorrei piangere, senza remore; ma non è ciò che zi’Gennaro mi ha insegnato; non è quello che zi’Gennaro mi ha lasciato come messaggio. Zi’Gennaro, in fondo, sapeva di vivere in una terra drammatica qual è questa; una delle terre più belle ma drammatica, piena di contraddizioni, piena di sofferenze e di disagi. Ed allora credo che a questo punto noi dobbiamo raccoglierci e raccogliere dentro di noi le forze e portare avanti, sia pure non con la stessa capacità con cui lo faceva zi’Gennaro, il suo messaggio. Ciascuno di noi si deve assumere le responsabilità, soprattutto le persone che sono state a lui più vicine, figli, parenti ed amici, il sindaco, come capo di questa comunità. Io mi sento impegnato per ciò che può dare la mia piccola persona ed il mio piccolo ruolo; io vorrei chiamarvi per nome tutti quanti e ricordarvi questo dovere che in questo momento noi abbiamo. Non dobbiamo vanificare settant’anni ed oltre di vita di quest’uomo cha ha dato a questa terra moltissimo, che non apparirà mi nei libri di storia. È questa la tragedia del nostro modo di vedere le cose: nei libri di storia appaiono altre figure, senz’altro importantissime, ma non appaiono queste persone sommesse, umili, discrete e che hanno, però, una carica ed una capacità di allargare la cultura, una capacità di indicare ciò che è importante nella vita.
Sono molto contento che nessuno abbia fatto il solito richiamo ai valori che si perdono e ad altre cose retoriche. Il problema è che noi non dobbiamo guardare con nostalgia al passato ma con forza al futuro. Un futuro che zi’ Gennaro ci ha consegnato nelle mani. Allora cosa bisogna fare? Per primo, la paranza d’’o gnundo non deve morire con zi’Gennaro, altrimenti zi’Gennaro ha perso tempo. Se noi vogliamo che la sua opera vada avanti, se vogliamo che la sua presenza rimanga qui in mezzo a noi, la paranza non deve morire. Questo è un dovere di tutti; io stesso sto a vostra disposizione. Non deve morire la paranza perché è l’unica realtà di questo tipo che esiste in Italia. Dobbiamo darci un appuntamento tutti gli anni qui e non soltanto per celebrare (raggruppiamo tutto simbolicamente in un premio letterario, in una tesi di laurea..), dobbiamo fare una sorta di bilancio, un punto della nostra attività e del nostro impegno. Noi non possiamo smettere, occorre uno sforzo unitario. Qui ci sono delle persone a cui voglio molto bene e che forse si sono impegnate molto poco; oggi che zi’ Gennaro non c’è bisogna che si facciano avanti; oggi che zi’Gennaro non c’è tocca a te Sabatino, a te Angelo, a te Giovanni assumere un nuovo impegno. Non è soltanto per ricordare degnamente zi’Gennaro; è anche per salvarci da un abisso. Noi viviamo in un mondo molto triste, noi tutti dobbiamo lottare con un mondo che sta diventando barbaro, con un mondo che sta diventando la negazione dell’umanità ed allora dobbiamo raccoglierci, noi che abbiamo ricevuto l’amore di zi’Gennaro, noi che abbiamo ricevuto questo atto di generosità, se vogliamo che altri uomini come zi’Gennaro nascano –e nasceranno, perché l’uomo ha capacità di grandezza- occorre che noi ci impegniamo. Se noi in questo momento non capiamo che dobbiamo raccoglierci, andare avanti, se noi ci fermiamo è la fine. Io non vorrei apparire catastrofico o chissà che per la commozione. No! lo sento come un fatto culturale, di riflessione; noi dobbiamo stare insieme e fare qualcosa nella direzione che zi’Gennaro ci ha indicato. Dobbiamo attivare tutti i nostri rapporti con le autorità pubbliche, con le autorità politiche; c’è bisogno di un comitato che abbia il nome di zi’Gennaro e che porti avanti una serie di intenti, di piccole cose, piccole cose o piccoli gesti, che sono quelle decisive nella vita. Come il piccolo gesto della bacchetta fatto da zi’Gennaro; la frase citata da Ciro andrebbe, forse, sviluppata; quel piccolo gesto, il segnale d’inizio della musica, sembra di stare momentaneamente in paradiso. In fondo, io penso una cosa: sono laico, però se dovessi esprimere una valutazione su che cos’è la religione, se lo sappiamo sin da piccoli che Dio è amore, allora diciamolo se zi’Gennaro ha suscitato tanto amore da vederci qui tutti quanti, oggi, è perché evidentemente con zi’Gennaro c’era Dio. Se Dio è amore e se zi’Gennaro ci fa stare così insieme in questo momento, con zi’Gennaro c’era Dio. Il segno della grandezza di un uomo io lo vedo in questo: non da quanto è intelligente, non da quanto ha studiato o se ha vinto un premio nobel o altro. Il segno della grandezza di un uomo io lo vedo nella capacità di amore che lui è in grado di suscitare, non solo verso sé ma in tutte le persone che gli stanno intorno. Zi’Gennaro ha fatto conoscere tutti noi, ci ha fatto amare. Il bene enorme che voglio a tutti voi lo devo a lui ed è rispetto a lui che devo muovere la mia vita futura, se voglio dare un senso a questo incontro. Badate, non voglio che l’eredità di zi’Gennaro si disperda. Non posso fare molte cose, non sono neppure di Somma ed ho i miei impegni. Però, io non lo voglio e spero che tutti voi esprimiate con me questo desiderio di non volere che con la morte zi’Gennaro muoia veramente. Zi’Gennaro non vuole morire, vuole vivere nell’impegno e nella costruzione di un futuro per i nostri figli. Non c’è retorica in quel che dico, lo sappiamo tutti e bene che siamo in un momento in cui o costruiamo il futuro o ci autodistruggiamo tutti!”
