Filippo Caria è nato, a Roma, il 21 giugno 1925, da una famiglia di origine calabrese. Abita in un parco con una splendida vista sul golfo di Napoli e la sua casa è una sorta di archivio, biblioteca, emeroteca, museo, il cui pezzo più pregiato –me lo mostra con gli occhi lucidi- è una vecchia bandiera rossa di “Giustizia e Libertà”. Tra le foto dell’album di famiglia, due non appartengono al suo ristretto mondo: sono quella con dedica del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (Nel ricordo di antiche, comuni battaglie giovanili), e quella del senatore Giulio Andreotti. Per lunghi anni Caria ha esercitato la professione forense. Ma la sua passione più grande e più vera è stata la politica, che lo ha arricchito di riconoscimenti ed amarezze, di soddisfazioni e delusioni -tutte sostenute con estrema dignità- e che gli ha dato la possibilità di colloquiare con personalità che hanno scritto la storia del mondo. Di ogni incontro conserva una testimonianza, un ricordo. Uno, molto caro, è un tappetino per preghiera –diventato, poi, copertina di una mensola- dono personale di Arafat. Caria, sin dalla più giovane età, ha avuto responsabilità politiche, come dirigente di partito (prima nel PdA e poi nel PSDI) e come rappresentante del popolo al consiglio comunale di Napoli (1962-1970), al Consiglio Regionale della Campania (1970-1983) ed alla Camera dei Deputati (1983-1992). Oggi, con i suoi ottantasei anni, fieramente portati, Filippo Caria è depositario di testimonianze di una lunga e travagliata storia politica, di cui, sin da giovanissimo, è stato un protagonista di primo piano. Non c’è bisogno di fargli delle domande; affronta la conversazione, come la vita, a passo di carica; è un fiume in piena, che ogni tanto tracima, perdendosi –e subito ritrovandosi- nel gorgo dei ricordi. Alcune volte si tuffa in ragionamenti, che disegnano la loro traiettoria da Adolfo Omodeo a Giuseppe Saragat, da Benedetto Croce a Pasquale Schiano. Altre volte recupera aneddoti, che riportano i sapori ed i colori del tempo passato. E, se è di umore buono, non è raro il caso in cui canticchia anche qualche vecchia filastrocca in dialetto, come quella dedicata, tanti anni fa, a Umberto di Savoia, il re di maggio: “Umbe’ fatte ‘e valigie,/ vattènne addo’ papà,/ papà è vicchiariello/ e sulo nun po’ sta”.
Filippo è figlio di Enrico Caria, magistrato al Tribunale di Napoli e tra i fondatori, prima, di “Italia Libera”[1] e, poi, del Partito d’Azione con quel gruppo, che faceva capo a Pasquale Schiano[2], ad Antonio Armino[3] e ad Adriano Reale[4]. “Quando sono nato io, mio padre lavorava al Ministero di Grazia e Giustizia. Poi, nel 1935, fu trasferito a Salerno e, quindi, a Napoli. Provengo da una famiglia libertaria e antifascista. Indubbiamente sono stato influenzato dalle scelte paterne”. In casa Caria si riunivano, infatti, molti magistrati antifascisti, che “facevano, per la verità, un antifascismo da salotto, ma rappresentavano, per me ed altri giovani, una vera e propria scuola di formazione”[5].
Ma Filippo riceve un’ulteriore spinta alla partecipazione ed all’antifascismo dall’esempio di uno zio, Antonio Pietropaolo[6], fratello di sua madre. “Zio Antonio era un anarchico militante. Si trovava a Milano, quando gli anarchici fecero scoppiare una bomba all’esterno del teatro “Diana”[7], per richiamare l’attenzione sulla ingiusta detenzione di alcuni redattori del quotidiano “Umanità Nova”. Trovandosi vicino al luogo dell’attentato, fu arrestato e, ritenuto colpevole, fu condannato a 19 anni di carcere; ne scontò 12, girando vari penitenziari italiani. Egli si è sempre protestato innocente per quell’accusa ed, in vita, voleva che si rivedesse il processo, protestando per quei 12 anni rubati alla sua libertà. A distanza di molti anni, ho avuto la fortuna di avere tra le mani un libro scritto dal commissario di polizia, che seguì il caso e che riconobbe l’innocenza dello zio”. Successivamente, poi, Pietropaolo con altri esponenti anarchici, socialisti, comunisti e democristiani partecipa all’ultima fase della lotta partigiana al nazifascismo. “Nella mia famiglia, quindi, c’era una predisposizione alla lotta politica, un gene comune per la difesa della libertà. Tra l’altro, mio padre, alla fine della prima guerra mondiale, era stato sindaco socialista di Francavilla Angitola, un piccolo comune del catanzarese”.
E la lotta politica, fatta di azioni concrete, comincia a Napoli, nel 1942, quando Filippo, insieme ad uno sparuto gruppo di giovani universitari –tra cui Corrado Krogg e Lello De Rosa- tutti figli di vecchi socialisti, comincia a compilare ed a distribuire dei volantini, che mettono a nudo le malefatte del regime ed invitano alla ribellione. “In un palazzo di piazza Cavour, poi distrutto dalle bombe, c’era la cartolibreria “Confalonieri”, presso cui acquistammo l’attrezzatura del “Piccolo Tipografo”. Manovrando con sagacia quei piccoli caratteri di gomma, riuscivamo a comporre dei volantini, che distribuivamo durante la notte, quando suonava l’allarme e quando c’erano i bombardamenti. Ad ogni sirena, infatti, i filobus restavano fermi per le strade, con le porte aperte e noi approfittavamo per andare a deporre i nostri scritti sui sedili. Poi, dopo qualche mese, nel marzo del 1943, ci fu una retata di studenti universitari, tra cui anche alcuni del nostro gruppo, come Krogg, che andò a finire a Padula e fu liberato solo alla caduta del fascismo”. E da universitario, nel 1942, Filippo Caria prende parte ai “ludi iuveniles”, con l’intento di affrontare problemi di levatura politica, avere la possibilità di confrontarsi con altri giovani, concorrere, insomma, alla costruzione ed alla partecipazione democratica. Il tema in discussione in quell’anno accademico è “La colonizzazione dell’Africa da parte dei paesi europei, con particolare riferimento all’Italia ed alla Germania”. La vittoria arride, ex aequo, al giovane Caria ed al suo compagno d’università, Tommaso Morlino[8].
