A pochi anni dalla sua scomparsa, passati i giorni delle emozioni, della commozione e delle lacrime, bisogna cominciare a fare i conti con l’eredità culturale di Giovanni Coffarelli (1935-2010). Non è cosa da poco, perché il lascito è prezioso e incommensurabile. Quasi un tesoro da dissotterrare; come in un romanzo d’avventura o come nei cunti dei nostri nonni.
Sì, perché Giovanni –inconsapevolmente ma con lucida determinazione- è stato capace di tessere una rete culturale, che, avendo l’epicentro in uno sconosciuto (per molti anni) borgo vesuviano (il Casamale), ha allargato la sua trama a uomini, terre e modelli di ricerca, in partenza semplicemente inimmaginabili. E questo merito gli fu per primo riconosciuto dal professor Paolo Apolito[1], che lo definì, perciò, un “antropologo nativo”. L’antropologo, si sa, studia i tipi e gli aspetti umani dal punto di vista morfologico, fisiologico e psicologico; quello “culturale”, poi, aggiunge anche lo studio sulla natura dei fenomeni, appunto culturali, nel loro concreto manifestarsi in una certa realtà.
Era Somma Vesuviana la realtà presa in esame da Giovanni Coffarelli; era il Casamale [2](l’antico borgo) il luogo privilegiato, per la messa a fuoco dei fenomeni culturali nella loro dimensione storica, semantica, ludico-ricreativa, etno-musicale, patronimica, politica, religiosa, demologica. Insomma, Coffarelli apparteneva al Casamale e questo luogo a Giovanni. In questo reciproco legame era scritta la fedeltà, il patto d’amore, quasi un vincolo di sangue. Se il Casamale, infatti, grande madre dalle ampie braccia e dalle gonfie mammelle, accoglieva e accoglie tutti i suoi figli e tutti indistintamente sfamava e sfama, Coffarelli è riuscito ad esserne rappresentazione esterna, il simbolo, il sudario, l’abito di festa, il servo di scena, uno dei tanti, il gruppo e l’unico.
Appartenere al luogo è interpretarlo, difenderlo, aiutarlo a crescere, coinvolgerlo. E se è vero che sono gli uomini che fanno i luoghi, Giovanni –per la parte e la responsabilità che gli è stata assegnata (dalla vita, dal caso, dagli incontri, dai santi o dagli dei)- ha fatto il Casamale: lo ha interpretato nelle sue radici più sotterranee; lo ha difeso dagli assalti dei governanti assetati solo di potere, con la foga e la rabbia di chi è abituato a soffrire; lo ha aiutato a crescere nelle aspirazioni di rinascita sociale; lo ha modellato –pur nella consapevolezza di non esserci riuscito del tutto- su un progetto culturale da lui semplicemente intuito; lo ha coinvolto in una politica di partecipazione, contro ogni preventivo assenso voluto dal potere; ha cercato di metterlo in guardia da ogni pericolo di contaminazione.
Aveva avuto buoni maestri Giovanni. Il primo era stato Lucio Albano, zi’ Gennaro ‘o gnundo[3], che gli aveva insegnato il canto a figliola[4] e la tammurriata. I canti alla potatora, invece, glieli aveva insegnati Nunzio Di Lorenzo[5]. Le voci caratteristiche, infine, erano stati un’eredità della sua infanzia, quando lavorava a Napoli, da garzone, da un fruttivendolo o al forno di Lucia ‘a scartellata a Sant’Anna a Padula[6]. Ma Giovanni aveva un grande dono: era dotato di una voce immensa ed intensa. I suoi melismi inchiodavano chi l’ascoltava, ammaliandone lo spirito. Ogni suo canto era una preghiera laica o uno scherzo d’amore o una volgarizzazione politica. Giovanni era un bardo, un trovatore, un giullare. Egli è stato l’ultimo, autentico esponente della cultura popolare, da anni testimone e difensore di una storia della memoria raccontata, cantata, suonata, difesa dall’aggressione delle mode, dalle luci irreali dei festivals, dalle alchimie ritmiche dei sintonizzatori. Nelle esibizioni pubbliche amava accompagnare i suoi canti con le castagnette o con la tammorra. Con le prime segnava i tempi come un suonatore classico, che aveva dimestichezza e senso del ritmo. Con il secondo strumento, invece, si inventava ogni volta artista. Della tammorra, infatti, Giovanni era amante, era compagno, era esteta. Il tutto impreziosito da una mimica che era trasporto, linguaggio somatico, traduzione di reconditi sentimenti ed antiche storie. Egli conosceva cunti e cuntarielli, storie di munacielli e di belle ‘mbriane; i suoi sogni erano affollati da apparizioni di animali a più teste, della Madonna di Castello, delle balze del monte Somma, di leggende di Aniello e Anella, di matrigne, di giardini del re, di serve e di pecurielli. Fino all’ultimo suo respiro Giovanni Coffarelli è stato un esempio di bontà, di entusiasmo e sacrificio. Egli, in fondo, era uno che aveva necessità di dare senza nulla chiedere in cambio; non era nemmeno abituato ad autocommiserarsi. Aveva, inoltre, un grandissimo pregio: sapeva “comunicare la memoria”; sapeva dare, cioè, un personale e prezioso contributo al recupero di una storia e di sentimenti comuni, all’approfondimento di ambiti semantici, al riconoscimento di usi e costumi, all’arricchimento della cultura della solidarietà, alla comprensione delle tradizioni popolari.
