Ci sono persone che entrano a far parte della tua vita –all’improvviso, riuscendo ad occupare, in una intima scala di valori affettivi e culturali, un posto che è antico, perché apparteneva a loro anche quando materialmente essi non c’erano- e tu nemmeno ti chiedi mai come questa interazione affettivo-culturale si sia potuta generare e quale complementarietà o affinità (di intenti, di sentimenti, di passioni) ne abbia reso possibile l’esistenza e la durata. Poi, un giorno, con la nostalgia per un vecchio postino che non bussa più nemmeno due volte al mese, un improvviso messaggio su facebook –reincarnazione di un dio con in testa il petaso ed ai piedi i sandali alati- ti richiama a fare i conti con le esperienze e le conoscenze, che ti hanno offerto occasioni di crescita, di analisi, di confronto.
Era verso sera di un martedì 17 maggio (smentendo il detto che vuole né di venere né di marte non si sposa e non si parte né si dà principio all’arte; smentendo, altresì, la negatività che la smorfia napoletana assegna al nefasto 17), quando un nuovo messaggio si materializzò sul mio account: “Carissimo Ciro, nel prossimo dicembre toccheremo il quarantesimo anno del nostro impegno e del nostro lavoro nel campo della ricerca e della riproposta della musica popolare della Campania interna […] Oggi suoniamo con i nostri figli nell’esperimento “iMusicalia-la bottega di famiglia”. Ci piacerebbe festeggiare l’anniversario con la pubblicazione di un libro con le testimonianze di una serie di persone che hanno incrociato la nostra esperienza e di cui conserviamo un ricordo intenso […] Con i più cordiali e affettuosi saluti, Amerigo e Marcello Ciervo”.
Si presentava il momento di descrivere motivazioni e contenuti a supporto di quella istintiva interazione affettivo-culturale e quella complementarietà o affinità (di intenti, di sentimenti, di passioni) nata e durata negli anni!
Giovanni Coffarelli -bardo di Somma Vesuviana di origine oltre che di cultura operaia e contadina (scomparso nel 2010)-, voce possente e ammaliante nell’esecuzione di fronne, di canti a figliola e/o alla potatora, era capace di cambiare nomi e parole in suoni, che avevano solo una certa consonanza con i suoni e le parole vere da comunicare. Diceva, per esempio, Stabul ed intendeva dire Instabul o parlava della polvera d’arco al posto del borotalco. Giovanni aveva, però, un grande cuore, un’intelligenza straordinaria e, soprattutto, una testa in cui si strutturavano e si rincorrevano essenzialmente due finalità: recupero della tradizione (della memoria) e della cultura popolare (dell’identità primigenia, delle vere radici di una comunità).
Ed era stato proprio Giovanni, alla fine degli anni ’80, a parlarmi di un gruppo musicale beneventano (cerco di utilizzare le sue stesse parole) dei Musicalìa, fondato dai fratelli Ciervo. Quella volta, però, non c’era stato bisogno di consonanze (a parte l’accento sulla penultima vocale anziché sulla terz’ultima!); Amerigo e Marcello, infatti, erano parte integrante di una rete di grande valenza etnomusicale, che a Coffarelli ed ai suoi estimatori (ed io fra questi) provocava continui entusiasmi ed emozioni. Parlare, quindi, dei fratelli Ciervo significava essere completamente proiettato nelle ricerche da tempo condotte da studiosi del calibro di Annabella Rossi, Diego Carpitella, Roberto De Simone e, più tardi, Paolo Apolito.