Fausta Vetere aveva ingoiato, una ad una, tutte le parole che erano state spese per zi’Gennaro. I suoi occhi avevano incrociato quelli di Corrado Sfogli, il marito, che era seduto in prima fila e, probabilmente, insieme avevano ripercorso e rivissuto tutti gli incontri avuti col mitico capoparanza vesuviano nelle feste della montagna, nei concerti con la N.C.C.P., nelle interminabili discussioni con Roberto De Simone o lo stesso Paolo Apolito. Fausta aveva cominciato il suo ricordo, intrecciandolo con altri ricordi. “Dopo tutto voi siete stati fortunati ad avere conosciuto zi’Gennaro in maniera molto privata! Io sono solo una cantante, ho fatto parte della Nuova Compagnia di Canto Popolare e, quando venivo qui, a Somma, in un periodo che è stato forse il più bello fra quelli vissuti dalla NCCP, ho conosciuto zi’Gennaro. L’ho sempre visto come una persona bella e conservo il ricordo incancellabile di belle giornate passate insieme a lui, a Roberto e ad Annabella su a Madonna di castello. Conservo dentro di me anche il suo viso e la sua voce serena –direi addirittura illuminata-. La voce di un uomo che quando cantava si trasformava e quando pregava la Madonna gli si illuminavano gli occhi che si riempivano di lacrime. Non potrò mai dimenticare quest’uomo! Ha detto bene Angelo Di Mauro:”Una persona muore dentro, quando la vogliamo far morire. Mi ha colpito anche che Roberto De Simone lo abbia paragonato ad Eduardo. Vi confesso che nella mia vita artistica solo due persone –Eduardo e zi’Gennaro- mi chiamavano ’a signora bella!
Ricordare quest’uomo così sereno, così rassicurante mi porta emozione, come se parlassi di mio padre. Al santuario della Madonna di Castello mi dedicò un canto a figliola, dicendo di dedicarmelo perché la Madonna mi portasse salute e benessere a me e a tutta la mia famiglia. Non lo dimenticherò mai. A volte, alcuni amici miei, agli albori della musica popolare, mi chiedevano come si doveva intonare un canto a figliola. E io rispondevo che non c’era bisogno di nessuna tecnica o voce particolare; necessitava solo devozione e dell’espressione che assumeva zi’Gennaro quand’era di fronte alla Madonna.
Certe volte zi’Gennaro mi diceva:”Signo’ nun tengo voce” e io. “zi’Genna’ nun avite bisogno della voce, perché voi quando cantate siete enorme, siete grosso”, non sapevo come esprimermi meglio. Ed è vero. Quando lui cantava, quando lui dirigeva la paranza lo faceva con una dignità ed un’espressione musicale come se avesse sempre fatto il direttore d’orchestra e con un rigore per lo meno pari a celebri maestri, che mi hanno diretto nella mia vita artistica. Era grandioso, aveva uno stile ed una sua eleganza. Io così lo ricordo; come ricordo il suo sorriso, soprattutto, insieme a quella espressione nei mie confronti d’’a signora bella!
Manco da Somma Vesuviana da una decina di anni e, oggi, vedendo molti della paranza, non vi nascondo che mi sono emozionata… Ciò che spero è che i miei figli e figli dei miei figli possano avere una conoscenza, anche in futuro, di un uomo come zi’Gennaro. Oggi ho portato con me i miei figli ed ho fatto loro vedere i posti dove abbiamo passato delle ore splendide, indimenticabili. Spero ne facciano tesoro. Uno di loro già suona la tammorra e mi auguro un giorno possa intonare anche un canto a figliola. Zi’Gennaro ne sarebbe felicissimo. Così, il giorno in cui si intitolerà una strada a zi’Gennaro, spero ci sia mio figlio a suonare e a cantare un canto a figliola”.
Elisabetta Pace Papaccio aveva segnato un’epoca felice della scuola elementare di Somma Vesuviana. Era riuscita, con competenza ed entusiasmo, a far rivivere la biblioteca civica “Raffaele Arfé”[35], aveva sconvolto –nell’assumere la dirigenza della scuola- molte coscienze professionali, parlando di pedagogia e didattica innovativa; aveva anche chiesto a due antropologi nativi –Lucio Albano e Giovanni Coffarelli- di offrirsi al servizio di un progetto didattico finalizzato alla rivalutazione della cultura popolare. Le parole della direttrice Papaccio furono un misto fra memoria e scienza.“Non avrei parlato se non fossi stata, in un certo senso, invitata dalle parole del professore Apolito circa la presenza storicizzata del nome di Lucio Albano. Ebbene, poiché sono stata chiamata a far parte di un gruppo che si occupa della storia delle istituzioni scolastiche, ho proposto –tra i nomi delle personalità di chiara fama vissute a Somma e che ne hanno frequentato le scuole- quello di Lucio Albano come messaggero di pace nel mondo, ad onore della sua memoria e di quella che di lui noi tutti conserviamo…. La circostanza agisce come madeleine: evoca un flusso inarrestabile di un ricordo di un passato quasi prossimo, che mi sembra, invece, lontanissimo per le modificazioni traumatiche intervenute e per le assenze…per me, quella dell’avvocato Pellegrino, uno dei più trepidi custodi del genius loci e quella dolorosa di Dora Costa, cara ed entusiasta amica, ansiosa di fare….e per questo verso, con altri, trait d’union, nei primi anni ottanta, del mio “incontro” con la cultura popolare a Somma e del suo più autentico interprete: Lucio Albano, zi’Gennaro… In questo cenacolo, riaperto al gusto di quel “cibo che solum è mio”, per dirla con il grande Machiavelli, ricordo la presenza di Roberto De Simone, Paolo Apolito… che, generosamente, intrattenevano quanti volevano “incontrarsi” per sentire, partecipare, preparare un ciclo di riflessioni e di attività nel ricordo di chi sa e vuole avere memoria.