Il momento in cui Giovanni-antropologo nativo cominciò ad avere un rapporto diverso (più visibile, più scientifico, più monitorato) col mondo della tradizione, risale ad oltre trentacinque anni fa. Si era nel 1974 e l’ARCI di Somma Vesuviana aveva organizzato un concerto con la Nuova Compagnia di Canto Popolare. In quell’occasione Giovanni incontrò un giovane Roberto De Simone[7], che gli chiese il significato della festa della montagna[8] e della perteca[9], del sabato in albis o dei fuochi e del 3 di maggio o del ciglio o della croce. Poco tempo dopo quell’incontro, ancora De Simone gli chiese se mai fosse stato disponibile a fare “qualcosa fuori stagione”. Giovanni non colse il riferimento artistico e chiese spiegazioni al Maestro; pur avendole ricevute, rimase comunque perplesso. “Dopo qualche settimana, mi telefona Angelo De Falco e mi comunica che De Simone –che sta lavorando a un libro, Chi è devoto[10], con le foto di Mimmo Jodice- vorrebbe incontrare me, Lucio Albano e Rosa Nocerino. L’incontro avvenne e non ebbe niente di formale. Ad un tratto Roberto disse: -Giovanni, si presenta un libro al teatrino di Corte di Napoli. Sarebbe possibile un intervento tuo e della paranza di zi’ Gennaro insieme alla NCCP? ”[11]. Coffarelli rimase senza parole; non sapeva cosa rispondere. Era combattuto dall’onore e dal piacere della proposta ricevuta e dalla paura di chi non si era mai esibito tra un pubblico che non fosse stato quello dei fedeli della Madonna di Castello o delle paranze nelle feste della montagna. Lo spettacolo, poi, ebbe luogo e fu un grande successo. Passò poco tempo e De Simone contattò ancora Coffarelli: –Giovanni, è arrivata una lettera dall’America; sei disponibile ad andarci?
-Io?… In America? E a fare cosa?…
-Non ti preoccupare; si organizza un viaggio con altri esponenti del folk. Vi accompagna Paolo Apolito (col quale, poi, sarà per ben cinque volte negli USA, al Festival of american folk life di Washington (1975), all’Ethnic Folk Center di New York (1983, 1984 e 1986), all’Italy on Stage di New York nel 1985 )[12].
E Giovanni volò in America, dove ebbe modo di conoscere e stringere un legame di amicizia con Alan Lomax[13] e la figlia Anna.