Prima di conoscere di persona Amerigo e Marcello, pensavo che essi fossero testimoni della tradizione in quanto – come Coffarelli- operai (ero anche influenzato dalla “mia” contiguità territoriale con Le Nacchere Rosse), contadini col sudore della terra fin dentro l’alito o cultori di una religiosità sacro-pagana di un qualche luogo circoscritto, che poteva avere la sua esistenza su una collina, in una campagna o nella mitologia dei racconti degli anziani. Quale sorpresa, invece, fu scoprire che i fratelli Ciervo erano tutt’altro! Amerigo –che incontrai per la prima volta al liceo classico “Giannone” di Benevento, nel corso di un seminario di studi su “Rinnovamento della didattica della Storia contemporanea”- era uno stimato docente di storia e filosofia. Marcello, invece, che avevo conosciuto in occasione di un’esibizione artistica inserita nel cartellone di “Città Spettacolo di Benevento” (a cui partecipava anche Coffarelli), lo incrociai, per caso, a Napoli, in via Costantinopoli. Gli chiesi come mai si trovasse da quelle parti e grande fu la mia sorpresa, quando appresi che da medico anestesista lavorava nei padiglioni degli ospedali del decumano superiore, nel cuore dell’antica Partenope. E da quell’incontro casuale, siccome all’epoca io lavoravo proprio in via Costantinopoli, divennero frequenti le occasioni in cui con Marcello ci incontrammo a bere un caffè al bar delle Arti di Amedeo Pianese (con la sua passione per le caricature tratteggiate ed offerte a quasi tutti gli avventori), a comprare il giornale all’edicola di Titina (posta proprio sotto Port’Alba) o a curiosare tra le bancarelle delle antiche librerie Guida, Berisio, Regina, Colonnese o Pironti.
Giovanni Coffarelli era egli stesso portatore ed interprete di una cultura, che testimoniava in mille modi: raccontando cunti ed esperienze lavorative, intessendo ricordi e storie di paese, sempre in un dialetto vesuviano (interno), che non ammetteva sconfinamenti negli standard contaminati della lingua italiana se non, in alcuni particolari casi (seminari, incipit di performance artistiche, interviste), corrompendo –come suo solito- radici, desinenze, significati e significanti. E, poi, Giovanni –definito antropologo nativo da studiosi di vaglia come Alan Lomax- suonava da dio (senza conoscere una sola nota musicale) la tammorra e le castagnette (mentre gli altri strumenti popolari [il sisco, lo scetavaiasse, il putipù, il doppio flauto, la treccia di campanelli] ne integravano il ritmo), che accompagnavano i suoi melismi ed i passi di una tammurriata sfrenata nonostante l’età avanzata e la sua mole massiccia. Si accorgeva “ad orecchio” se il ritmo era sopra le righe o se uno strumento “era entrato” in anticipo o in ritardo durante un’esibizione. Richiamava bonariamente i suoi compagni di ventura, che come lui si spaccavano la schiena a dissodare le zolle del Somma-Vesuvio o a montare i ponteggi nei cantieri edili. Giovanni aveva, però, a differenza degli altri (che suonavano e cantavano testi popolari per puro divertimento), grande sensibilità e intuizione, per corredare il suo ruolo di sacerdote, di maestro e testimone di una cultura in estinzione.
Diversa era (ed è), invece, la formazione culturale e l’organizzazione musico-canora dei fratelli Ciervo e del gruppo de iMusicalia (prima con alcuni storici collaboratori; ora essenzialmente una famiglia di artisti composta di padri e zii con rispettivi figli e nipoti). Io non so bene gli strumenti che, nel tempo, sono stati utilizzati dall’ensemble sannitico ma so per certo che, ai tradizionali suoni della chitarra battente, del flauto e delle castagnette, la colonna sonora de iMusicalia si è arricchita delle risonanze della fisarmonica, delle tastiere, del violino, del sax, del clarinetto, del flauto dolce, del trombone, del basso elettrico, del tambura e delle percussioni (tra le quali il tarambouka).