Nei giorni in cui si registra la caduta del fascismo, la famiglia Caria è sfollata in Calabria. Quando gli Alleati arrivano nei territori dello stivale, si sono già costituiti i Comitati di Liberazione Nazionale. Quegli stessi CLN, che al nord hanno una funzione, perché ci sono i partiti che hanno combattuto il nazifascismo; al sud, invece, è diverso, il sistema dei partiti è in piena ricostruzione e vive la fase in cui la vecchia classe dirigente prefascista ancora sopravvive, in assenza di giovani energie ancora combattenti o in procinto di giungere nel territorio liberato. E sono, perciò, gli Alleati –talvolta d’intesa con gli aderenti a “Italia Libera”- a decidere la nomina di prefetti e sindaci. È in questi giorni che nasce il Partito d’Azione[9], che ha un seguito notevole in tutta l’Italia meridionale, secondo solo al PCI. Infatti, la DC si forma dopo, su pressione dei parroci e dell’Azione Cattolica, e, per di più, non avendo combattuto –nel sud- la battaglia antifascista; la Democrazia del Lavoro è inesistente, anche se inserita nei CLN con rappresentanti del vecchio prefascismo; i socialisti meridionali accolgono, invece, molti fascisti: “Allora, con la mia famiglia abitavo a Pizzo Calabro e sono testimone di episodi curiosi quanto inquietanti: il passaggio indolore dal fascismo al socialismo. Molti gruppi fascisti, forse i più decisi, si costituirono in sezione socialista, motivando la scelta col ricordo di Mussolini socialista! ”. In fondo, l’Italia del sud non ha vissuto ciò che ha, invece, patito il nord. Il fascismo del sud è stato più tranquillo, più blando; talvolta, si può dire, in alcuni centri quasi non c’è stato e, comunque, mai ha fatto registrare le atrocità avvenute nell’Italia settentrionale. “Per avere un’idea di ciò che è stato il fascismo al sud, ricordo il caso di Vibo Valentia, la greca Hipponion, che aveva all’ingresso della città una statua di Luigi Razza[10], ministro dei Lavori Pubblici fascista, che tantissimi opere aveva realizzato per Vibo. Dopo l’8 settembre, il CLN decretò che la statua di Razza fosse rimossa e depositata presso il cimitero. Ora, con voto unanime del consiglio comunale, la statua è stata riportata là dov’era prima. E a Razza sono intitolati il Palazzo e lo stadio comunale. A Vibo Marina, poi, ci sono due strade parallele: una si chiama “28 ottobre” l’altra “25 aprile”. Ed una strada ed un monumento sono dedicati anche Michele Bianchi[11], uno dei quadrunviri, esponente del sindacalismo fascista calabrese”.
Caria torna a Napoli nel novembre del 1943, per sincerarsi delle condizioni in cui versa l’abitazione familiare –abbandonata a seguito dei bombardamenti-, per capire cosa stesse accadendo all’università, ma, soprattutto, per la necessità di informare Pasquale Schiano sullo stato di salute dell’azionismo calabrese, dove tutto l’antifascismo non comunista ha aderito al PdA. Il viaggio da Vibo Valentia a Napoli è lungo ed avventuroso, dura ben cinque giorni. Sono interrotte, infatti, le strade, sono intransitabili molti ponti. Alla stazione di Lametia Terme ci si arriva solo a bordo di un carro, trainato da buoi, che garantisce il passaggio tra le limacciose acque del fiume Amato. Una volta alla stazione, poi, bisogna aspettare un’intera giornata, per poter salire su un convoglio, che viaggia verso Catanzaro Scalo e, quindi, trasferendosi sul versante ionico, a Metaponto. Dalla cittadina lucana a Potenza serve, poi, un altro giorno di viaggio; ed ancora un giorno si impiega per raggiungere Salerno. Una volta giunti, faticosamente, nella città della “svolta”, sembra essere arrivati in un altro mondo. A Salerno, infatti, c’è animazione, c’è vita e c’è un efficiente servizio di filobus, che, attraverso Vietri sul Mare, raggiunge Napoli.
Nella città partenopea Caria prende, quindi, subito contatti con Schiano ed i suoi collaboratori. Il partito ha tre sedi: Piazza Dante, n.52, dove ci sono i locali della Federazione provinciale e di quella regionale; lo studio di Pasquale Schiano, in via Mezzocannone n.53, nato come “Centro di informazione e di assistenza antifascista” e, poi, trasformato in “Centro Meridionale del PdA”[12] e Piazzetta Matilde Serao, dove ha dimora l’Azione, il quotidiano del partito. Schiano, vera punta avanzata dell’antifascismo meridionale, è un vecchio amico del padre di Filippo; egli accoglie, infatti, il giovane con grande affettuosità e l’indirizza verso la creazione della Federazione giovanile del partito, che ha molti partecipanti, poi, diventati personaggi di primo piano: Ferdinando Facchiano[13], Carlo Fermariello[14] e Pietro Valenza (parlamentari del PCI), i fratelli Dario e Leonida Santamaria[15], Geppino De Marco (consigliere comunale del PCI), Vittorio De Caprariis (confluito nel PRI), Renato Giordano (collaboratore della Comunità Europea a Bruxelles), Franco Picardi (sindaco di Napoli), lo stesso Caria. Il lavoro nel partito è difficile ma ricco di soddisfazioni[16]. Il PdA è l’unica forza non comunista alla quale fanno capo tutti i non comunisti che hanno, però, lottato il fascismo. Il massimo esponente napoletano è Francesco De Martino, però, il peso maggiore del finanziamento è a carico di Schiano. “Allora le spese dei partiti non erano eccessive come succede, invece, oggi. C’erano con noi Angelo Della Morte, Claudio Ferri, Adolfo Omodeo, che, con Adriano Reale e Pasquale Schiano, si preoccupavano del fitto della sede e di qualche altra piccola spesa. Ricordo che il PdA napoletano aveva un solo impiegato, il cavalier Minutillo, un pensionato dello Stato, che si preoccupava di aprire e chiudere la sede ”.
Il calendario segnava la data del 23 gennaio 2008. Era una mattinata insolitamente ventosa per Napoli. Volavano cartoni, residui della tragica crisi dei rifiuti, il mare era molto increspato e le imposte dei balconi della sede dell’Anci, in via Santa Lucia, sbattevano continuamente. All’interno dell’Anci c’era un bel caldo; in un ufficio molto luminoso vi erano dei divani comodi; fu lì che ci sedemmo Franco Picardi[17] ed io in attesa di un immancabile caffè e, poi, del momento in cui avremmo potuto scambiare “quattro chiacchiere”. Franco –odontoiatra in pensione-, che tra qualche mese avrebbe compiuto 80 anni, sembrava quasi che volesse prender tempo: tu conosci il segretario dell’Anci?…hai visto la signora Antonietta fa un buon caffè…dunque, ora io ti racconto la mia storia come se la raccontassi a me stesso. Poi, stretto nel suo completo grigio con gilet in lana, si mise comodo sul divano e si disse pronto a cominciare.
