Pietro Lezzi era nato a Napoli il 15 dicembre del 1922; laureato in giurisprudenza, lasciò ben presto l’attività forense per dedicarsi alla politica ed al partito socialista. È stato tra i protagonisti della ricostruzione del partito a Napoli, assumendo cariche organizzative e politiche. È stato deputato (nel 1963, 1968, 1972 e 1976), europarlamentare (1979), consigliere regionale della Campania (dal 1990 al 1994), membro della direzione nazionale del PSI, sindaco di Napoli nei difficili anni che vanno dal 1987 al 1990 e, da ultimo, consigliere regionale della Campania dal 1990 al 1994. Per oltre un ventennio, dal 1971 al 1999, è stato presidente dell’ente per le Ville Vesuviane.
Nell’estate del 2004 ho incontrato più volte Pietro Lezzi, che, ad ogni incontro si presentava fornito di appunti, ritagli di giornali, riferimenti lucidissimi a uomini e situazioni, che aveva vissuto sempre con grande passione. Ogni volta che accendevo il registratore, la chioma bianca dell’antico combattente si drizzava e Pietro, che fino ad un attimo prima era stato informale, pronto alla battuta sagace, diventava attento, concentrato, meticoloso, pignolo nella scelta dei tempi e delle parole.
Alla fine di ogni incontro mi accompagnava al cancello di quella sua belle casa immersa nei colori e nel silenzio della collina di Posillipo. Attraversando il giardino, mi mostrava gli alberi da frutta curati da un contadino e gli innumerevoli gatti che affollavano il prato. Prima di raccomandarmi di stare attento nel procedere in quella stradina stretta, che riporta alla vista più bella del golfo di Napoli, trovava sempre il tempo per consegnarmi un ultimo ricordo o il tratto più recondito di un personaggio di cui avevamo appena parlato.
- Pietro, cominciamo dagli albori della tua militanza socialista. C’è qualche avvenimento particolare, qualche episodio che ti fece innamorare del socialismo?
- Il 25 luglio del ’43 ero all’Accademia Navale di Livorno, per completare il servizio militare di complemento. Ricordo che, nel piazzale del brigantino, alcuni allievi antifascisti, che manifestavano la propria gioia, furono picchiati selvaggiamente da altri commilitoni. Dopo l’8 settembre, poi, ancora a Livorno per ultimare gli esami dell’8° corso dell’Accademia, all’avvicinarsi delle truppe tedesche, fummo tutti mandati a casa ed incrementammo il gruppo degli sbandati. Insieme ad altri quattro o cinque napoletani, un po’ in treno, un po’ a piedi, raggiunsi prima Nola e, poi, in concomitanza con le quatto giornate napoletane, Frattamaggiore, città in cui era sfollata mia sorella. Pochi giorni dopo, quindi, mi avviai a Napoli, da dove, avendo letto un avviso della Marina Militare che invitava gli ufficiali a presentarsi al comando ed avendolo io –aspirante guardiamarina- fatto, fui destinato prima e Taranto e, poi, a Malta, luogo in cui erano internate le grandi navi. Ero a bordo della corazzata “Andrea Doria”. E, dopo sei mesi di Accademia navale, per ultimare il periodo di ferma, fui costretto a fare un anno di imbarco: equipaggio ridotto, cannoni appennellati, divieto di scendere a terra. Gli unici svaghi erano offerti dall’arrivo delle barche inglesi – che trasportavano prodotti di facile consumo-, dai tempi dedicati allo sport ed alla visione di film. Già a bordo, per la verità, avevo colto, tra i manovali in servizio sulla nave, delle reazioni antifasciste e democratiche; poi, una volta a Napoli, dove decisi di completare gli studi in giurisprudenza, mi appassionai alle vicende politiche. Seguivo, così, manifestazioni e leggevo giornali, tra cui l’Avanti!, restando sempre colpito dalla foga oratoria di Pietro Nenni –famosi i suoi slogan: ”O la Costituente o il caos”, ”Tutto il potere ai CL”, ”La repubblica o sarà socialista o non sarà”-; come non restare infatuato da quel calore nenniano, specie se paragonato alle parole del tiepido Togliatti?