Allora Amerigo e Marcello Ciervo hanno fatto di una loro passione –la musica- un veicolo di insegnamento del ben vivere; sono stati –non potendo essere testimoni, per condizione socioculturale di origine e per scelte professionali operate a monte- finissimi ricercatori nel campo sconfinato della tradizione (dal latino trans dare = consegnare al di là, per poi trans mittere = tramandare da una persona all’altra) e del patrimonio (dal latino pater = padre) culturale popolare (il complesso dei beni culturali, sociali e spirituali ereditati attraverso i tempi), aggiungendo, volta per volta, segmenti di nuove conoscenze e/o di microsperimentazioni innovative alle scienze linguistiche, storiche e politiche. Sono stati, in effetti, dei curiosi (nel senso che il loro percorso lo hanno fatto con cura meticolosa, con attenzione certosina [dal latino cura = premura]) intellettuali in grado di rendere, con levità ma con serio sacrificio, variamente leggibili e fruibili le diverse sfaccettature della conoscenza (quella propria del sapere e quella universale del saper vivere per e con gli altri) in chiave multiculturale, multietnica e multidisciplinare.
Nel campo della ricerca linguistica iMusicalia hanno dato senso e significato al comunicare (dal latino communicare = mettere in comune), mediante la riproposta di testi in dialetto (dal greco diàlektos = modo di parlare e dià legomai = parlare insieme, conversare), riproponendo termini di cui –specie per le nuove generazioni e non solo- s’era perso l’uso e il contenuto semantico (es. copèta [o anche coppèta, cupète, cupèta, dall’arabo qubbàita = dolce impastato con zucchero, mandarlo e pistacchi], metaràno [canto di accompagnamento della mietitura, dal latino mètere = mietere], ambelèlla [diminutivo di àmbela, dal greco amphorèus e dal latino amphora = anfora] o sciammèria [o anche sciammerga, dallo spagnolo chamberga= giacca con la coda, giubba]). Perché i dialetti, tutti i dialetti, sono impastati di intelligenza, di fatica e di sudore; sono testimoni di storia e di civiltà oltre che di sterminate esperienze culturali delle popolazioni. L’uso inappropriato o il disuso del dialetto (o dei dialetti) si reggono, in effetti, sull’eredità di una scuola con scarse strutture e dalle miopi ricadute dell’insegnato e dell’appreso. La scuola ha sempre educato a pensare che la storia italiana è storia di città; da qui l’equivoco oppositivo lingua/città vs dialetto/campagna. Ovviamente questa didattica contrastiva ha generalizzato i criteri ed annullato -di conseguenza- la disparità di redditi e di condizioni tra regione e regione, paese e paese, borgo e borgo e tra classe sociale e classe sociale. E in più ha ingenerato la convinzione che nel contrasto città/campagna potesse convivere anche il contrasto dover scrivere (in italiano)- saper pensare/parlare (in dialetto). Ma contro ogni mito populistico (il dialetto è di sinistra!) e puristico (il dialetto non è errore, è malerba da estirpare) che sia, iMusicalia hanno dimostrato che il dialetto è un valore da difendere, perché contiene il codice genetico di ogni uomo. Per cui conoscere il dialetto (esercitarne il godimento) aiuta a possedere uno strumento essenziale per capire il mondo, recuperando anche il patrimonio popolare dell’oralità, ormai molto desueto. Non per caso il dialetto è sempre stata e continua ad essere lingua degli affetti, della passione, del sangue e delle lacrime, dell’intimità associativa e familiare, “perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto” (in A. Camilleri e T. De Mauro, La lingua batte dove il dente duole, Laterza, 2014).
Ancora, il percorso di ricerca linguistica de iMusicalia (ma anche di altri gruppi simili) è servito a poter difendersi dalla televisione come scuola della parlata italiana omogenea, infarcita di qualche dialettismo solo sbeffeggiante. È stata un’operazione di marcata essenza politica, tesa ad arginare un pericolo reale: una società linguisticamente omogenea può diventare facilmente nazista o comunista o faraonica. Una società, infatti, che consente la coesistenza di un idioma riservato ai ceti superiori e di uno per gli inferiori (i ceti subalterni) non può definirsi democratica. Può definirsi, al contrario, omologata, dove i figli dei borghesi e quelli dei nuovi proletari hanno gli stessi contraffatti lineamenti da automi (Pasolini).