Di ritorno dall’America Giovanni fu chiamato a partecipare alla “Festa di Piedigrotta”, lo spettacolo teatrale che si teneva, nelle notti d’estate, sugli spalti del Maschio Angioino. Fu in quella occasione che ebbe modo di intrattenersi, nel suo camerino, con il sindaco Valenzi, con Nino Taranto e con Francesco Rosi. Anzi, il regista di “Mani sulla città” lo appellò come “splendido cantatore” e chiese una suo intervento vocale in vista dell’imminente film “Cristo si è fermato a Eboli”. Per vari motivi non se ne fece niente. Si ripropose, però, l’occasione di lavorare per il mondo della celluloide. “Mi telefonò Tommaso Bianco e mi disse che Salvatore Piscicelli, un regista cinematografico, mi voleva parlare: -chiede la tua collaborazione per la colonna del film “Immacolata e Concetta. Ci incontrammo a Napoli; il regista voleva per forza darmi il copione; desiderava che io lo leggessi. –Dotto’, è inutile ca me date stu’ copione; raccontatemi la storia, fatemi una sintesi. Io non sono un musicista. Piscicelli[14] mi raccontò la trama e io decisi di fargli due fronne[15] all’inizio del film ed una tammurriata alla fine, quann’essa se ‘ngoscia (quando lei cade su stessa)”[16].
Furono molte, dalla metà degli anni settanta del secolo scorso in poi, le personalità artistiche e culturali conosciute e frequentate da Giovanni. Su tutte si stagliano le figure di Annabella Rossi[17] (“La incontrai per la prima volta ad Avellino, in occasione di un carnevale. Ebbe inizio, da subito, un rapporto bellissimo. Era una donna eccezionale”[18]) e Diego Carpitella[19] (“Mi avvicinò ad una festa di Castello; per me era uno sconosciuto. Mi chiese di vedere da vicino il doppio flauto. Glielo porsi. Quindi lo osservò, lo misurò, registrò altri appunti. Andando via, disse di chiamarsi Diego Carpitella e mi chiese il numero di telefono, per qualche altra eventuale informazione.”)[20]. Seguirono telefonate ed incontri, a casa Somma Vesuviana e all’Università di Roma; innumerevoli furono gli allievi di Carpitella, che vennero a studiare sul campo, alle pendici del Vesuvio, la cultura di cui era testimone principe il bardo del Casamale: Giorgio Adamo[21], Roberta Tucci[22], Antonello Ricci[23], Francesco De Melis[24], Renato Meucci[25]. Poi, seguirono gli incontri e i forti legami di amicizia con Ginette Herry[26] e Roberto Leydi[27]. Tra gli artisti, poi, c’è da dire che divennero di casa (ma proprio di casa Coffarelli) Fausta Vetere e Corrado Sfogli, Eugenio Bennato e Lina Sastri, Peppe e Concetta Barra, Antonella Morea e Luisa Conte, con la quale Giovanni lavorò, per tre indimenticabili stagioni teatrali estive, nello spettacolo “La festa di Montevergine”.
Per oltre un quarto di secolo, dal 1975 al 2000, Coffarelli ha calcato i palcoscenici di mezza Italia (c’era stata anche una trasferta a Montemor-O-Novo, in Portogallo, nel 1995, in occasione del Terceiro Festival Luso-Greco-Italiano). Le sue esibizioni furono applaudite al Piccolo di Milano e al Teatro Circo di Roma (1976), alla Rassegna di musica dei popoli a Firenze (1980), all’Estate a Perugia (1988), alla Rassegna Città di Benevento (1989 e 1990), all’Humor fest’90 di Foligno, al IV Festival di Musica Popolare di Strada di Senigallia, al Teatro Elfo di Milano (1997), alla Notte della Taranta (2005) di Melpignano. Si erano accesi per lui anche i riflettori di alcuni programmi televisivi come “Cocco”, “Apriti Sabato” e “La Regina del Carmine”.
Fu di alta qualità la sua produzione discografica: collaborazione e partecipazione ai 7 microsolchi su “La Tradizione in Campania”, curati da Roberto De Simone (1978); partecipazione ai dischi “Medina (1991) e “Pesce d’oro” (1997) della NCCP; partecipazione al disco “Scennenno d’a Muntagna” (1993) con la sua Paranza; partecipazione al disco “Le danze di Dioniso” (2001) di Carlo Faiello; partecipazione al disco dei “Incantamenti” (2004) dei Musicalia. Poche settimana prima della morte aveva completato la registrazione di un ultimo lavoro (che sta per essere pubblicato): una nuova raccolta sui canti della tradizione campana, ancora curati da Roberto De Simone, che non solo ha voluto di nuovo la voce di Giovanni ma gli ha dedicato anche la copertina con la foto.