Lucio Albano mi apparve subito in tutta la sua carica simbolica e la sua sorprendente vitalità, che attingevano spessore dal senso profondo della propria cultura, della quale non tradiva –in alcun momento- i canoni, dimostrando un’esemplare coerenza tra linguaggi e comportamenti. Questo lo rendeva autorevole e ne faceva il “depositario” riconosciuto di “segni”connotati di ancestrali certezze, “segni” ai quali ognuno attingeva fiducia, in una sorta di condivisione di speranze e affanni nella dimensiona metastorica dell’immaginario collettivo. Gli si riconosceva il ruolo severo e sereno di un ascendente aggregativo, terapeutico, perché fortemente connotato di umana solidarietà. Negli incontri, rituali sempre, anche se in sedi occasionalmente diverse da quelle più solennemente “deputate”, Lucio Albano si poneva con un’umiltà dignitosa che non era mai sottomissione ma solo naturale sensibilità sempre presente in lui nel rapportarsi a chi intendeva dimostrare stima e affetto, nella consapevolezza di porsi da pari. Anzi, una certa soggezione la incuteva nel suo patriarcale, benedicente linguaggio e ciò contribuiva definirlo “guida” sicura, rispettata, amata.
Mi pare si potrebbe ripetere per lui quanto Marta Abba, musa ispiratrice di Pirandello, ebbe a scrivere in appendice postuma ai “Giganti della Montagna”: L’oro e la potenza dei giganti non possono nulla quando incautamente entrano nel regno della fantasia, della poesia della vita. La sua natura (quella di Pirandello e perciò di Lucio Albano) fatta di candore, disinteresse al massimo grado e meta di perfezione lo spinge verso Dio, mentre addita agli uomini la via da seguire, via non scevra di lotte.
Penso che per quanti lo “incontravano” al Ciglio, la conclusione della vita di zi’Gennaro può anche essere letta come fine di un’epoca per la storia locale. Resta, però, il suo messaggio di pace, il messaggio di un uomo che si è costruito, vivendo un’idealità educativa testimoniata –per me- anche dall’eredità di linguaggio lasciata ai figlioli, dei quali mi è caro un biglietto inviatomi di recente. Questi ricordi, queste testimonianze, questo giorno di commemorazione costituiscono anche una conferma di quanto la vita di ognuno di noi può essere “segnata” dagli incontri più che dal codice genetico e di come non sempre coincida il comportamento umano con il livello e la qualità dell’istruzione.
Ed è così che tra tanta pseudocultura di piccoli e grandi circoli e salotti, tante presuntuose chiusure intellettualistiche, tanti scritti voluminosi e superflui, oggi siamo qui a testimoniare che quest’uomo semplice è stato un Maestro il cui esempio può alimentare pensieri di speranza e incitamento a credere possibile –in quest’atmosfera di indifferenza e di sopraffazione hobbesiana- di poter ancora progettare un modello di uomo “umano”, perciò sensibile oltre che volitivo e intelligente, capace e desideroso di difendersi e difenderci dai Giganti.
Solo questa speranza può allontanare la greve sensazione di vivere il tempo presente come inquietudine e dolore, nella solitudine amara del silenzio sbarrato di tutte le porte.
Nel corso dell’incontro mi toccò leggere anche alcuni messaggi di alcuni estimatori di zi’Gennaro, che non avevano potuto partecipare. Concetta Barra aveva affidato a un breve scritto, vergato su un cartoncino che la ritraeva con un luminoso sorriso, tutta la sua ammirazione per Lucio Albano: “A Gennaro ra paranza, così l’ho sempre chiamato, un uomo eccezionale! Sempre sorridente. Un sorriso che coinvolgeva tutti con una voce indimenticabile, a sentirla era paragonabile ad un adolescente. Poche volte l’ho visto e mi sono bastate. Era come se ci fossimo conosciuti da anni ed è quella dimostrazione che è vivo dentro di me e lo sarà per lungo tempo. Con amore e affetto.”
Roberto De Simone, invece, che per le sue ricerche più volte aveva incontrato zi’Gennaro, aveva mandato un breve scritto. “Con la morte di Gennaro Albano, scompare uno degli ultimi grandi depositari della tradizione campana. Indubbiamente egli era, per quel che riguarda la forma musicale del canto a figliola, l’autentico gran sacerdote di una religiosità arcaica e popolare, in cui il canto e la musica rappresentano il mezzo magico per entrare in contatto con il mondo celeste. Difatti, per Gennaro Albano, le occasioni di canto scaturivano solo da interiori necessità, legate alla sfera del mondo materno, e sublimate nella devozione alla Madonna di Castello.