Fare musica, secondo me, è un modo di fare storia. Fare musica popolare è un modo per fare (indagare, studiare, registrare) storia locale, la storia del quotidiano e dell’immaginario, quella che ha una valenza legata alla vita di ogni giorno, alla storia delle sensibilità, all’antropologia dei sentimenti.
Così come la storia locale, la musica popolare è regressiva (non in opposizione al progresso, ma al senso, alla direzione dello svolgimento del tempo), in quanto parte dal presente per portarsi e portare verso il lontano. Ed anche la musica popolare –come la storia in genere- è scienza di contesto, che sviluppa una capacità di sapere –in chi suona e in chi ascolta- inversamente proporzionale all’ampiezza del territorio messo sotto il fuoco della ricerca.
Ancora, la musica popolare è differenziale, perché mette in luce le differenze. Ed in questa continua analisi (raccontata, quasi scandita, da nuove sonorità) degli uomini e dei fatti, dei costumi e dei sentimenti di un determinato luogo, assume una capacità didattica (absit iniuria verbis, specie in tempi di Buona Scuola!), come continua e costante ricerca della profondità della propria natura. E senza temere che la storia locale/musica polare possano diminuire le capacità del sapere, perché ogni “proprio” territorio è il vero libro da cui attingere conoscenze.
IMusicalia hanno perciò seguito una metodologia della ricerca, in cui l’uso della mente –del pensiero, dell’indagine, dello studio, del sacrificio- ha condotto diritto diritto al recupero delle radici. E ciò ha messo in primo piano –ancora una volta in accoppiamento con i processi storici- che la musica popolare è selettiva, come la nostra memoria, in quanto il meccanismo del ricordo opera come una pinza nel cervello, è associato alle emozioni, alla montagna del passato che si erge alle spalle e ne racconta la ricchezza che l’ha costruita sacra e preziosa. Per cui i pezzi (ricercati, elaborati, suonati) di storia locale non sono storia secondaria di una comunità, ma un modo intelligente, persuasivo, logico di fare storia (quella che non insegna le nozioni ma educa alla ricerca, alla costruzione, al montaggio e allo smontaggio di conoscenze dei contesti).
Le radici non si perdono, le identità nemmeno, ma sono, queste ultime, soggette a trasformazioni, a revisioni, a integrazioni. Nei testi e nella ricerca de iMusicalia c’è come un romanzo –della categoria della letteratura civile- che racconta le lotte e il lavoro, la vita e il sacrificio dei lavoratori. Un romanzo che sottolinea anche tutte le contraddizioni del Secolo breve, che pur tra mille difficoltà –emigrazione, mietitura, transumanza, malattie, guerre, immigrazione- ha garantito un tozzo di pane a tutti: te lu rricuorde quanno se météva/ jévà tutt’e dduj aspiculàne… Oi zappatore mio, zappa zappa,/ denare a lu burzillo n’unge ne mitti;/ la sera t’arritiri ssciascqua sciàqqua,/ te liévi li zabbàttul’e tte curchi [… ] Anche se oggi i dati Istat del 2016 fanno del Sannio un territorio a rischio desertificazione!
La crisi delle opportunità culturali, lavorative ed anche socio-ricreative sta allontanando, infatti, i giovani da una terra ricca di storia e di testimonianze storiche. Certo l’emorragia dell’emigrazione nel Fortore, nella Valle Telesina o nel Titerno non si può arrestare solo con le musiche e con la ricerca del radici. Ma la consapevolezza di avere avuto (e di possedere) forti radici può aiutare sicuramente a costruire un anello di congiunzione tra le culture delle vecchie e delle nuove generazioni. Alle responsabilità politiche e dei politici, alla mancata crescita –o, in alcuni casi, alla lenta agonia- di una comunità, il lavoro quarantennale di un gruppo di ricerca etnomusicale costituisce sicuramente un antidoto alla decadenza -se non proprio al rischio di una definitiva scomparsa- della cultura del proprio luogo, della vita vissuta e da vivere, del lavoro com’era e come si costruisce.