– Ma non credo sia stata solo la foga oratoria di Nenni; c’è stato dell’altro.
- C’è stata la caparbia azione con la quale Nenni ed i socialisti si sono battuti, presso gli Alleati, per trasformare l’armistizio cosiddetto “corto” di Cassibile in uno “lungo”[1], che era pesante e duro ma inquadrava in maniera diversa la realtà italiana. C’è stata la fermezza nel ribadire di non cadere nell’errore di confondere il popolo con coloro che avevano provocato la guerra. C’è stata la forza con la quale Nenni ed i socialisti si sono battuti per continuare la guerra ai nazifascisti, per formare l’esercito, per passare dalla cobelligeranza all’alleanza, nonostante le forti resistenze dell’Inghilterra di Churchill.
- Allora, tu, giovane laureato, decidesti di iscriverti al partito socialista.
- Sì. Insieme al mio amico Enrico Schisa varcammo la sezione di via Egiziaca a Pizzofalcone, per chiedere la tessera.
- Per andare a gonfiare le schiere del “partito degli avvocati”.
- Beh, questa è la definizione coniata, nell’inchiesta del 1956 per la rivista “Nord e Sud”, da Giovanni Cervigni e Giuseppe Galasso[2]. Però bisogna essere onesti e fare delle considerazioni ad alta voce. Se, per esempio, Nenni o altri venivano a Napoli a fare un comizio o passavano in Federazione, allora bisognava anche portarli a mangiare. E gli operai, dopo aver partecipato alla manifestazione, tornavano a casa; toccava ai dirigenti organizzare e sobbarcarsi le spese. Così venne fuori la favola del “partito degli avvocati”.
- Chi erano allora i dirigenti?
- A Napoli il partito era diretto da valorosissimi professionisti come Lelio Porzio, Luigi Renato Sansone, Nino Gaeta, Michele Buccico, Gabriele Jannelli, Scipione Rossi e Fernando Rosatti. Erano tutti, come dicevo, professionisti esimi, che però potevano dedicare all’attività di partito poco tempo; essi avevano passione, intelligenza, possibilità economica ma difettavano di organizzazione.
- Fu difficile assumere le responsabilità di dirigente di partito?
- Io cominciai ad organizzare gli studenti e ricordo che c’era profondo disagio nei confronti dei giovani comunisti, che, a differenza nostra, godevano dell’esperienza rivoluzionaria dei loro maestri, che si erano formati nelle difficili condizioni delle carceri o dell’esilio.
- C’è, a proposito, qualche episodio che ricordi?
- Sì. Quando i comunisti presero parte, per conto del CLN all’amministrazione comunale voluta dagli Alleati, approfittando del momento favorevole, aprirono sedi in tutti i quartieri. Erano sedi municipali e costavano anche poco. I socialisti, invece, non ebbero questa disinvoltura organizzativa. Anzi, quando il partito cercò di darsi una struttura territoriale più capillare – a mia memoria ricordo che c’erano poche sezioni socialiste: una al Vomero, una al Museo, una a Bagnoli, una a Chiaiano- fu difficoltoso reperire anche gli ambienti. Per prendere in fitto un locale a Montecalvario, oltre al mensile, furono chieste £.200.000 per la ceditura. Chi era in grado di reperire questi soldi? Come potevamo immaginare di moltiplicare le sezioni sul territorio. Ecco i motivi del nostro disagio e, talvolta, della nostra gelosia, nei confronti della gioventù comunista.
- Come era organizzato il partito?