La perdita di Gennaro Albano rappresenta un durissimo colpo per la tradizione popolare, che allo stato attuale non dispone di una figura simile che possa succedergli degnamente, per quel che riguarda la continuità del canto a figliola. E va tenuto conto che Gennaro Albano possedeva quel carisma di patriarca, che gli consentiva di aggregare intorno a sé i migliori rappresentanti della espressività tradizionale sommese. Dolorosamente, è qui il caso di affermare che:
“Morto il re
non si può concludere, dicendo:
Viva il re”
Avendo in mente di lasciare traccia scritta di quella giornata del 1° ottobre 1989, avevo chiesto a ad alcuni amici di zi’Gennaro di voler affidare alla penna un proprio ricordo. Salvatore Rea, che aveva insegnato a generazioni di alunni a “leggere, scrivere e far di conto”, fu il primo a rispondere. “Zi’Gennaro Albano io l’ho conosciuto pochi anni fa, nel 1982, quando si sperimentava al plesso “Casamale” La possibilità di una “Didattica della Cultura Popolare, in presenza di testimonianze sul territorio”. A pochi mesi dalla sua dipartita mi piace ricordarlo così, come io l’ho conosciuto. Era una sera fredda e piovosa (mancavano pochi giorni al Natale) ed io aspettavo nell’atrio della scuola “questo zi’Gennaro” che era stato invitato da Angelino Di Mauro a raccontare fiabe, detti e filastrocche popolari ai piccoli scolari del quartiere. Ed egli raccontò di tutto, in modo facile, accessibile ai bambini, disadorno, un misto di lingua nazionale e dialettale. Dimostrava, però, grande capacità di penetrazione nell’animo infantile. Li interessò molto, sia che dicesse una fiaba paesana, sia che raccontasse della sua vita, che fu anch’essa una fiaba triste, perché avarissima di sorrisi e stracarica di stenti e di fatiche. L’incontro finì a tarda sera con un bellissimo canto a figliola eseguito da zi’Gennaro con quella sua voce fascinosa, rimasta incontaminata dagli anni e dalle mode. Fu un momento di grande emozione (anche le stelle era apparse in cielo, dopo tanti lampi e tanti tuoni). Qualche mese fa, quegli stessi bambini, ormai grandicelli, l’hanno ricordato nel trigesimo della morte con un suggestivo canto gregoriano: “In paradisum deducant te angeli”. Canto di speranza per un premio eterno, per un uomo che aveva speso così bene la sua esistenza terrena”.
Seguì Pasquale Di Palma[36]. “Un duro colpo per la cultura popolare sommese. Nel leggere quel manifesto a lutto –e spiacevolmente a funerale già avvenuto- mi sono molto commosso per la scomparsa di Lucio Albano. Solo il giorno prima avevo incontrato Giovanni Coffarelli, a lui unito da arte e voce, che era stato a casa a fargli visita e che mi aveva detto che non stava troppo bene. Ci rimasi malissimo. Il rammarico maggiore è quello di non essermi precipitato a salutarlo. Mi è mancata la possibilità di incontrarlo ancora una volta… l’ultima volta l’avevo incontrato al Comune, con quel carattere così simpatico, cortese, attento alle questioni sociali, si sacrificava sempre, perché sentiva di possedere qualcosa che altri non avevano e si metteva a disposizione di tutti. Ci lasciammo, lui sereno, -chi poteva immaginare che era l’ultima volta!- con queste parole: “Pasqualì. Dicite a Biaggino[37] che si preoccupasse di fare qualcosa in più; mi pare ca accussì un ghiamme buono”. Evidentemente, per me che non conoscevo a fondo le sue iniziative ma conoscevo bene le sue passioni, si trattava di accelerare qualche suo progetto, che temeva non si potesse realizzare.
Lucio Albano aveva una decina di anni più di me; ci incontravamo spesso nella Federbraccianti (Cgil) negli anni brutti, quando i lavoratori della terra dovevano lottare per ottenere qualche conquista, passo passo, per il lavoro, l’assistenza e tanti diritti che erano sconosciuti; lui era sempre sensibile ai tanti problemi. Altri incontri avvenivano nei cortili di via Trentola, nel 1956, dove il compagno Vincenzo Scarpati[38], maestro elementare, insegnava ai ragazzi del posto in una stanzetta situata al primo piano di un’abitazione presa in fitto.
Lucio ha vissuto la sua vita con sacrifici, che capisco bene per averli sopportati anche io. So bene, infatti, cosa ha significato passare notti su un carretto nei viaggi verso il Cilento o il mercato di Napoli; so bene cosa significa dormire sulla paglia o la paura che ci prendeva ad attraversare zone di bufali, che per noi bambini erano animali sconosciuti. Zi’Gennaro aveva qualcosa più di tutti gli altri. Era animato da una fede straordinaria, riusciva a unire i tanti valori e teneva insieme tanta gente. La paranza d’’o gnundo, infatti, col tempo è andata assumendo un’importanza particolare, tanto da costituire oggetto di studio per molti ricercatori nel campo delle tradizioni popolari”.
Inviò una sua testimonianza anche Antonio Bove[39]. “Solo poche volte ho incontrato zi’Gennaro, anzi esattamente due volte, eppure sento la necessità di dare testimonianza della emozione grande, che entrambe le volte ha prodotto in me. L’ho visto (ed ascoltato) il “sabato dei fuochi” del 1988, nella sua piena ufficialità, sulla Novesca, davanti alla chiesetta da lui voluta, invocare (e ringraziare) la “sua” Madonna, nell’unico modo che conosceva, quello che solo lui (magistralmente) era capace di fare: col canto a figliola. In quella luce primaverile, tipica del meriggio vesuviano, la sua figura e quella dell’intera paranza si stagliavano luminose sul verde modulato del monte Somma con gli stessi canoni di una stampa antica, forse di una stampa che, per la sua bellezza, andrebbe definita senza tempo.