– Come nasce l’esperienza del PdA? – Nasce, innanzitutto, nella mia famiglia, che era antifascista, dove si parlava di democrazia e si ascoltava Radio Londra. A me, poi, piaceva più la politica che la scuola. Ricordo che frequentavo il secondo liceo e non trovavo occasione per correre alla sede dell’Azione, il giornale del partito, dove ero pronto a fare di tutto pur di respirare quell’aria. Ricordo che il direttore, Guido Dorso –che per la mia struttura fisica mingherlina, mi chiamava affettuosamente “suricillo”-, spesso, mi chiedeva di scrivere un pezzo che puntigliosamente mi dettava ed aggiungeva: “Ora, ti insegno come si scrive un articolo”. – Ma il contatto vero e proprio col partito, quando avviene? – Io mi sono trovato a partecipare in questa formazione politica, sin da ragazzino, perché il PdA aveva un fascino particolare, in quanto raccoglieva tantissimi uomini di cultura, di tutte le estrazioni. Napoli, infatti, vantava questo cenacolo, che si era costituito per merito ed intorno a Pasquale Schiano. Egli era un grande organizzatore. – Dove vi riunivate? – Nella sede di Piazza Dante, che, poi, diventò la sede del partito socialista. In quei locali di Piazza Dante ricordo delle presenze significative: Carlo Fermariello, Antonio Armino, Francesco De Martino, Pietro Valenza, Filippo Caria. – Che aria si respirava in città? – Napoli era una città profondamente monarchica. Ricordo che, all’epoca del referendum istituzionale, l’edicolante che stava sotto casa mia, in Piazza Carità, mi chiese come avrei votato. Quando seppe che votavo per la Repubblica, ci rimase male e mi disse, non senza meraviglia: “Ma come? Nuie simmo nate mmane ’o re e voi votate per la Repubblica?”. Insomma, essere repubblicani significava mostrare, innanzitutto, grande coraggio. – Quando, poi, scompare il PdA, tu cosa fai? – Io facevo parte del nucleo “amici di Pasquale Schiano”. Con la fine del PdA, in molti avemmo difficoltà a guardare verso i socialisti di Nenni, perché aleggiava il fantasma del fusionismo. Per cui la scissione di palazzo Barberini ci offerse un’occasione per aprire un dialogo con il PSLI di Saragat. Inizialmente, Schiano rimase in attesa che maturasse una situazione più chiara, anche se già era orientato verso una sponda socialdemocratica. Poi, nel 1957, quando nacque il PSSIIS (Partito Socialista Sezione Italiana dell’Internazionale Socialista), noi amici di Schiano confluimmo in questo partito socialista, che, a seguito del congresso del 1962, fu poi chiamato PSDI. – E tu, poi, hai sempre militato nel PSDI? – Sempre. Non ho mai avuto esitazioni, nemmeno quando Schiano, passato con i socialisti, nel 1960, mi invitò ad entrare in quel partito e mi promise un posto nel direttivo. – Quando, invece, ti candidi per la prima volta col PSDI? – Nel 1964. Fino a quella data avevo contribuito ad alimentare un poco il dibattito culturale all’interno di un partito, che non aveva una grande storia alle spalle. Aveva più una storia di movimenti ed io, giovane medico, insieme a pochi altri miei coetanei andavo in giro a parlare di socialdemocrazia, di marxismo ed altro. Poi, appunto nel 1964, perché avevo due studi odontoiatrici (e un discreto numero di pazienti), uno a Napoli ed uno a Procida, il partito mi chiese di candidarmi sia alla provincia che al comune. – E come andò? – Bene; come prima esperienza andò benissimo. Nel collegio provinciale di Procida riuscii ad avere poco più di mille voti. A Napoli, al comune, risultai tra i primi dei non eletti. Mi ricandidai al comune di Napoli nel 1970 e fui tranquillamente eletto. Nel 1992 il partito mi chiese anche di candidarmi al senato, nel collegio di Nola. Cosa che feci unicamente per disciplina di partito. – Tu sei stato anche sindaco di Napoli… – Prima di essere sindaco, sono stato varie volte assessore. Nelle due giunte DC-PSI-PSU-PRI, presiedute da Gerardo De Michele (novembre 1970-luglio 1973 e luglio-ottobre 1973), ho ricoperto la carica di assessore all’igiene, sanità e veterinaria. Nella giunta DC-PSI-PSU-PRI, presieduta da Bruno Milanesi (agosto 1974-settembre 1975), sono stato assessore ai lavori pubblici ed all’edilizia scolastica. Nelle giunte presiedute da Maurizio Valenzi (dicembre 1976-luglio 1983), infine, ho avuto le deleghe ai lavori pubblici, ai servizi tecnologici, ai rapporti con la Regione, all’urbanistica ed al centro storico. Poi, arrivò la candidatura a sindaco… – Ma come maturò quella candidatura e la successiva elezione? – Dopo Valenzi, che aveva governato per otto anni senza avere una maggioranza in consiglio, bisognava costruire una nuova alleanza. Allora, si fece il mio nome ed io accettai in via transitoria, in attesa di definire nuovi equilibri. Era, infatti, la mia, un’altra giunta di minoranza. Io accettai per, come dire, spirito di servizio; si era, infatti, all’inizio dell’anno e bisognava approvare il bilancio, pena lo scioglimento del consiglio stesso. Allora feci appello a tutte le forze politiche presenti in consiglio comunale, perché consentissero di superare questo scoglio e di trovare, nel contempo, nuove alleanze, per cui pensavo di varare una giunta di solidarietà istituzionale. -Invece, cosa successe? -Mi fu risposto che siccome in primavera ci sarebbero state le elezioni europee non era conveniente fare schieramenti. Però, devo dire che mentre la DC preannunciò che avrebbe votato il bilancio (anche se non entrava in giunta, ci fu, invece, un’esitazione da parte dei compagni del PCI, che chiedevano di sapere quale era lo schieramento politico dal quale sarebbe nato l’esecutivo. Io non ero in grado di dirlo, se prima non andavo in consiglio comunale e verificavo il voto sul bilancio. Allora varai una giunta PSI-PSDI-PRI-PLI, che restò in sella solo novanta giorni (gennaio-aprile 1984). -Perché, cosa successe in consiglio comunale? – In consiglio comunale intervenne l’esponente del MSI e segretario nazionale, Giorgio Almirante, che dichiarò di offrire i voti del proprio partito a favore del bilancio. Per cui, il bilancio fu approvato col voto dei missini ma non con quello dei comunisti. -E tu cosa facesti? -Mi dimisi subito. Sarebbe stato assurdo e disdicevole che, io, storicamente socialista, avessi potuto accettare il voto dei missini. Ci furono, pertanto, trattative immediate; fui più volte invitato a ritirare le dimissioni, ma fui intransigente. E ci fu, quindi, il ritorno della DC alla guida del comune di Napoli, prima con Vincenzo Scotti (aprile-agosto 1984) a capo di una giunta DC-PSI-PSDI-PRI-PLI e, poi, con Mario Forte (agosto-dicembre 1984), capo di un esecutivo DC-PSDI-PRI-PLI. -Ma tu, poi, sei rimasto ancora nei banchi di Palazzo San Giacomo? -Sì, sono rimasto consigliere comunale sino al 1993 ed oltre ai due sindaci democristiani, di cui già ho fatto cenno, sono stato consigliere nel periodo in cui ad amministrare la città di Napoli ci furono i sindaci del PSI Carlo D’Amato, Pietro Lezzi e Nello Polese. |
Agli inizi del 1944, la situazione nella città di Napoli è incandescente. La vecchia capitale del sud è ridotta allo stremo: mancano luce, gas ed acqua, sono interrotti i servizi telegrafici e postali, è inesistente il servizio pubblico. Al calar delle prime tenebre, scatta il coprifuoco[18]. Il 23 marzo, poi, il Vesuvio erutta e crea notevoli danni ai paesi abbarbicati alle sue pendici. Anche gli Americani pagano il loro tributo allo “sterminator Vesevo”: la pista di atterraggio nei pressi di Cercola è inservibile e, con essa, tutti i velivoli fermi al momento dell’eruzione.