- Era organizzato per zone: il giuglianese, il frattese, l’aversano, il vesuviano, la penisola sorrentina e così via. Ogni mattina il segretario della Federazione ci riuniva attorno al tavolo ed illustrava i problemi emergenti; chiedeva il nostro parere, ci affidava compiti. Poi, il giorno dopo, ci chiedeva ragione di quanto avevamo fatto. Il PSI era un partito di idee, c’era un forte legame tra base e vertice: i problemi venivano dibattuti in assemblea e ciascun dirigente dava il proprio contributo alle soluzione da prendere. Io sono stato vicesegretario della Federazione sia con Renta che con De Martino; mi sono avvalso della collaborazione di un gruppo di compagni operai, di qualche studente e di qualche professionista. L’indirizzo politico era, soprattutto, quello di rafforzare il sindacato, in modo da far registrare una cospicua presenza socialista fra i nostri iscritti. Perché, poi, alla fine gli operai andavano a vedere i fatti concreti, non erano ideologizzati né si attenevano alla disciplina di partito; consideravano l’impegno del compagno più capace e dinamico e lo eleggevano negli organismi di gestione. Così capitava che noi socialisti, senza avere la grande forza organizzativa dei comunisti, potevamo portare, per esempio, Vincenzo Esposito alla segreteria della commissione interna dei cantieri navali di Castellammare di Stabia, Antonio Caldoro alla segreteria dei ferrovieri, Aldo Bonavoglia a quella dei postelegrafonici e Carlo Sifo a quella degli elettrici.
- I fondi per mantenere la struttura di partito dove si prendevano?
- Dalle sottoscrizioni, dal tesseramento e dalla bontà di alcuni compagni. Ricordo ancora il professore Iannelli, gran capo della massoneria, che ogni tanto arrivava in Federazione e consegnava diecimila lire “a nome dei miei amici”. E con diecimila lire si potevano fare tante cose! Poi, tutti noi funzionari ci muovevamo con mezzi pubblici, a volte uscivamo all’alba, per raggiungere le zone della provincia, e tornavamo di sera tardi; un panino con un bicchiere di latte in qualche bar ancora aperto e, poi, a casa, per ricominciare, il giorno dopo, a fare riunioni o raggiungere lontane sezioni socialiste.
- C’è un fotogramma, di quei lontani anni, che si ripresenta più insistentemente ai tuoi occhi?
- Le camionette della celere, che, in pochissimo tempo, soffocavano ogni manifestazione operaia, comizio o corteo che fosse. Ho ancora vivo il ricordo della manifestazione napoletana organizzata all’indomani dell’attentato a Togliatti, quando, in seguito all’inevitabile corpo a corpo con la polizia, morirono lo studente lucano Giovanni Quinto e l’operaio napoletano Angelo Fischetti. Ricordo che in quell’occasione anche Francesco De Martino si prese una randellata da un commissario di polizia, che, subito dopo, però, si scusò e ricordò al professore di essere stato un suo allievo all’università.
- Quando hai conosciuto Gaetano Arfé?
- Lo conobbi al suo ritorno dalla lotta partigiana, nei locali della Federazione del Psiup, allora ospitata nella “Società centrale operaia” (una società di mutuo soccorso) in via Egiziaca a Pizzofalcone. Gaetano si occupava della Federazione Giovanile Socialista e del Gruppo Universitario. Ricordo che frequentava moltissimi coetanei iscritti ad altre formazioni politiche, tra cui Gerardo Marotta, Guido Piegari e Gerardo Chiaromonte. All’epoca non abbiamo avuto una forte frequentazione, perché lui era sempre in giro.
- Ma successivamente avete avuto responsabilità politiche comuni.
- Sì. Ed il periodo di più intensa collaborazione è stato quello del Parlamento europeo. Ricordo, in particolare, che una sera, nel corso di una cena al ristorante “Cocodrille” di Bruxelles, (presenti Arfè, Felice Ippolito, Susanna Agnelli, io e qualche altro) Altiero Spinelli illustrò la sua idea di “Progetto di Trattato” per creare una nuova entità: l’Unione Europea.
- Pietro, mi tracci un profilo rapido ed essenziale di Gaetano?
- Arfè è un politico atipico. Fondamentalmente è uomo di studio, di rara cultura, impegnato nelle dottrine politiche e storiche. La sua battaglia ideale è stata quella di poter rivendicare la vitalità della tradizione socialista.