La seconda volta il mio incontro con zi’Gennaro avvenne più a valle, in quello straordinario “luogo” sommese che è il convento di S. Maria del Pozzo, dove la Storia pare trasbordare da ogni muro. Quella volta zi’Gennaro era investito di un’altra ufficialità, quella a lui meno gradita, fatta di discorsi seriosi, di linguaggi professionali, di esibizioni accademiche: si “celebrava” la cultura popolare sommese. Alla fine, però, quando zi’Gennaro potette finalmente cantare, tutti noi provammo un sentimento di liberazione; il suo canto, accompagnato da una paranza d’eccezione (gli alunni della scuola elementare), correva felice tra gli archi dello stupendo chiostro francescano, proprio con fanciullesca libertà. Ci aveva resi, infatti, tutti bambini. Fu appunto in quel tardo pomeriggio autunnale che zi’Gennaro volle, simbolicamente, consegnare la sua bacchetta ai bambini (quelli veri), scrivendo così il suo testamento. Lasciava a Somma quello che aveva preso da Somma.”
Solo qualche giorno prima della commemorazione pubblica di zi’Gennaro (il 27 settembre 1989), Anna Lomax e il padre Alan avevano indirizzato una lettera a Sabatino Albano. “Caro Sabatino, scrivo insieme con mio padre per esprimere il nostro profondo dolore per la vostra perdita, che è anche la nostra perdita, anzi, la perdita di tutta una comunità, tutto il mondo, del tuo mondo tanto amato. Zi’Gennaro era un essere nobile e di gentilezza infinita. Abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di essergli vicino in cuore e in idee. Siamo stati suoi ospiti, ci siamo seduti alla sua tavola generosa e allegra, scene che per quanto sembravano comuni, non lo erano per la presenza di questo uomo straordinario a capo di una famiglia di bontà indimenticabile. Durante le nostre visite a Somma avuto il privilegio di vedere un altro lato di vostro padre, quello del leader culturale della comunità. Questo è un incarico molto difficile, richiedendo coltivazione, idealismo, devozione al dovere, diplomazia e, soprattutto, talento. Vostro padre, come abbiamo capito, aveva tutte queste qualità in grande misura. Era per questa capacità innata che lui poteva, per una durata di molti anni, mantenere l’alto livello della musica e danza nel gruppo di cui faceva capo e di ispirare il gruppo a fare spettacoli i quali non solo celebrarono la loro fede profonda, ma fecero conoscere Somma e la zona vesuviana in molti posti del mondo. Durante la visita di una parte della paranza d’’o gnundo in America, dove suonarono a grande applauso sino dentro il Lincoln Memorial –uno dei nostri monumenti più importanti- molte persone sono rimaste profondamente impresse dalla presenza di zi’Gennaro. Era di natura un uomo modesto, però nel cantare il suo canto a figliola, ha portato qui il respiro di un mondo di antica tradizione, di umanità e di sapienza, con il messaggio fiducioso che tutto questo era ancora lì, per poterci rallegrare e sostenere ancora oggi.
Zi’Gennaro Albano era un uomo di grande autodisciplina, che credeva nella disciplina, una disciplina che lui aveva coltivato dai suoi inizi come orfano e che l’ha sostenuto durante i suoi passaggi come prigioniero di guerra, durante la sua vita di piccolo contadino nel lungo periodo triste. Per questo, e anche per la sua capacità di muovere e commuovere le persone, e di creare intorno di sé una grande allegria, non è stato abbattuto sino elevato dalle sue condizioni della sua vita. Ma anche diventando un leader, di culto e di cultura, zi’Gennaro è rimasto molto chiaro sulle cose come erano e come sono: lui credeva nei diritti del popolo. In questa convinzione ha fatto quello che pochi fanno, ha curato il patrimonio culturale del popolo di questa zona chiave nella storia della civiltà, il patrimonio della sua generazione indietro, senza il quale le generazioni presenti possiederebbero praticamente solo le loro comodità.
Speriamo che qualcuno scriverà la biografia reale di zi’ Gennaro Albano, che tutti quelli che hanno preso qualcosa da lui, che ricorda o ha registrato i suoi racconti –noi inclusi- verranno avanti ora a dare un loro contributo a questa vita. Auguriamo che i suoi familiari, i suoi amici e ammiratori, gli studiosi, ed anche gli amministratori pubblici, faranno qualcosa veramente di significativo per la zona con le buone tracce che lui ha lasciato. Questo sarebbe il suo miglior monumento.
Chiediamo scusa per una lettera così lunga in un italiano forse povero. Noi siamo con voi –Sabatino, Mario, Tina, zi’Emilia, zi’Antonio, Rosaria, Gaetano e Lucio, la paranza, amici tutti- nel vostro dolore e mancanza di zi’Gennaro. Siamo fortunati di conoscerlo e non lo dimenticheremo mai.”
I giorni che sono passati dalla morte di zi’Gennaro cominciano a confondersi nella conta. Nel tempo tutti i sopravvissuti ci siamo modificati; non siamo più gli stessi. Ma, forse, non ci siamo migliorati così come avevamo promesso di fare. Ci è venuto a mancare anche l’entusiasmo, che è una corda migliorativa in un mondo che non ha più voglia di aggregare, di confrontarsi, di stare insieme.
È vero, la speranza va sempre salvata. Anche quel 1° ottobre 1989 tentammo di farlo nel ricordo di zi’ Gennaro. Ci dichiarammo fratelli e ci dicemmo che volevamo stare insieme, progettare, costruire per noi, per i nostri figli, per la nostra città.