Eppure, in questa dura realtà, non possono cessare le riunioni politiche, che mirano alla ricostruzione, a ridare speranza ad un popolo in ginocchio. Per partecipare ad uno dei tanti incontri di organizzazione, Caria, una sera, incappa nelle ronde americane ed è arrestato per aver infranto il divieto imposto dal coprifuoco. È portato in questura e, dopo una notte in guardina, è condannato a tre giorni di carcere o, in alternativa, ad una multa di trecento lire. Ha la possibilità di optare per l’ammenda; rimane, però, la necessità di potersi muovere con facilità nelle strade di Napoli. Così riesce, con l’intervento dei responsabili del PdA, ad ottenere un’autorizzazione a circolare per la città, rilasciatagli da “Allied control commision, Naples city & province”.
I monarchici, intanto, sono disorientati dalla piega che stanno prendendo gli avvenimenti in politica nazionale; i comunisti, gli azionisti ed i socialisti dimostrano, invece, tutta la loro avversione alla costituzione di un governo nazionale con il re e con Badoglio. “Una sera, con Armino, andai a tenere un comizio a San Pietro a Patierno, dove il partito aveva alcune centinaia di iscritti; durante la notte i monarchici avevano bruciato la sezione; al ritorno appresi che avevano bruciato anche la sezione del PCI di via Foria. Il giorno dopo tentarono l’assalto anche alla sede dell’Azione, il nostro giornale, dal cui balcone avremmo dovuto tenere un comizio con l’intenzione di mettere insieme tutte le forze antimonarchiche. Ricordo che i sostenitori del re si arrampicarono al primo piano, appoggiandosi alla saracinesca a maglie larghe di un negozio, che ancora apre le sue vetrine in Piazzetta Serao. Ricordo anche che nel porto c’era il cacciatorpediniere “Rosolino Pilo”, i cui marinai erano tutti appartenenti al partito sardo d’Azione e, quindi, repubblicani. Gli ufficiali, invece, erano monarchici. Quando fummo assaliti, i monarchici pensavano di avere dalla loro i marinai, ma furono delusi. Caso strano, quella sera dell’assalto non c’era un poliziotto manco a pagarlo, mentre nelle sere precedenti la nostra sede era sempre guardata a vista da un drappello”.
È Schiano, secondo la testimonianza di Caria (e diversamente da quanto aveva sempre sostenuto Maurizio Valenzi[19]), a rendersi conto che non basta difendere la sede del quotidiano del PdA, ma bisogna trovare un punto d’incontro con gli altri partiti antifascisti, per la difesa di un luogo che è di tutti. A questo punto, forse, bisogna ricorrere all’estrema difesa delle armi. “Schiano mi chiamò e disse di occuparmi dell’armamento. Mi pregò di andare a Pompei, dove c’era un certo Enrico Granata, uno dei custodi degli scavi, in contatto con i disertori americani, che avevano venduto parecchie armi. Mi affidò un pacchetto di dollari insieme ad una Braun calibro 9, a me, che non avevo fatto nemmeno il militare! Va’, mi disse, prendi le armi e portale alla sede del partito. A bordo di una Lancia, messami a disposizione dal partito, andai a Pompei, dove incontrai Granata. Egli mi consegnò una cassetta piena di bombe a mano, 3 o 4 pistole e 3 o 4 fucili mitragliatori. Ritornato a Napoli, depositai le armi, come precedentemente concordato, nella sede di Piazza Dante ”
Si avvicina, intanto, il tempo del voto referendario. Nella città si costituisce un “comitato di coordinamento repubblicano” composto da Caria per il PdA, il colonnello Eboli per il PRI e Federico Zvab[20] per i socialisti. I comunisti non aderiscono al comitato, perché non si fidano della qualità organizzativa del gruppo. Ma, comunque, i contatti col PCI non sono proprio inesistenti e sono tenuti attraverso Carlo Obici, il responsabile dell’organizzazione militare comunista. “Una sera, Zvab mi chiamò e, mostrandosi preoccupato per come si stavano mettendo le cose, mi disse che le armi che erano presso la nostra sede sembravano ben poche. Aggiunse che, se ce ne fosse stato bisogno, dovevo andare a Port’Alba, dove c’era una salumeria, che nascondeva l’ingresso di una grotta in cui erano state depositate molte armi trovate da Zvab. Tu vai nella salumeria –aggiunse Zvab- e di’ che ti manda Federico;vedi che ti daranno immediatamente le chiavi del deposito ”
C’è timore che i monarchici ed i fascisti facciano scoppiare la miccia per una guerra civile. “Dal punto di vista teorico non sbagliavamo, perché dal 1943 erano trascorsi solo tre anni e la polizia fascista era diventata la polizia di Stato, mentre i carabinieri erano rimasti di orientamento monarchico. Con questo sfondo poteva veramente scoppiare la guerra civile. Non so come sarebbe finita, perché il nord era repubblicano e, poi, gli americani non l’avrebbero consentita!”. Non c’è, comunque, necessità di usare le armi; la Repubblica passa e, addirittura, c’è l’illusione che possa passare a spron battuto. Ma il ritorno alla realtà è, invece, molto amaro. “A fine maggio ci fu un gran corteo, da Piazza Dante a Piazza Plebiscito, con bandiere rosse ed un numero enorme di partecipanti, che ci diede l’illusione che avrebbe trionfato il voto a favore della Repubblica. Sbagliammo, perché l’80% dei napoletani votò a favore della Monarchia. Quello stesso 80% che procurò problemi alla città, l’11 giugno, con l’assalto alla Federazione del PCI[21], che provocò la reazione in seguito alla quale sul terreno restarono 12 morti. I monarchici ancora oggi ricordano i 12 “eroi” di via Medina”.
