Era il mese di febbraio del 2008, quando mi arrampicai fin sulle alture del Sannio, a Beltiglio di Ceppaloni, attraversando boschi di pini e querce, per incontrare Ferdinando Facchiano. L’allora ottantunenne ex ministro (nato nell’agosto del 1927, è stato deputato eletto nelle liste del Psdi, nella X e nell’XI legislatura, nel corso delle quali ha occupato il Ministero dei Beni Culturali ed Ambientali [Andreotti VI], il Ministero della Marina Mercantile [Andreotti VII], il Ministero per il Coordinamento della Protezione Civile [Amato I]) lavorava e dimorava a Roma, dove ancora esercitava la professione di avvocato, ma, ad ogni fine settimana, faceva ritorno nell’avito centro sannita, dove continuava a ricevere ancora un’infinità di amici e questuanti. La sua casa -con le scalinate di piperno, l’ampio giardino interno, il cane che ci seguiva scodinzolante- era un continuo di stanze zeppe di libri, fascicoli, giornali ed antichi cimeli. Alle pareti c’erano ancora alcune fotografie, che ritraevano Facchiano con il Presidente Francesco Cossiga, con Giulio Andreotti, con Giuliano Amato, con Gianni De Michelis, con il Papa Giovanni Paolo II. In un angolo, poi, ben riposta, ma non tanto da non essere ben visibile, la bandiera rossa con la scritta centrale “Partito Socialista Democratico Italiano”. “E’ la bandiera che era in sezione; l’ho io, da quando la sezione è stata chiusa”. Ci sedemmo uno di fronte all’altro; poi, subito l’avvocato Facchiano inanellò ricordi, considerazioni, delusioni e speranze.
- Io sono nato proprio qua, in questa casa molto grande, ben trentacinque stanze, dove viveva il mio nonno materno. Sono rimasto molto legato a questa casa, anche se è oramai spopolata. Mio padre era un famoso avvocato, fortemente antifascista.
- Da quanto lei è in politica?
- Dal 19 marzo 1943. Ero in prima liceale; il giorno di san Giuseppe, allora, si faceva festa a scuola. Così andai a Napoli, da un mio zio, Valerio Catalano, marito di una sorella di mia madre, che era un esponente del PdA. Io, allora, ero avanguardista e mi sentivo, nella mia grande ignoranza storica e politica, molto legato al fascismo. Tanto da sentirmi quasi in contrapposizione con mio padre ed il suo convinto antifascismo. In verità, già cedevo ad una crisi interiore, perché vedevo che la guerra andava male per l’Italia ed a scuola, un mio bravissimo e compianto docente di filosofia, il professore Orlando, aveva cominciato a parlare di un “certo” Benedetto Croce.
- E cosa succede quel 19 marzo?
- Che io accompagno mio zio ad una riunione in via Mezzocannone n.53, allo studio di Pasquale Schiano, dove c’erano anche Gennaro Fermariello ed Eugenio Reale. Ovviamente, io non presi parte alla riunione. Aspettavo mio zio, che, prima di andare via, mi presentò a Schiano. Il grande antifascista si interessò a me con molta attenzione, mi invitò a parlare della mia crisi, mi dette in lettura alcuni opuscoli di “Giustizia e Libertà”. Dopo un po’ di tempo ed altri incontri presi, quindi, la tessera del PdA. Sempre nello studio di Schiano, nel 1944, conobbi Giovanni Leone e Francesco De Martino. Erano in attesa del fratello di Pasquale, che commerciava legnami con la Puglia, per avere un passaggio in macchina all’Università di Bari.
- Intanto lei era sempre a Ceppaloni?
- Sì, ero studente. Ed a Ceppaloni ho vissuto le date storiche del 25 luglio ed 8 settembre 1943. Ed ancora a Ceppaloni, comune monarchico prima e democristiano poi, ho vissuto le fasi del referendum istituzionale, passando –solo perché ero a favore della Repubblica- per un sovversivo. Infatti, qui a Ceppaloni, recuperare un centinaio di voti per la Repubblica fu impresa ardua. Lo stesso mio nonno materno era un fedele monarchico.
- Ma aveva organizzato anche altre attività politiche?
- Sì, avevo costituito la sezione del PdA a Ceppaloni ed a Benevento.
- Quando, invece, lei comincia a frequentare Napoli in modo più sistematico?
- A fine 1945, quando mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza alla Federico II. Ed a Napoli ho conosciuto Filippo Caria, che, ricordo, poi, nei giorni della lotta con i monarchici, posizionato dietro una mitragliatrice, pronto a fare fuoco.
- Ha collaborato subito con Caria?
- Sì. Insieme facemmo un’operazione molto importante. Con un regolare congresso, infatti, riuscimmo a trasferire la federazione giovanile del PdA da Roma a Napoli. Caria assunse la carica di segretario nazionale, io quella di segretario nazionale organizzativo. Quegli anni, ricchi di passione e tensione, furono i veri anni del rinascimento napoletano. Altro che quelli in cui c’è stato Bassolino!
- Ha conosciuto anche Croce?