Ho tenuto questi appunti tra le mie carte per venticinque anni. Moltissime volte mi sono sottratto alla tentazione di rimetterli in circolo. Temevo che non potessero interessare. Ma una voce interna, continua, imperiosa, mi ha spinto a ridare vita al ricordo di zi’Gennaro.
L’ho fatto, soprattutto, per affetto e per amicizia nei confronti di Lucio Albano, un contadino-sacerdote, che, col contributo di pochi altri suoi simili, mi ha condotto alla preziosa miniera delle parole intraducibili, dei linguaggi somatici, delle tecniche narrative, dei luoghi e dei personaggi legati ai luoghi stessi, della memoria collettiva e dei rituali da essa discendenti. E che, inoltre, mi ha fatto toccare con mano il valore dell’oralità, della capacità della parola parlata, delle emozioni e dei sentimenti espressi da un corpo in movimento, dalla sua teatralità, dal suo canto e dalla sua musica.
[1] Rifugiato sudafricano, assassinato da una banda di criminali a Villa Literno. Dopo la sua morte –ed in seguito ad una manifestazione antirazzista, che riunì a Roma oltre duecentomila persone- il governo italiano varò il D.L. 416 recante norme sulla condizione degli stranieri. Successivamente il D.L. fu convertito nella L. 39/90 (la cosiddetta legge Martelli), che riconobbe agli stranieri extraeuropei lo status di rifugiati.
[2] Somma Vesuviana, culla di memoria e di sogno. Il toponimo richiama la torva maestà del sonnecchiante cono ed inserisce il paese in un’aristocrazia antropica, che non tutti possono vantare. I luoghi –sopravvissuti alle insidie del tempo, all’incuria degli uomini e alle colpe della politica- si donano ai contemporanei e ancora narrano di fasti e sconfitte, di regine e popolani, di splendori e miserie. Sorge ai piedi del Somma-Vesuvio e per molti mesi all’anno è inghirlandato di giallo dorate ginestre. Oggi –pur stretto negli spazi del Parco naturale del Vesuvio- è ingravidato da un’edilizia deturpante ed a fatica conserva le tracce dei trascorsi romani, angioini ed aragonesi.
[3] Gnundo è voce dialettale, che sta per congiunzione, unione. Lo gnundo era il luogo in cui Lucio Albano aveva eretto una cappella in onore della Madonna di Castello e sorgeva in una località del monte Somma, posta a confine tra i territori di Somma e di Ottaviano. Il luogo, perciò, rappresentava l’unione, la congiunzione tra i due comuni confinanti. Ne conseguì che zi’ Gennaro e la sua paranza divennero per tutti, semplicemente, ‘o gnundo e a paranza d’’o gnundo, acquisendo il toponimo del luogo di venerazione.
[4] Madonna del santuario di Castello, posto nel cuore del Somma-Vesuvio, a quota 500 s.l.m., con una strada d’accesso dall’abitato di Somma Vesuviana. L’origine pagana del santuario potrebbe derivare da un antico culto del fuoco. L’origine storica, invece, è testimoniata dalla volontà di don Carlo Carafa, di far costruire –nel 1622- una chiesa. La denominazione castello nasce dalla vicinanza di un antico maniero (di cui oggi è possibile vedere solo qualche traccia) fatto costruire, probabilmente, nell’XI secolo, da Giordano I il normanno, principe di Capua. La costruzione del castello libera la città dalla denominazione di locus e le conquista quella di castrum. Si racconta che il culto della Madonna di Castello sia nato dopo il ritrovamento della testa bruciata, in seguito ad un’eruzione del Vesuvio, dell’attuale statua. Un’altra leggenda parla, invece, di un tesoro nascosto, nei pressi del santuario, per il cui ritrovamento sarebbe stato richiesto il sacrificio di un bambino di pochi giorni.
[5] Incontro con Lucio Albano, Summana (Studi e Ricerche sul Patrimonio Etnico, Storico e Civile di Somma Vesuviana), n. 14/88.
[6] La festa della montagna va dal sabato in albis al tre maggio successivo; la sua durata è, quindi, variabile a seconda della ricorrenza della Pasqua ed è, perciò, legata alle fasi lunari. Pasqua di aprile è speranza di raccolti abbondanti; Pasqua di marzo non è di buon auspicio per chi vive del lavoro e dei prodotti della terra; non per caso ancora circola, tra gli anziani del luogo, il detto: quanno Pasqua è marzatico, o murì o famatico. Il culto, di origini pagane, interessa le popolazioni ai piedi del Vesuvio, che con la festa primaverile tendevano ad esorcizzare la paura del fuoco. Negli anni, come in tutte le feste popolari, gran parte dei culti pagani trasmigrano –sostituendo ai simboli della natura o agli dei falsi e bugiardi (Cibele, Cerere, Venere, Mater matuta) nelle liturgie dei santi e le madonne- in quelli cristiani. La notte del sabato in albis, quindi, mille fallò illuminano valli e costoni della montagna: li accendono gli uomini delle paranze, dopo aver bivaccato per l’intera giornata ed inanellato canti e balli tradizionali. La festa, occasione di abbondanti libagioni e sfrenati canti-balli liberatori, dura fino al tre maggio, il cosiddetto tre del ciglio o della croce. Il ciglio è la punta più alta del Somma-Vesuvio; è il luogo in cui, la notte del tre maggio, si dà fuoco ad una maestosa croce, posta davanti a una cappelletta, a protezione della città. Ed intanto, sulla nera montagna, un suggestivo spettacolo di fuochi pirotecnici ne illumina le pendici.