La reazione monarchica e fascista alla proclamazione della Repubblica -ed il conseguente assalto alla Federazione comunista- desta preoccupazione nelle altre forze politiche napoletane. C’è timore che il gesto possa generalizzarsi e che si possa ricadere nel pericolo dello scontro armato. Per di più si teme che la composizione delle forze di polizia, quasi tutte di simpatia monarchica (a differenza del nord, in cui prevalgono gli ex partigiani), possa aggravare la situazione. Ed, allora, una riunione del comitato di coordinamento repubblicano (Zvab, Eboli, Caria), insieme ad altri giovani azionisti, decide di chiedere al Ministro dell’Interno che si effettui uno scambio tra le squadre di polizia del nord con quelle del sud. La richiesta è fatta telefonicamente dal segretario del partito socialista, Lelio Porzio[22], al Ministro Giuseppe Romita, che, nel giro di due giorni, accogliendo l’istanza del coordinamento, invia nuovi reparti di polizia a Napoli.
Scemata la tensione e fugato il pericolo di uno scontro imminente, resta il problema di quelle armi e munizioni comprate a Pompei e depositate nella sede di Piazza Dante. “Chiesi lumi a Schiano e lui mi disse di sbrigarmela da solo. Allora chiamai Mario Vallesi, l’usciere della Federazione -un bersagliere rimpatriato da poco dalla Libia, dove si era fatto due anni di guerra- e gli chiesi aiuto. In men che non si dica, io e Mario caricammo le armi su una macchina e ci dirigemmo alla rotonda Diaz; poi, con l’aiuto di un pescatore, nostro compagno, affittammo una barca e, lontano dalla riva, buttammo nei fondali il pericoloso carico ”. Fatte scomparire le armi, non scompare, però, il timore che l’Italia possa precipitare in una guerra civile. Ci sono da fronteggiare, infatti, le forze eversive radicate nel paese insieme all’incognita del ritorno in patria –dalla Germania, dall’Africa, dall’Inghilterra- delle decine di migliaia di prigionieri e dei reduci dai fronti europei. In quel tempo, Pasquale Schiano, sottosegretario di stato con delega alla Marina Mercantile, è molto preoccupato per i possibili orientamenti politici eversivi, che avrebbero potuto avere i predetti prigionieri e reduci. Convoca, allora, a Roma il giovane Caria e gli chiede la disponibilità ad imbarcarsi sulle navi italiane col compito di informarsi, capire, indagare sui reali sentimenti di quanti tornano, dopo anni di stenti e di guerra, in Italia. Insomma, una vera e propria operazione da servizi segreti. Caria accetta e, dopo un rapido indottrinamento, è imbarcato sulla nave “Duca degli Abruzzi”, facente parte a pieno titolo dell’equipaggio, con la mansione di maestro di casa (a testimoniarlo è la tessera n.96785, dell’ 1 luglio 1946, a firma del capitano Giovanni Cantù). “Andammo a Porto Said, imbarcammo le truppe dei nostri connazionali e li portammo in Italia. Qui giunti, riferii che non c’erano sentimenti eversivi, né fra coloro che tornavano dai campi di concentramento né tra gli stessi marinai ”.
Con la scissione del 1946 è decretata la fine del PdA, formazione che ha il suo amalgama nel credo antifascista ma non in un uguale credo ideologico. Ci sono, infatti, le anime liberaldemocratiche e quelle socialiste, che, insieme, avevano potuto garantire la lotta al fascismo ma non l’unità di un partito. “Quando si sciolse il PdA, io ero segretario della federazione giovanile. Ricordo che facemmo un’assemblea per decidere del nostro futuro: adesione al partito socialista o ad altri partiti? Intanto, sulla scena nazionale, con la scissione di Palazzo Barberini, era nato il partito socialdemocratico. Era nella logica delle cose che un folto gruppo del PdA iniziasse un colloquio con il partito di Saragat, visto che i socialisti di Nenni erano legati al PCI dal patto di unità d’azione. Ricordo ancora le sezioni unite del PCI e del PSI ed i loro comitati di coordinamento, in attesa di una problematica fusione, che mai ci fu. Votammo, quindi, per fare la nostra scelta:De Martino era per la scelta socialista; Schiano, col gruppo di noi giovani, era contrario. Vincemmo noi giovani con Schiano, che eravamo contrari alla confluenza nei socialisti e, perciò, all’accettazione del Fronte Popolare. Pochissimi furono gli azionisti napoletani, che seguirono, invece, le scelte operate da Ugo La Malfa e Ferruccio Parri. Il voto assembleare fu caratterizzato da un insolito episodio; a tutte le nostre discussioni aveva assistito un signore, che non aveva preso mai la parola e, all’atto della votazione, si tenne in disparte. Lo sollecitai ad assumere una posizione e lui mi svelò di essere della squadra politica della questura e che il suo unico dovere era quello di stilare un verbale da consegnare, alla fine dei nostri lavori, al questore. Singolare, in questi avvenimenti, appare la figura di Saragat “lo scissionista”. Ma se c’era un unionista, uno che credeva nella funzione autonoma del socialismo, quello era, forse, più Saragat che Nenni. Egli, infatti, mirava alla costruzione di un unico grande partito socialdemocratico e la rincorsa a questo suo obiettivo spiega anche la freddezza con la quale egli guardava alle altre forze politiche, notevolissime, che consideravano il PSDI come l’unico partito socialista, che agiva nella democrazia e nella libertà. Dopo la scomparsa del PdA, infatti, ci sono stati, in vari momenti, consistenti forze, che, senza successo, hanno tentato di unirsi a noi”. C’è, infatti, il gruppo della sinistra liberale di Giampiero Orsello[23], che, entrato nel PSDI, trova una buona intesa con Saragat e percorre un buon cammino politico ed istituzionale. Ci sono anche, da sinistra, le interessanti adesioni di Aldo Cucchi[24] e Valdo Magnani[25], che, ad onta di quanto sostenuto da Togliatti[26], si trascinano molti militanti di base, che se avessero avuta riservata un’attenzione diversa, avrebbero potuto garantire un consistente patrimonio di voti all’area socialdemocratica. C’è Giuliano Vassalli, che era stato uno dei primi segretari e che era andato via, forse, per contrasti con Saragat. E non si può dimenticare, infine, il movimento di Reale, Averardi e Tomaso Smith (direttore de Il Paese), che facevano capo alla rivista Corrispondenza Socialista[27]. Il solo Averardi resta nel partito; Reale vivacchia, gli altri se ne vanno. “Reale era stato uno dei massimi esponenti del PCI, amico ed uomo di fiducia di Togliatti, che gli aveva affidato l’importantissimo compito di gestire il patrimonio e le finanze del partito. Nominato ambasciatore a Varsavia, Reale inventò per il PCI una società di import-export[28], che monopolizzò il commercio con l’estero e fruttò notevoli finanziamenti al partito. Devo dire che quando Reale aderì al PSDI, si meravigliò molto di come il partito di Saragat avesse potuto sopravvivere senza uno straccio di finanziamento. Allora, si offerse di mettere in moto lo stesso meccanismo che aveva azionato a favore del PCI[29]. Ma Saragat reagì male e disse che non bisognava mai confondere la politica con gli affari; lui faceva politica e gli affari non rientravano nel suo modo di vivere ”.