- Sì. Sempre grazie a mio zio Valerio Catalano. Ricordo, infatti, che il filosofo era solito frequentare le librerie di Cambi e di Fausto Fiorentino in Calata Trinità Maggiore. E proprio in una delle sue visite agli scaffali di Fiorentino ebbi modo di stringergli la mano.
- Torniamo alla militanza politica. Come avviene il passaggio dal PdA al partito di Saragat?
- Quando ci fu lo scioglimento (a marzo 1947) del PdA, con l’assemblea nazionale al teatro “Valle” di Roma, c’era già stata (a gennaio 1947) la scissione di palazzo Barberini. Molti di noi giovani avevano seguito attentamente la vicenda della scissione, in più, poi, si confrontavano con Tristano Codignola, che spesso veniva a Napoli. Subito dopo le conclusioni del “Valle”, quindi, noi campani ci riunimmo nell’ex Hotel Oriente (oggi, Hotel delle Nazioni), in via Poli, per discutere delle nostre scelte. Molti giovani, tra cui Caria ed io, dopo un intenso dibattito, sostenemmo la necessità di mantenere la nostra autonomia e non imboccare subito altre strade.
- Come andò a finire?
- Che noi restammo autonomi e ci chiamammo “Giustizia e Libertà”, il cui esponente di spicco fu Aldo Garosci. Quindi, confluimmo nell’USI di Ignazio Silone. Poi, nel 1948, dopo le elezioni, Romita uscì dal vecchio PSIUP e, a Firenze, costituì il PSU, partito nel quale confluì anche l’USI. Infine, ci fu il passaggio nel PSDI.
- Da allora lei è stato sempre nel partito socialdemocratico?
- Sì. Sono stato nella Direzione Nazionale, ho retto vari Dipartimenti, sono stato segretario nazionale organizzativo, vicesegretario (con Nicolazzi e con Cariglia) e ministro per quasi cinque anni consecutivi. Da ultimo, unico responsabile del partito, dopo le note vicende di inizio anni novanta. Sono rimasto socialdemocratico. Ho sperato in Giuliano Amato e Massimo D’Alema, che sembravano ripetere le parole di Saragat. Poi, dopo il congresso dei DS di Rimini, mi sono tirato definitivamente fuori, perché le strade indicate non erano quelle della mia storia e della mia tradizione politica. Alle ultime elezioni, con quella legge elettorale, non sono andato nemmeno a votare.
- Se ho capito bene, lei non condivide l’esperienza del Partito Democratico?
- Questa è l’esperienza peggiore mai fatta in politica. Il PD è l’ultimo tentativo di due oligarchie, che hanno come unico progetto il potere per il potere.
- E perché, invece, nell’immaginario collettivo, pende sempre un giudizio abbastanza negativo sui socialdemocratici?
- Indubbiamente noi abbiamo fatto molti errori; la stessa dirigenza politica del partito, spesso, non è stata all’altezza. Il giudizio negativo discende dalla pratica col potere e con “l’obbligo” di aver dovuto partecipare ai governi, schiacciati tra i due blocchi. In ogni caso, ma questo non è assolutamente una giustificazione, la pratica del sovvenzionamento ai partiti era presente in ogni formazione politica. Solo che l’aspetto deteriore e paradossale di quella stessa pratica si riversa negativamente solo sull’anello più debole –perché più piccolo- della catena, che erano i socialdemocratici. Chi ha letto –come io ho letto- gli atti della condanna di Tanassi, sa, perfettamente, che Mario è stato una vittima, perché, al di là di qualche piccolo episodio di corruzione (esecrabile) di qualcuno della sua segreteria, non c’è stata alcuna prova contro di lui. Siccome Moro, in difesa del ministro Gui, che aveva firmato il contratto con la Looched, dichiarò in Parlamento che la DC non si poteva condannare, allora, le uniche colpe ricaddero sui più deboli. Nella storia c’è bisogno di capri espiatori.
- Non così, mi pare, si è trattato per Nicolazzi?
- Nicolazzi sa perché è stato condannato? Perché ha utilizzato l’aereo di un’impresa, che lavorava per il suo ministero.
- Una sua considerazione finale sulla politica dei nostri giorni.
- La politica, senza etica, non è politica. È inutile cambiare i termini. Se prima c’era la tangente oggi c’è la consulenza. Se non c’è un rivolgimento morale, non c’è alcuna possibilità che la politica torni a primeggiare.
Dopo quel febbraio del 2008 ho, poi, incontrato Ferdinando Facchiano il 21 giugno del 2014, in occasione del compleanno di Filippo Caria. Sempre molto elegante, mi sembrò, però, alquanto stanco. Facendo un po’ di conti, Facchiano aveva i suoi quasi novant’anni e li portava benissimo. L’ho rivisto il 20 novembre scorso, nella Sala “Nugnes” di Napoli, dove con Giorgio Benvenuto, Gerardo Bianco e Giuseppe Biasco fummo chiamati a testimoniare sulla figura del compagno Filippo Caria, scomparso nell’agosto precedente. Facchiano, ad onta della sua apparente stanchezza e del peso dei suoi anni, fece un intervento lucido, appassionato, ricco di ricordi e di spunti politici.