[7] “Mamma bella, io nun saccio ched’è ‘a mamma. Ma nuie chiammammela Mamma sta vicchiarella nostra bella, ca spenza grazie ‘e figlie suoie. Simmo venute cà a pregà: Cunserva ‘e mamme e ‘a ssalute a tutte quante! Nuie simmo venute cà pecchè tenimmo una ragione, uno sentimento […] l’anno che vene, chiove o fa ‘a ilate, stammo n’ata vota cà, pe’ te cantà stu canto particolare d’’o cantà a figliola”, in Angelo Di Mauro, Le Fiabe del Vesuvio, Mondadori, 1994.
[8] Le paranze – dal latino par = quantità pari di uomini e cose-, nel dialetto del vesuviano interno, indicano dei gruppi, delle associazioni con regole consuetudinarie. Esse erano costituite solamente da uomini e si reggevano sul culto della Madonna (di Castello, dell’Arco, di Pompei), sul sentimento di fede (una fiducia anche laica), che legava ciascun aderente al rispetto della montagna (il monte Somma) madre e padrona, sui momenti di aggregazione musicali, nati per far festa alla Madonna ed alla montagna. Le donne, invece, riproponendo la gerarchia sociale, non prendevano parte alle paranze (le poche che partecipavano alla festa ed ai balli avevano scarsa reputazione); restavano in attese dei “loro” uomini per l’offerta della “perteca”. Oggi, il vecchi cliché sociale è stato superato e le paranze, che ancora sopravvivono, nel giorno della festa accolgono uomini e donne.
[9] Musicista, compositore, autore e regista teatrale, accademico di S. Cecilia. È stato direttore artistico del Teatro “San Carlo” di Napoli e del Conservatorio di Musica “San Pietro a Maiella” della stessa città partenopea.
[10] Professore di Antropologia culturale nelle Università di Salerno e Roma 3.
[11] Antropologa (1933-1983), ha lavorato al Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma e all’Università di Salerno. Ha scritto numerosi saggi e volumi, tra cui Carnevele si chiamava Vincenzo (De Luca, 1977), Lettere da una tarantolata (De Donato, 1970), Le feste dei poveri (Sellerio, 1986).
[12] Professore alla Columbia University; direttore dell’A.C.E. (Associazione per il Patrimonio Culturale) per l’esplorazione e la conservazione delle tradizioni espressive nel mondo. In un’intervista rilasciata a Ciro Raia (Summana, n.10/1987), Anna Lomax dichiarava: “Il mio incontro con Somma risale al 1976; ricordo di essere venuta con Annabella Rossi ed altri ricercatori. Fummo ospiti a casa di Giovanni Coffarelli. Poi ci incontrammo con la paranza d’’o gnundo e fu proiettato il film girato da una mia amica produttrice di documentari in occasione della festa del bicentenario d’America”.
[13] Gli strumenti musicali usati sono il tamburo (la tammorra), le nacchere (le castagnette), il putipù, il flauto, il doppio flauto (i sischi), lo scacciapensieri (o tromba degli zingari), lo scetavaiasse.
[14] Riunione di persone; se di sera, anche veglia.
[15] Un elemento essenziale nella festa della Madonna di Castello ed in tutte le feste della Montagna è la perticella o perteca. La pertica si ricava da un legno di castagno pulito dei rami. Sulla cima del legno troneggia l’immagine della Madonna di Castello; lungo il tronco si alternano corone di castagne e rami di ginestre, torroni e limoni, mele e dolciumi. Tutti ornamenti che indicano la produttività agricola del territorio. La pertica, così addobbata, è portata, quindi, in omaggio alle donne (mogli, fidanzate, sorelle, madri) degli appartenenti alle paranze sui ritmi di un canto a figliola. La funzione si colora di sacro e pagano: la devozione alla Vergine -madre e padrona- si trasforma in un dono alla persona amata. Dopo la festa, la pertica diventa un oggetto di uso quotidiano. Ed in attesa di essere sostituita da una nuova, essa si presta ad essere sostegno alle funi tese per asciugare le lenzuola o si lascia coinvolgere dalla mano esperta della massaia nella preparazione del forno per cuocere il pane.
[16] Il canto a figliola è un particolare tipo di canto intonato per le feste dedicate alla Madonna (in special modo alla Madonna di Montevergine e a quella di Castello). Si presta ad essere cantato sillabicamente e lascia molto spazio all’improvvisazione degli esecutori. La melodia tradizionale viene intonata da un solo cantatore, al quale si unisce, alla fine, il coro dei presenti. Infatti, la caratteristica maggiore di questa forma, è la sua speciale cadenza articolata in coro su diverse espressioni stereotipe, delle quali le più ricorrenti sono: A majesta soia (la sua donna), Aggio ritto bbuono (ho detto giusto, bene), A mamma schiavona (la Madonna Schiavona, ossia nera). Una volta, specialmente a Napoli, il canto a figliola era anche tipico e rappresentativo della malavita locale. Con la stessa forma di canto, poi, si sfidavano i cantatori dopo il pellegrinaggio a Montevergine e la competizione veniva eseguita a Nola (Quant’è bello/quant’è bello/chi va p’’e feste/ e nce va co’nomme e ca’fede/ ‘e mamma schiavona… a figliola).
[17] Fausta Vetere, cantante della Nuova Compagnia di Canto Popolare, raccontò questi episodi, nel ricordo che di Lucio Albano tenne, in occasione della commemorazione del 1° ottobre 1989.