In un pomeriggio di fine gennaio, il primo dei cosiddetti “giorni della merla”; per tradizione, il tempo dovrebbe esser freddo, e, invece, è quasi primavera. Ho appuntamento con l’avvocato Mario Del Vecchio[30]. Egli è un altro giovane ottantenne, nativo di Benevento, che è stato segretario regionale della federazione giovanile del PRI, Presidente del Consiglio Regionale della Campania, vice presidente della Giunta Regionale ed assessore, dello stesso ente, con varie deleghe. Prima di calarci nella discussione, che ci riporterà nelle vicende e fra gli uomini dell’immediato dopoguerra napoletano, Del Vecchio ricorda due uomini illustri della mia terra: Francesco De Martino e Gaetano Arfé. Si sofferma, in particolare, su Arfé e recupera il ricordo di una bella serata passata a tavola, insieme anche a Paolo Ungari. E, poi, quasi a stuzzicare il cane che dorme, mi dice: “Ma come? Somma Vesuviana, città di tradizione socialista, che cancella la piazza intitolata al socialista più famoso, De Martino, per intitolarla a Vittorio Emanuele III”? E che dico? Parlo dell’ignoranza e dell’arroganza di un’amministrazione comunale di centrodestra? Scelgo di restare in silenzio.
-Allora, avvocato, qual è il suo personale ricordo del PdA? – Sono venuto a contatto col PdA attraverso gli articoli di Dorso e la lettura de l’Azione. -Sempre a Benevento? -Sì, io ero a Benevento. Sono venuto a Napoli in varie occasioni. Una, particolare: quando ci fu il corteo per il referendum del 1946. Venni insieme agli altri della federazione giovanile repubblicana. Ricordo che alla testa del corteo c’erano i giovani azionisti Francesco Compagna, Michele Cifarelli, Guido Macera, insieme a De Martino. Subito dopo, poi, ricordo che tornammo di corsa a Benevento, dove si doveva tenere un comizio di chiusura. Ma, a Piazza Roma, l’oratore non giunse mai, perché lo scoppio di una gomma ne aveva fermato l’auto a Montesarchio. -E dopo il voto, come andò? -Ricordo che, davanti alla Prefettura di Benevento, mi venne incontro Raffaele Tibaldi, un vecchio bissolatiano, deputato al Parlamento prefascista, e mi disse: “Ce l’abbiamo fatta!”. E ricordo che all’indomani della proclamazione dei risultati del referendum, anche a Benevento ci fu una manifestazione pubblica, a cui prese parte anche il vecchio deputato democristiano Bosco Lucarelli. In quell’occasione si presentò Raffaele De Caro, di vocazione monarchica, che salì sul palco della festa repubblicana e disse: ”Sulla spalletta del Tevere un repubblicano ha scritto “monarchici: la Repubblica è di tutti, qua la mano!” Era l’omaggio di un antico liberale e monarchico alla nascita della Repubblica . -Chi erano gli azionisti “in vista” di Benevento? – Ferdinando Facchiano, insieme ai fratelli Newton e Togo Bozzi, uno medico e l’altro avvocato; il primo fu consigliere comunale, sempre su posizioni di sinistra, tanto che confluì nel PCI. Il secondo, invece, fu nel CLN, dove sedette, come rappresentante della DL. – Altri contatti con Napoli? -Sì; il primo contatto fu con Schiano, al suo studio in via Mezzocannone, una volta che andai a prendere i materiali di propaganda a favore della Repubblica. E fu in quell’occasione che conobbi Filippo Caria e Franco Picardi. -Altri rapporti? -Con Schiano ho avuto sempre un ottimo rapporto, anche in seguito, quando mi sono interessato di politica dei trasporti. Ritornando, invece, indietro nel tempo, i rapporti col PdA napoletano erano quotidiani, perché venni ad abitare in città, in Piazza Dante n.84, proprio di fronte alla sede della federazione azionista, tra Palazzo Bagnara e la chiesa di San Domenico Soriano. -Frequentava quella sede? -Sì, anche quando divenne la sede dei socialisti. In quei locali, infatti, ci riunivamo per discussioni, riflessioni ed anche per celebrare le ricorrenze del 25 aprile o del 1° maggio. Una presenza fissa in quella sede era quella di Caria. Ricordo che con Filippo, allora, c’era anche un giovane repubblicano,Domenico Ruggiero, che ebbe una storia travagliata nel PRI, perché era un pacciardiano. |
A Napoli, dal 1947 in poi, Filippo Caria sceglie di stare dalla parte socialdemocratica. Ed in quel partito è eletto, nel 1962, consigliere comunale, carica che occupa per i successivi dieci anni. Sono anni di grande sacrifici e difficoltà; a Napoli i socialdemocratici sono in minoranza assoluta e non hanno nemmeno un rappresentante in consiglio comunale. E quando, in una grande città, non si hanno esponenti negli enti locali, fare politica diventa impresa improba. “Prima del 1962 non ho avuto esperienze amministrative. Nel 1947, infatti, dopo la scissione di palazzo Barberini, con noi passò una parte dei socialisti ed alla prima elezione risultò eletto Leopoldo Ranucci[31]. Alle elezioni del 1960 non avemmo consiglieri. Nel 1962, poi, ci fu l’elezione di due consiglieri: Bruno Romano ed io ”.