Nel dicembre del 2006, nella Sala del Consiglio Provinciale di Napoli, in Santa Maria La Nova, coordinati da Massimiliano Amato, Pietro Lezzi, con Arfè e Fausto Corace, presentò un mio libro (Socialisti a Napoli, il dopoguerra tra storia e memoria, Dante & Descartes). Fu un vero fiume in piena, difficile da arginare. Rivendicò la sua storia di autentico socialista e lo fece con passione ardente e senza nemmeno un pelo sulla lingua. Pietro era fatto così; come lo ricordavo da ragazzo, quando veniva a Somma Vesuviana per qualche comizio del partito socialista ed io ero preso dalla sua foga oratoria, mentre lo osservavo nei suoi abiti di taglio sartoriale, le camicie con colletti alla francese ed un braccio che affasciava il leggio come a voler diventare una sola cosa con la forza delle parole.
Il 14 settembre del 2007, davanti alla bara di Gaetano Arfè nella Sala Santa Chiara di Napoli, tra coloro che salutarono pubblicamente Arfè (Antonio Bassolino, Rosa Russo Iervolino, Gianni Ferrara, Donatella Cherubini, Enrico Boselli e chi scrive), c’era anche Pietro Lezzi. Con grande commozione l’ex sindaco di Napoli ricordò l’intellettuale formatosi alla scuola di Croce e Salvemini e sottolineò la sua comune esperienza parlamentare “in cui molto apprezzai i rapporti con i compagni socialisti e il comune sentire di Arfé e Francesco De Martino, che si auguravano l’unità dei socialisti e dei comunisti e, insieme, combattevano, perché così potesse essere”.
Una delle ultime immagini del compagno Lezzi è quella legata a una mattina di settembre del 2008. Con l’Istituto di Studi Socialisti intitolato a Gaetano e l’Istituto Campano di storia della Resistenza era stato organizzato un seminario su “L’umanesimo socialista di Arfè”. Come testimoni c’erano Giorgio Benvenuto, Filippo Caria, Guido D’Agostino, Emanuele Macaluso, Sandro Petriccione, Rino Formica, Massimo Villone. Ricordo che davanti all’ingresso dell’Orto Botanico, sede del seminario, si fermò un taxi dal quale scese un elegantissimo signore, con una folta chioma bianca, che si appoggiava a un bastone da passeggio. Gli andammo incontro in molti. Lui salutò con un inchino e, scelse il braccio di mia moglie, per fare il suo ingresso in sala.
Non riuscii a partecipare, sabato 15 dicembre 2012, alla festa dei suoi novant’anni organizzata dal Comune di Napoli, nel corso della quale il sindaco De Magistris gli fece dono di una medaglia d’oro. Gli telefonai, però, per complimentarmi e augurargli di poter percorrere ancora un lungo pezzo di strada. Non rispose a quella telefonata e allora gli lasciai un messaggio in segreteria. Dopo poco mi richiamò per ringraziarmi. E, in verità, non lo fece una sola volta. Nel corso della giornata lo fece tre o quattro volte, come a volersi scusare di non aver sentito lo squillo del telefono o a volere –come gli piaceva- mantenere vivo il rapporto con ogni suo interlocutore.
Poi, fu silenzio da quella volta fino al giorno della sua morte, avvenuta il 7 ottobre del 2013. Anche se lui (politicamente parlando) era già morto, prima, passo passo, sin dalla ingloriosa scomparsa del “suo” Psi.
[1] Fu chiamato “armistizio corto” il testo breve steso dagli angloamericani, composto di 12 articoli, annunciato l’8 settembre ma firmato a Cassibile il 3, per trattare la resa dell’Italia. Fu chiamato, invece, “armistizio lungo” il testo, composto di 44 articoli, firmato, a Malta, dallo stesso Badoglio, il 29 settembre 1943, col quale l’Italia accettava il controllo politico e militare degli alleati.
[2] Inchiesta sul PSI nelle province meridionali, in Nord e Sud, Rivista mensile diretta da Francesco Compagna, Anno III, numero 16, marzo 1956.