Coffarelli ha avuto un rapporto privilegiato con le scuole. A partire, infatti, dal 1980, anno del terribile terremoto che colpì molte zone dell’Italia meridionale, la comunità scolastica di Somma Vesuviana, per felice intuizione della mai poco compianta direttrice Elisabetta Pace Papaccio, indirizzò –prima in forma timida e pioneristica, poi in modo sempre più convinto e massiccio- gli sforzi didattici al recupero della cultura del luogo. Era, quella iniziativa didattica, una strategia per cercare di cancellare il terrore dagli occhi degli alunni ed era anche un tentativo per fare da sponda alla cultura contadina, che si difendeva dagli assalti dei tempi, dagli stili del postmoderno, dal grigiore della massificazione. Fu in quest’ottica che Coffarelli ebbe un ruolo di primo piano. Entrò, infatti, nelle scuole del territorio e contribuì alla formazione culturale dei giovanissimi studenti, proponendo loro i canti a figliola, le fronne e i canti alla potatora, offrendosi come modello di trasmissione e di interpretazione della cultura orale, realizzando –in sintonia con l’intera comunità scolastica- una ricerca sul percorso delle usanze contadine, sulla storia delle parole, sulla musica, sui suoni e sui balli locali. Riuscì, Giovanni, ad essere elemento di raccordo e di sintesi tra la cultura “alta”, aristocratica, proprio dell’istituzione e quella “bassa”, popolare delle classi meno abbienti. Si inventò, in altri termini, “mediatore” di un percorso, che sfruttava le strutture sintattiche dei saperi istituzionali attraverso metodologie e contenuti derivanti da un sapere collettivo, ricco di odori, sapori, sentimenti e storie dalla comprensione immediata e accattivante. Nella scuola gli obiettivi didattici non mutarono; i risultati di formazione furono, invece, raggiunti più agilmente e in modo creativo e partecipativo. Era cambiato solo l’approccio conoscitivo e metodologico. Aveva riconquistato spazio e spessore la pregnanza comunicativa della lingua madre (il dialetto), in continuo confronto con l’evoluzione costante della lingua nazionale; era rifiorito il ricorso alla capacità espressiva dei linguaggi somatici; si erano rafforzate le operazioni mentali degli allievi col riferimento alle fogge e ai costumi popolari, ai mestieri scomparsi, alle feste tradizionali locali, che, con l’ausilio didattico di una memoria orale, trovavano la loro massima sintesi comunicativa nei cunti, nei canti e nella musica popolare.
Anche in questo percorso didattico Giovanni, ancora una volta inconsapevolmente (non avendo gli strumenti conoscitivi riconosciuti dalle istituzioni delegate e avendo alle spalle solo il conseguimento della licenza elementare in un corso serale), fu immenso e si conquistò – proprio lui che si scusava per i suoi errori e le sue lacune, perché non posseggo una cultura ufficiale- l’appellativo di Maestro.
Come in tutto ciò che faceva, ci provò gusto Giovanni e continuò. Entrò in innumerevoli scuole, di ogni ordine e grado. Ed entrò anche nelle Università di mezza Italia, perché gli accademici lo accolsero al tavolo degli dei, in quanto gli riconobbero l’identità dell’ultimo testimone di una cultura popolare, dalla voce possente e dalla tammurriata travolgente. Ed allora cosa pensò Giovanni? Pensò di aprire un laboratorio[28] di cultura popolare nel popoloso rione del Casamale, dove, sino agli ultimi giorni della sua vita, accolse intere scolaresche ed amici, studiosi (italiani e stranieri) e semplici curiosi. Raccolse di tutto in quel laboratorio: innumerevoli strumenti musicali popolari, libri che gli mandavano studiosi da tutti il mondo, foto d’epoca, immagini votive, attestati di benemerenza e la sua fede politica. Sì. Proprio la sua fede politica o, forse meglio, la sua passione. Giovanni, infatti, pur nella contaminazione inevitabile subita in seguito al crollo delle ideologie, aveva mantenuto intatti i suoi ideali. Non aveva mai dimenticato di essere stato un umile operaio; non aveva mai dimenticato che aveva passato gran parte della sua vita con umili contadini; non aveva mai voluto cancellare la sua provenienza dal basso, dagli ultimi della società (per condizione sociale, non per virtù). Così, sino alla fine, sempre con gli ultimi: con i ragazzi difficili, con quelli diversamente abili, con i penitenti e i peccatori, con i disoccupati e i diseredati, con le anime del Purgatorio e i morti dimenticati dai propri familiari.