Qualche anno fa, in prefazione a un libro dedicato a Giovanni Coffarelli, il maestro Roberto De Simone, parlando della cultura popolare, scriveva: “quella cultura, al di là del suo alto valore musicale espressivo, ha rappresentato per noi una tenace lotta ai privilegi, alla mala politica, al clientelismo, alla camorra nascosta della ricca borghesia, a quella reale collusa con le istituzioni, all’abuso edilizio, all’arroganza del Potere, all’ipocrisia del finto cattolicesimo organizzato politicamente”.
Cari Amerigo e Marcello Ciervo, cari amici tutti de iMusicalia, quella lotta necessita che si continui con le armi della cultura e della legalità (che deve essere un’espressione di senso, un patto di responsabilità, una parola mai satura), per contrastare tutti gli incantatori di serpenti, i suonatori di flauti magici, i parolai, che girano per le nostre belle contrade, promettono, comprano e vendono (anche voti), mistificano, presentando ancora i diritti come dei privilegi, approfittando di una coltrice di scarse o mancate conoscenze sempre più spessa, adagiata sugli occhi della maggior parte di noi, sulla nostra mente, sui nostri pensieri, sul nostro futuro.
Per questo sono preziosi i vostri quarant’anni passati e quelli che dovranno essere ripercorsi in futuro sulla scia del vostro impegno. Siete stati degli splendidi inventori (di un percorso, di un modo di vivere, di una cultura), avendo dato il giusto significato alla parola invenzione. L’inventore (dal latino invenìre = trovare) non trova niente di nuovo; inventore è uno che trova una cosa che c’era già ma era necessaria farla vedere agli altri (o a tutti). Voi, con il vostro metodo di ricerca, avete fatto vedere agli altri (o a tutti) la cultura (dal latino còlere = coltivare) dalla parte delle radici. E anche questa volta, con il vostro metodo di investigazione continua, siete stati uguali agli storici. La Storia (dal greco istoria = ricerca, indagine, scoperta) non ha altro compito che quello di raccontare agli altri, “in modo che nessuno muoia, ma viva negli altri ogni uomo che abbia cercato qualcosa e l’abbia detto agli altri”.
Quarant’anni costituiscono il tempo di quasi due generazioni. Dal 1976 ad oggi sono accaduti fatti –in campo nazionale ed internazionale- praticamente inimmaginabili sino a quando non si sono inverati. L’uomo sulla luna, le grandi migrazioni, il perseguimento di una politica di carattere localistico -la tendenza a voler pervicacemente annullare le differenze che non si possono annullare (Europa dei popoli, 25 aprile festa della Liberazione, destra e sinistra) e a mantenere, invece, quelle che si devono civilmente annullare (Europa delle nazioni, 25 aprile come guerra civile e memoria condivisa, democrazia dall’alto)- hanno fatto saltare le cittadelle dell’economia e del lavoro, della geografia, di alcune conquiste sociali ottenute con anni di lotta. Ancora una volta si impone il compito di ricollocarsi attorno alla memoria, da cui individuare i valori da selezionare, per poter vivere simpateticamente, per provare gioia e/o dolore con gli altri e per gli altri. E recuperare, così, anche un rinnovato senso della religione, dello stare insieme sia per raccogliere un nuovo ordinamento (dal latino relègere) che per legare insieme, vincolare (dal latino religare) le persone che hanno avuto la fortuna di incontrarvi (e di icontrarsi). Perché, come sostenevate in un vostro vecchio lavoro, “la vita di Musicalia […] sono state le persone incontrate”. Che, in perfetta simbiosi, sicuramente vi hanno dato ma hanno anche tanto ricevuto.