L’elezione di Bruno Romano nasconde un curioso retroscena. Il 1962 è l’epoca in cui già si registra lo sfaldamento del partito monarchico di Achille Lauro[32]: sette consiglieri comunali[33] si sono dichiarati indipendenti e sono passati con la Democrazia Cristiana[34]. Precedentemente, il medico Bruno Romano[35] –già proveniente dal partito dell’Uomo Qualunque, deputato monarchico e consigliere comunale a Napoli, legatissimo a Lauro, che gli ha garantito l’elezione lasciando il suo seggio di Napoli ed optando per Roma- quando fiuta che il regime laurino si sta dissolvendo, si rivolge a Saragat, per avere asilo nel PSDI. “Saragat mi convocò a Roma –io ero segretario della federazione- e mi comunicò che aveva aderito al PSDI l’onorevole Bruno Romano. Io eccepisco che abbiamo storie diverse, in quanto lui proviene dai monarchici ed è un ex seguace di Giannini; e, soprattutto a Napoli, tutti i giovani sono di matrice azionista. Non ci sono ragioni che tengano, Saragat è irremovibile. Anzi, il leader socialdemocratico, in modo perentorio, aggiunge che Romano è stato accettato e mi assegna il compito di candidarlo alle prossime elezioni e cercare di farlo eleggere al posto del nostro Vincenzo Russo[36], deputato per il quale dichiara di non avere molte simpatie. Non serve nemmeno comunicare che intendo candidarmi io, in quanto segretario della federazione. Niente da fare. Saragat è fermo; anzi, aggiunge che, seduta stante, scioglie la federazione di Napoli, mi nomina commissario col compito di non candidarmi e di fare eleggere Bruno Romano ”. L’ex monarchico Bruno Romano si è candidato per il PSDI anche alle elezioni amministrative del 1962[37], dove ha chiesto, addirittura, di occupare il posto di capolista. Non la spunta: la lista è presentata in ordine alfabetico e, tra i candidati, c’è anche Caria. “Sono le prime battaglie del partito, che non ha mai avuto un consigliere comunale. Io faccio un accordo elettorale con un’associazione di alimentaristi, che mi fornisce alcuni nomi, tra cui c’è anche un certo Abate, che va ad occupare il posto di capolista. Allo spoglio, spettano due consiglieri al PSDI: Romano ed Abate[38]. Quale delusione per tutti i nostri iscritti, specie i più giovani, che avevano puntato su di me, il segretario della federazione e si ritrovano eletto un ex monarchico ed un anonimo rappresentante degli alimentaristi!”. Come fare? Abate, uomo senza scrupoli, si mette subito in vendita. Il suo innato trasformismo lo porta, ben prima dell’insediamento, a passare dalla parte del MSI; a distanza di qualche giorno, poi, il comandante Lauro riesce –si dice- per la cifra di due milioni ad accaparrarsi il voto del transfuga socialdemocratico. Ma temendo qualche altra subdola operazione trasformistica, Lauro fa letteralmente sequestrare Abate e lo trattiene su una nave, da dove scende solo per partecipare al primo consiglio comunale. “Io, intanto, avevo chiesto aiuto a Ferdinando Facchiano, che era molto bravo in materia. Nando mi disse che ricorrendo all’ipotesi di “lite pendente” poteva esserci qualche speranza. Ed Abate aveva cambiali scadute, non aveva pagato alcune tasse comunali, insomma, un macello! Così, preparammo un ricorso per l’ ineleggibilità di Abate e con l’accordo trovato con i socialisti, i comunisti di Fermariello ed i democristiani di Bruno Milanesi[39] andai a fare, per la prima volta, il consigliere comunale”.
Certo, di Achille Lauro si sono dette e scritte tante cose, anche di una sua richiesta di iscrizione al PCI e, poi, alla DC[40] e al PSDI. Sul versante comunista Maurizio Valenzi era stato lapidario nel liquidare l’avvenimento[41]. La testimonianza di Caria –che esclude la volontà del “comandante” di guardare alla DC- è più dettagliata: “un giorno mi chiamò Giovanni Gatti[42], di cui ero molto amico, e mi disse che il comandante mi voleva parlare; mi aspettava nella sua villa di via Crispi. Lauro fu molto affettuoso e, parlando sempre in dialetto napoletano, cominciò a dire che aveva riflettuto molto sull’attuale stato del partito monarchico ed aveva capito che era una formazione arrivata al capolinea. Lui, però, voleva continuare a fare il sindaco –“Caria, fare il sindaco di Napoli è la cosa più bella del mondo, perciò, quando passo sotto Palazzo San Giacomo ‘o core se fa piccirillo piccirillo. Io sono un uomo internazionale e vi garantisco che, se andate a New York e dite che siete il Ministro dei Beni Culturali nessuno se ne frega, perché non vi conoscono; se, invece, andate da sindaco di Napoli, si aprono tutte le porte, perché vi conoscono tutti” – e, per questo, chiedeva di passare con i socialdemocratici. Continuando nel suo ragionamento, mi garantì che a Napoli avremmo fatto una bella lista –civica o col simbolo della socialdemocrazia, non era un problema- che avrebbe preso non meno di venti consiglieri. Quindi, aggiunse, che nell’Italia meridionale il nostro partito si sarebbe arricchito di non meno di quindici deputati, che il “Roma” sarebbe diventato il nostro giornale, di cui avremmo dovuto concordare solo il direttore. Anzi, disse che aveva già pensato al nome di Italo De Feo[43], perché era amico di Saragat, perché era un ex comunista che avendo conosciuto i comunisti non voleva più averci a che fare, perché era un amico suo. Prima di salutarmi e di regalarmi una lattina d’olio, mi ricordò, però, che se volevamo prendere i voti lo dovevamo assolutamente candidare ”[44]. Caria, investito della richiesta di Lauro, non può esimersi dal riferirla ai massimi responsabili del suo partito. Si reca, perciò, a Roma, nel palazzo di quattro piani che ospita il partito e comincia a parlare della richiesta di Lauro ai vari responsabili. Al primo piano, il suo primo interlocutore, nell’ufficio per gli enti locali, c’è Matteo Matteotti[45], che risponde: “Incredibile. Sarebbe un’operazione molto interessante ma anche spregiudicata. Non me la sento di esprimere un’opinione. Vedi cosa ne pensa Saragat”. Salendo, al secondo piano, c’è l’ufficio del vicesegretario del partito, Mario Tanassi[46], che, con qualche dubbio, anch’egli rimanda ogni decisione a Saragat: “E’ un’operazione spregiudicata, che si potrebbe pure fare se fossimo un partito diverso; ma siamo troppo ideologizzati. Comunque, parlane con Saragat”. Al terzo piano c’è Luigi Prete[47], che non ha dubbi: “Ma questi ex monarchici! Chi ce lo fa fare”. Infine, al quarto piano, Giuseppe Saragat, che precedentemente aveva ammesso Bruno Romano, chiude la porta ad ogni dubbio: “Ma non se parla proprio; Lauro è la peggiore espressione della classe borghese e conservatrice. È stato membro della camera delle corporazioni, è stato nella consulta fascista, è stato confinato a Padula con gli americani. Non se ne parla proprio”.
Mi arrampico fin sulle alture del Sannio, a Beltiglio di Ceppaloni, attraversando boschi di pini e querce, per incontrare Ferdinando Facchiano[48]. L’ottantaquattrenne ex ministro lavora e dimora a Roma, dove esercita la professione di avvocato, ma, ad ogni fine settimana, ritorna nell’avito centro sannita, dove riceve ancora un’infinità di persone. La sua casa -con le scalinate di piperno, l’ampio giardino interno, il cane che ci segue scodinzolante- è un continuo di stanze zeppe di libri, fascicoli, giornali ed antichi cimeli. Alle pareti ci sono ancora alcune fotografie, che ritraggono Facchiano con il Presidente Francesco Cossiga, con Giulio Andreotti, con Giuliano Amato, con Gianni De Michelis, con il Papa Giovanni Paolo II. In un angolo, poi, ben riposta, ma non tanto da non essere ben visibile, la bandiera rossa con la scritta centrale “Partito Socialista Democratico Italiano”. “E’ la bandiera che era in sezione; l’ho io, da quando la sezione è stata chiusa .” Ci sediamo uno di fronte all’altro; poi, subito l’avvocato Facchiano inanella ricordi, considerazioni, delusioni e speranze.