Nessuno mai glielo ha detto e Giovanni non ha mai saputo che tradizione deriva da trans dare e significa consegnare al di là, oltre. Nessuno glielo ha mai detto e Giovanni non l’ha mai saputo che trasmettere deriva da trans mittere e significa tramandare da una persona all’altra. Giovanni non sapeva nemmeno che per patrimonio (che deriva da pater) si intendesse il complesso dei beni culturali, sociali, spirituali ereditati attraverso i tempi. No, Giovanni non sapeva queste cose e non gli interessava nemmeno saperle, perché egli stesso rappresentava un pezzo prezioso e incancellabile della tradizione. Perché egli stesso era un patrimonio. E lo era in un territorio in cui, purtroppo, ancora prevalgono le violenze camorristiche, le prevaricazioni sociali e politiche, il saccheggio sistematico dell’ambiente, delle idee, dei valori. Perciò ha cercato sempre di appartenere a “quel” territorio in un modo “diverso”. In fondo, appartenenza non è ubbidienza o apparenza. Appartenenza al luogo è coscienza di essere e saper essere in “quel luogo”; è progetto di sviluppo per ogni suo anfratto e per ogni suo abitante; è consapevolezza e autoconoscenza di trasmissione e continuo confronto.
Chi appartiene a un luogo è anche fedele ad esso; perché è fonte di fiducia reciproca, di sostentamento biunivoco, di reciproco afflato.
È in questo significato che Giovanni Coffarelli è appartenuto ed è stato fedele a Somma Vesuviana e al Casamale. Sia quando ha intonato un canto alla potatora, sia quando si è avventurato in progetti di riscatto culturale per la sua città. Sia quando ha offerto spaccati di cultura locale all’analisi di studiosi internazionali, sia quando ha succhiato le parole di questi ultimi e ne ha fatto immediati percorsi innovativi[29].
Ecco perché l’eredità culturale di Giovanni è preziosa e incommensurabile. Nessuno, ormai, lo può ignorare. Ma non può nemmeno solo fingere di sapere!
[1] Docente di Antropologia culturale nelle Università di Salerno e Roma. Ha condotto ricerche sulle tradizioni popolari di Somma Vesuviana, unitamente a Roberto De Simone ed Annabella Rossi. Ha avuto come preziosi testimoni della realtà locale Lucio Albano e Giovanni Coffarelli.
[2] È l’antico borgo, la città murata, il vecchio centro storico di Somma Vesuviana. Il nome Casamale, secondo l’atto di locazione del 9 settembre 1011, per la terra di Castagneto in Somma (Monumenta, Tomo II, parte I, pag. 438), deriverebbe dall’antica e nobile famiglia dei Causamale: “Il giorno 9 del mese di settembre, X indizione, in Napoli. Sotto l’impero del signor nostro Alessio (Basilio), grande imperatore, anno II e di Costantino, grande imperatore, suo fratello, anno XLIX. Palumbo, di cognome Causamale, figlio del fu Giovanni, e Rogata, coniugi, abitanti in Somma, hanno dato in locazione a Stefano Russo per anni quattro e per tarì 24 una loro terra detta Castagneto posta nel luogo di Somma, con alberi ed introiti, [etc]”. Ma il Casamale potrebbe anche derivare da Causa Manes (il luogo degli antenati divinizzati della tradizione romana) o da Casa Mana (sinonimo di potenza) o da Casa Malax (un etrusco luogo delle offerte). Il Casamale è il cuore di tutte le attività inserite nel filone della tradizione. Nella Chiesa della Collegiata al Casamale, infatti, si conserva la statua di San Gennaro, patrono di Somma; dalla stessa chiesa parte la suggestiva processione dell’Addolorata, il venerdì santo. Nei vicoli del Casamale -dedali dalla toponomastica arcaica: vico Giudecca, vico Malacciso, vico Cuonzolo, vico Zoppo, vico Perzechiello– si accendono a scadenza quadriennale le lucerne. E sempre nei vicoli del borgo antico si mantiene l’usanza di dar fuoco al cippo di Sant’Antuono (il 17 gennaio), ‘o fucarazzo o di tenere sospesa –da un balcone all’altro- una goffa pupattola, la quaresima, che, innalzata il mercoledì delle ceneri, segna il periodo dell’astinenza e del digiuno ed il cui simbolismo liturgico termina con fuochi pirotecnici, dopo 40 giorni, in segno di liberazione e trasgressione
[3] Nato a Napoli, nel 1913, e morto a Somma Vesuviana, nel 1989, è stato il più alto esponente della cultura popolare sommese. Era l’ultimo di dieci figli ed i suoi genitori –proprietari di un’osteria- lo affidarono ad una donna di Somma – Maria Cerciello- a cui era morto un figlio di nome Gennaro. Da quel momento Lucio divenne per tutti e per sempre Gennaro. In seguito, poi, fino alla morte, Lucio Albano fu unicamente zi’ Gennaro ‘o gnundo. Era un devoto della Madonna di Castello, alla quale aveva fatto erigere una cappella sul Monte Somma, in località gnundo (unione, congiungimento). Albano, a capo di una paranza, che dirigeva con consumata arte, nelle feste della montagna salutava la Madonna di Castello con un canto a figliola . Somma Vesuviana ha intitolata una strada a Lucio Albano, contadino.