[18] La “sua” montagna era stata continuamente violentata; proprio nei pressi della cappella della Novesca si stava allargando sempre più il cratere della discarica “Monte Somma” (che sarebbe stata chiusa nel 1994, a danni ormai irreparabili). Innumerevoli alberi, attaccati alle radici dalle micidiali percolazioni, si erano inariditi da un giorno all’altro. Quel pezzo di montagna si presentava come un luogo spettrale dove i fantasmi erano rappresentati dai tronchi e dai rami secchi. I miasmi erano irrespirabili e la falda acquifera ormai inquinata stava per causare neoplasie, di livello esponenziale, agli incolpevoli abitanti del luogo.
[19] Summana, n.14/88.
[20] Nel luglio del 1975, la paranza d’’o gnundo, arricchita di altri esponenti della cultura popolare vesuviana, tramite il Museo di Arti Popolari di Roma (diretto all’epoca da Annabella Rossi), fu invitata alla Smithsonian Institution di Washington, per prendere parte ai festeggiamenti organizzati per il bicentenario della nascita degli USA. La paranza riscosse un grande successo, poiché riuscì a coinvolgere il pubblico con canti e balli tradizionali. In particolare zi’Gennaro riuscì a catalizzare, col suo innegabile carisma e la sua capacità comunicativa, l’attenzione delle platee entusiaste. Per cui alcuno storse il naso in assenza di un ben preciso assetto tecnico, coreutico e musicale della paranza, formata interamente da contadini ed operai.
[21] In Ciro Raia, Incontro con zi’Gennaro Albano, Summana, n.14/1988.
[22] Orazio, Odi, III, 30, 6.
[23] Cerimonia pubblica, per l’intitolazione, il 4 maggio 2002.
[24] Nei suoi racconti di guerra, parlando di come fortunosamente fosse stato risparmiato dalla morte, mio padre non dimenticava mai di aggiungere: “a me la Madonna mi ha sempre voluto bene!”.
[25] Spiriti benefici della casa.
[26] Etnomusicologo, antropologo (1915-2002). Ha insegnato in varie università americane tra cui la Columbia University. Ha condotto ricerche sulla cultura popolare in Italia, in Inghilterra e in Spagna. È stato l’inventore di un sistema di classificazione degli stili dei canti popolari detto Cantometrics.
[27] (1935-2010) Manovale, contadino, dotato di una voce possente, tra i massimi esponenti della cultura popolare vesuviana.
[28] Marito di Anna, la figlia di Alan Lomax.
[29] Ricercatore e storico locale, vanta molteplici pubblicazioni, tra cui, Le fiabe del Vesuvio (Mondadori, 1994), Buongiorno Terra (1986), Università e Corte di Somma (1998), Le galanterie del Protonotario Apostolico don Tommaso Casillo (2001). Dirige Fensern, la rivista da lui fondata, che è un laboratorio di ricerca nella terra dei vulcani.
[30] Direttrice Didattica del I Circolo di Somma Vesuviana alla quale va il merito di aver riorganizzato la Biblioteca Civica “Raffaele Arfé”. ha pubblicato La Scuola come Comunità Educante (Edizione Le Radici, 1981), un testo nel quale si documenta un’esperienza didattica, basata sulla cultura popolare, condotta dagli insegnanti del plesso “Casamale” nell’anno scolastico 1980/81.
[31] Emilia Prisco, nata ad Ottaviano nel 1914 e deceduta a Somma Vesuviana nel 1997.
[32] Masano è soprannome che sta ad indicare il carattere ribelle della famiglia. Masano, infatti, deriva da Masaniello.
[33] Voce antichissima usata dai popoli mediterranei prima dell’arrivo degli Indoeropei; significa altura.
[34] Testimonianza di Angelo Di Mauro in I culti per la montagna di Somma Vesuviana (sintesi dell’intervento di Paolo Apolito), 24 aprile 2008
[35] Conosciuta anche col nome di Biblioteca dell’Unione Magistrale Nazionale “Giosuè Carducci”, è ospitata nel plesso scolastico del I Circolo Didattico di Somma vesuviana. È dedicata a uno dei suoi maggiori fautori. Ospita circa tremila volumi: un incunabolo, cinquecentine, seicentine, settecentine e libri “moderni” pubblicati dopo il 1808.
[36] (1925-2012) Storico segretario della locale sezione del Pci (partito per il quale fu, a lungo, rappresentante in consiglio comunale e nelle cui liste, con grande successo personale, fu candidato anche alla Provincia ed alla Camera dei deputati), diffusore domenicale dell’Unità e, negli ultimi anni di vita, animatore della sede dello Spi-Cgil.
[37] Biagio Esposito, assessore ai Servizi Sociali, in quota Pci, partito di cui fu anche segretario di sezione. Successivamente Esposito lasciò il Pci, mostrando simpatie ed impegno per formazioni di centrodestra.
[38] Maestro elementare ed intransigente consigliere comunale negli anni ’50 del secolo scorso. Nel 1956 prese parte al primo esperimento politico di centrosinistra, entrando in una giunta composta da democristiani, socialisti e da lui, rappresentante del Pci, che assunse la delega all’assistenza; “Visto il suo impegno appassionato, cominciarono le lettere anonime, che l’accusavano di andare tardi a scuola, perché si fermava a parlare con la gente”, in Pasquale Di Palma, Memorie di vita e di fede politica, pubblicazione in proprio, 2012.
[39] Docente di educazione artistica alla scuola media “O. Bordiga” di Ponticelli, pittore, studioso di storia dell’arte, si era avvicinato agli studi ed alle ricerche su Somma Vesuviana, collaborando alla rivista Summana.