[4] E’ un particolare tipo di canto intonato per le feste dedicate alla Madonna (in special modo alla Madonna di Montevergine ed a quella di Castello). Si presta ad essere cantato sillabicamente e lascia molto spazio all’improvvisazione degli esecutori. La melodia tradizionale viene intonata da un solo cantatore, al quale si unisce, alla fine, il coro dei presenti. Infatti, la caratteristica maggiore di questa forma è la sua speciale cadenza articolata in coro su diverse espressioni stereotipe, delle quali le più ricorrenti sono: A majesta soia (La sua donna), Aggio ditto bbuono (Ho detto bene, giustamente), A Mamma Schiavona (La Madonna Schiavona, ossia nera). Una volta, specialmente a Napoli, il canto a figliola era anche tipico e rappresentativo della malavita locale. Con la stessa forma di canto, poi, si sfidavano i cantatori dopo il pellegrinaggio a Montevergine e la competizione veniva fatta a Nola. (Quant’è bello/ quant’è bello/ chi va pe’ feste/ e nce va co’ nomme e ca’ fede/ ‘e mamma schiavona…’a figliola)
[5] “Nunziello era un vecchio contadino che, quando potava le viti, cantava canti popolari con una cadenza diversa dalla tammurriata. Io, che lo seguivo raccogliendo rami, ho appreso la cadenza e l’ho battezzata alla potatora ”, in C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?, Tullio Pironti, Napoli, 1997.
[6] Alcune delle voci si sono, ormai, con la proliferazione dei supermercati, definitivamente perse: “Vitiello ‘e Napule, vitiello ‘e Napule/ freschezza! ‘O pero e ‘o musso (Vitello di Napoli, freschezza! Piede e musello)”, “Tosta tosta, hanno fatt’’a faccia de’ bizzoche, che belle cerase! (Dure, dure, son come la faccia delle bigotte, che belle ciliege!)”, “Perco’, v’anno miso aret’’o vico. Perco’, ca nce vo’ ‘o vino ‘e Procida, che belle percoche! (Percoche [pescocotogne] vi hanno messo in vendita dietro il vicolo, percoche, per voi c’è bisogno solo del vino di Procida, che belle percoche!)”, “A signurina pure nce piaceva ‘o pisciulino dint’’o pomidoro, che bella pasta! (Alla signorina piaceva il pesce al sugo, che bella pasta!)”, “Pesie’, ca’ n’ce vo’’a pasta janca. Pesie’, chille so’ chille de’janche (Piselli, ci vuole la pasta bianca, sono i piselli bianchi)”, “E’ bella l’ever’’e mare co’ lacierto! (E’ bella l’erba marina con lo sgombro)”.
Giovanni Coffarelli fu chiamato da Eduardo De Filippo, per intonare una voce caratteristica in “De Pretore Vincenzo”, la sua commedia ridotta per la RAI e musicata da Roberto De Simone: “Garuofane ‘e mele, garuofane ‘e mele, l’anno passato te teneve dint’’o lignammo, auanno te tengo dint’’e garuofane. Ih che belle mele! (Garofani di mele, l’anno scorso vi tenevo nelle casse, quest’anno vi tengo tra i garofani. Che belle mele!)”.
[7] Musicista, compositore, autore e regista teatrale, accademico di S. Cecilia. È stato direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli e del Conservatorio di Musica di S. Pietro a Maiella.
[8] L’inizio è mobile, perché comincia il sabato in albis e dura sino al tre maggio successivo. La notte del sabato mille falò illuminano valli e costoni della montagna: li accendono gli uomini delle paranze, mentre bivaccano ed inanellano canti e balli scanditi dal ritmo di strumenti popolari. La festa, occasione di abbondanti libagioni e sfrenati canti liberatori, dura fino al tre maggio, il cosiddetto tre del ciglio o della croce. Il ciglio, il punto più alto del Somma-Vesuvio, è il luogo in cui, la notte del tre maggio, si dà fuoco ad una maestosa croce. Ed, intanto, sulla nera montagna un suggestivo spettacolo di fuochi pirotecnici illumina il paese, che vi giace alle pendici.
[9] Un elemento essenziale nella festa della Madonna di Castello ed in tutte le feste della Montagna è la perticella o perteca. La pertica si ricava da un legno di castagno pulito dei rami. Sulla cima del legno troneggia l’immagine della Madonna di Castello; lungo il tronco si alternano corone di castagne e rami di ginestre, torroni e limoni, mele e dolciumi. Tutti ornamenti che indicano la produttività agricola del territorio. La pertica, così addobbata, è portata, quindi, in omaggio alle donne (mogli, fidanzate, sorelle, madri) degli appartenenti alle paranze sui ritmi di un canto a figliola. La funzione si colora di sacro e pagano: la devozione alla Vergine -madre e padrona- si trasforma in un dono alla persona amata. Dopo la festa, la pertica diventa un oggetto di uso quotidiano. Ed in attesa di essere sostituita da una nuova, essa si presta ad essere sostegno alle funi tese per asciugare le lenzuola o si lascia coinvolgere dalla mano esperta della massaia nella preparazione del forno per cuocere il pane
[10] Chi è devoto, le feste popolari in Campania, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1974.
[11] C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[12] C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[13] (1915-2002) Etnomusicologo, antropologo. Ha insegnato in varie università americane tra cui la Columbia University. Ha condotto ricerche sulla cultura popolare in Italia, in Inghilterra e in Spagna. È stato l’inventore di un sistema di classificazione degli stili dei canti popolari detto Cantometrics.
[14] “Ricordo benissimo il giorno in cui Giovanni si presentò, col suo compagno Franco Salierno, nella saletta di registrazione di uno stabilimento cinematografico romano. Per prima cosa accesero un fuoco sul terrazzino della saletta, per riscaldare la tammorra. Era una necessità tecnica, ma anche, a suo modo, un rituale dal sapore antico, che suscitò lo stupore dei tecnici. Poi, Giovanni entrò in sala per registrare il primo pezzo, una fronne, e l’attacco, possente e acuto, fece quasi saltare il microfono. Evidentemente il tecnico del suono si attendeva qualcosa di diverso e fu costretto a riconsiderare tutti i suoi parametri ”, S. Piscicelli in C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[15] La fronna, o più esattamente la fronna di limone, è una particolare forma di canto campano, eseguito a distesa e senza accompagnamento strumentale. Per quel che riguarda i testi, in genere si attinge ad un vasto repertorio di fronne, che però, a seconda della circostanza, possono essere variate, rimescolate o improvvisate in parte dall’esecutore: “Fronn’ ‘e limone/ e ‘o limone e ‘o pertuvallo/ risponne ‘o mandarino che è cchiù doce/ ‘o meglio spigulo ‘o damm’ ‘a nammurarata…”.
[16] C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[17] (1933-1983) Antropologa, ha lavorato al Museo Nazionale di Arti e Tradizioni Popolari di Roma e all’Università di Salerno. Ha scritto numerosi saggi e volumi, tra cui Carnevale si chiamava Vincenzo (De Luca, 1977), Lettere da una tarantolata (De Donato, 1970) e Le feste dei poveri (Sellerio, 1986).
[18] C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[19] (1924-1990) Etnologo e etnomusicologo, ha raccolto più di 5000 canti popolari, tra il 1952 e il 1958, con Ernesto De Martino. Ha collaborato con Alan Lomax, ha insegnato all’Università La Sapienza di Roma e all’Accademia Nazionale di danza. Ha fondato gli archivi di etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia.
[20] C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[21] Docente di etnomusicologia all’Università La Vergata di Roma. Collabora con l’Accademia nazionale di S.Cecilia. Ha fatto parte della direzione della rivista Culture Musicali e di Quaderni di Etnomusicologia.È autore di numerose pubblicazioni.
[22] Docente di Organologia e Storia degli strumenti musicali. Lavora presso il Centro regionale di Documentazione della Regione Lazio, dove si occupa di metodologie e pratiche di documentazione e catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici.
[23] Docente all’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato numerosi saggi di storia orale, antropologia della scrittura, poesia improvvisata e didattica della scrittura.
[24] Compositore, antropologo della musica e cineasta-etno-logo. Svolge da anni intensa attività di ricerca sulla musica e l’iconografia dei suoni nelle culture orali e nella prassi dei film etnomusicali.
[25] Docente di Storia deglui Strumenti Musicali all’Università di Milano. Collabora con l’Accademia di S. Cecilia.
[26] “Era un’estate di venti anni fa, quando mi telefonò Roberto De Simone e mi disse che c’era una studiosa francese, che voleva conoscermi. Mi disse che stava preparando il programma per la III Biennale di Parigi (1980; poi, nel 1981, Giovanni tornerà in Francia in occasione delle Grandes Fetes du Centenaire du Port St-Louis-du-Rhone), dove ci sarebbero stati Carpitella e lo stesso De Simone, che avrebbe rappresentato “Mistero Napolitano”. Ci sarebbe stata anche un’esposizione delle tavolette votive della Madonna dell’Arco. Voleva organizzare un concerto di musica popolare, perciò invitava anche me. Così partii per la prima volta per Parigi. Nella capitale francese Ginette mi disse: -Giovanni, voi italiani siete fortunati, perché conservate ancora tante tradizioni; in Francia, a duecento anni dalla rivoluzione, la nostra borghesia si è girata indietro e non ha riconosciuto la propria identità ”, in C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[27] “Roberto Leydi l’ho conosciuto a Cusano Mutri (1990, XIV Rassegna internazionale degli strumenti popolari, Incontro internazionale di organologia), in occasione di un convegno sul doppio flauto in Italia e in Europa. Fra tanti studiosi, eravamo stati invitati anche io, Pasquale Ambrosio e Franco Salierno, per dare un accenno dei nostri canti”, in C. Raia, E’ ghiut’’o treno dint’’e fave?
[28] Il laboratorio, aperto col concorso di innumerevoli amici e sostenuto unicamente dalla passione di Giovanni (che si era, poi, sobbarcato tutte le spese), è in via Gino Auriemma, in Somma Vesuviana. Fu inaugurato il 16 aprile 2005
[29] Sul Casamale, luogo delle tradizione, e su Giovanni Coffarelli, custode delle tradizioni, negli ultimi anni sono state assegnate anche tesi di laurea: 2004/2005, Suor Orsola Benincasa (Na), candidata Anna De Stefano, relatore Marino Niola, Il Casamale: la festa delle lucerne, l’antico borgo murato e le sue tradizioni; 2004/2005, Università di Perugia, candidata Laura Fuggetta, relatore Gianni Pizza, Giovanni Coffarelli e la Tradizione dei canti vesuviani. Una ricerca etnografica a Somma Vesuviana; 2006/2007, Università la Sapienza (Roma), candidato Dario Ruta, relatore Francesco De Melis, Memoria di una musica da mercato. La vocalità della vendita nel ricordo di un contadino vesuviano; 2007/2008, Università La Sapienza, candidata Erika Trasatti, relatore Francesco De Melis, La fiaba tra oralità e scrittura. Un esempio: la tradizione popolare e musicale di Giovanni Coffarelli; 2008/2009, Università La Sapienza, candidata Valeria Amitrano, relatore Antonello Ricci, Giovanni Coffarelli: la voce della Tradizione. Ricerca sul patrimonio immateriale vesuviano.