· Io sono nato proprio qua, in questa casa molto grande, ben trentacinque stanze, dove viveva il mio nonno materno. Sono rimasto molto legato a questa casa, anche se è oramai spopolata. Mio padre era un famoso avvocato, fortemente antifascista. · Da quanto lei è in politica? · Dal 19 marzo 1943. Ero in prima liceale; il giorno di san Giuseppe, allora, si faceva festa a scuola. Così andai a Napoli, da un mio zio, Valerio Catalano, marito di una sorella di mia madre, che era un esponente del PdA. Io, allora, ero avanguardista e mi sentivo, nella mia grande ignoranza storica e politica, molto legato al fascismo. Tanto da sentirmi quasi in contrapposizione con mio padre ed il suo convinto antifascismo. In verità, già cedevo ad una crisi interiore, perché vedevo che la guerra andava male per l’Italia ed a scuola, un mio bravissimo e compianto docente di filosofia, il professore Orlando, aveva cominciato a parlare di un “certo” Benedetto Croce. · E cosa succede quel 19 marzo? · Che io accompagno mio zio ad una riunione in via Mezzocannone n.53, allo studio di Pasquale Schiano, dove c’erano anche Gennaro Fermariello ed Eugenio Reale. Ovviamente, io non presi parte alla riunione. Aspettavo mio zio, che, prima di andare via, mi presentò a Schiano. Il grande antifascista si interessò a me con molta attenzione, mi invitò a parlare della mia crisi, mi dette in lettura alcuni opuscoli di “Giustizia e Libertà”. Dopo un po’ di tempo ed altri incontri presi, quindi, la tessere del PdA. Sempre nello studio di Schiano, nel 1944, conobbi Giovanni Leone e Francesco De Martino. Erano in attesa del fratello di Pasquale, che commerciava legnami con la Puglia, per avere un passaggio in macchina all’Università di Bari. · Intanto lei era sempre a Ceppaloni? · Sì, ero studente. Ed a Ceppaloni ho vissuto le date storiche del 25 luglio ed 8 settembre 1943. Ed ancora a Ceppaloni, comune monarchico prima e democristiano poi, ho vissuto le fasi del referendum istituzionale, passando –solo perché ero a favore della Repubblica- per un sovversivo. Infatti, qui a Ceppaloni, recuperare un centinaio di voti per la Repubblica fu impresa ardua. Lo stesso mio nonno materno era un fedele monarchico. · Ma aveva organizzato anche altre attività politiche? · Sì, avevo costituito la sezione del PdA a Ceppaloni ed a Benevento. · Quando, invece, lei comincia a frequentare Napoli in modo più sistematico? · A fine 1945, quando mi iscrissi alla facoltà di giurisprudenza alla Federico II. Ed a Napoli ho conosciuto Filippo Caria, che, ricordo, poi, nei giorni della lotta con i monarchici, posizionato dietro una mitragliatrice, pronto a fare fuoco. · Ha collaborato subito con Caria? · Sì. Insieme facemmo un’operazione molto importante. Con un regolare congresso, infatti, riuscimmo a trasferire la federazione giovanile del PdA da Roma a Napoli. Caria assunse la carica di segretario nazionale, io quella di segretario nazionale organizzativo. Quegli anni, ricchi di passione e tensione, furono i veri anni del rinascimento napoletano. Altro che quelli in cui c’è stato Bassolino! · Ha conosciuto anche Croce? · Sì. Sempre grazie a mio zio Valerio Catalano. Ricordo, infatti, che il filosofo era solito frequentare le librerie di Cambi e di Fausto Fiorentino in Calata Trinità Maggiore. E proprio in una delle sue visite agli scaffali di Fiorentino ebbi modo di stringergli la mano. · Torniamo alla militanza politica. Come avviene il passaggio dal PdA al partito di Saragat? · Quando ci fu lo scioglimento (a marzo 1947) del PdA, con l’assemblea nazionale al teatro “Valle” di Roma, c’era già stata (a gennaio 1947) la scissione di palazzo Barberini. Molti di noi giovani avevano seguito attentamente la vicenda della scissione, in più, poi, si confrontavano con Tristano Codignola, che spesso veniva a Napoli. Subito dopo le conclusioni del “Valle”, quindi, noi campani ci riunimmo nell’ex Hotel Oriente (oggi, Hotel delle Nazioni), in via Poli, per discutere delle nostre scelte. Molti giovani, tra cui Caria ed io, dopo un intenso dibattito, sostenemmo la necessità di mantenere la nostra autonomia e non imboccare subito altre strade. · Come andò a finire? · Che noi restammo autonomi e ci chiamammo “Giustizia e Libertà”, il cui esponente di spicco fu Aldo Garosci. Quindi, confluimmo nell’USI di Ignazio Silone. Poi, nel 1948, dopo le elezioni, Romita esce dal vecchio PSIUP e, a Firenze, costituisce il PSU, partito nel quale confluì anche l’USI. Infine, ci fu il passaggio nel PSDI. · Da allora lei è stato sempre nel partito socialdemocratico? · Sì. Sono stato nella Direzione Nazionale, ho retto vari Dipartimenti, sono stato segretario nazionale organizzativo, vicesegretario (con Nicolazzi e con Cariglia) e ministro per quasi cinque anni consecutivi. Da ultimo, unico responsabile del partito, dopo le note vicende di inizio anni novanta. Sono rimasto socialdemocratico. Ho sperato in Giuliano Amato e Massimo D’Alema, che sembravano ripetere le parole di Saragat. Poi, dopo il congresso dei DS di Rimini, mi sono tirato definitivamente fuori, perché le strade indicate non erano quelle della mia storia e della mia tradizione politica. Alle ultime elezioni, con quella legge elettorale, non sono andato nemmeno a votare. · Se ho capito bene, lei non condivide l’esperienza del Partito Democratico? · Questa è l’esperienza peggiore mai fatta in politica. Il PD è l’ultimo tentativo di due oligarchie, che hanno come unico progetto il potere per il potere. · E perché, invece, nell’immaginario collettivo, pende sempre un giudizio abbastanza negativo sui socialdemocratici? · Indubbiamente noi abbiamo fatto molti errori; la stessa dirigenza politica del partito, spesso, non è stata all’altezza. Il giudizio negativo discende dalla pratica col potere e con “l’obbligo” di aver dovuto partecipare ai governi, schiacciati tra i due blocchi. In ogni caso, ma questo non è assolutamente una giustificazione, la pratica del sovvenzionamento ai partiti era presente in ogni formazione politica. Solo che l’aspetto deteriore e paradossale di quella stessa pratica si riversa negativamente solo sull’anello più debole –perché più piccolo- della catena, che erano i socialdemocratici. Chi ha letto –come io ho letto- gli atti della condanna di Tanassi, sa, perfettamente, che Mario è una vittima, perché, al di là di qualche piccolo episodio di corruzione (esecrabile) di qualcuno della sua segreteria, non c’è alcuna prova contro di lui. Siccome Moro, in difesa del ministro Gui, che aveva firmato il contratto con la Looched, dichiarò in Parlamento che la DC non si poteva condannare, allora, le uniche colpe ricaddero sui più deboli. Nella storia c’è bisogno di capri espiatori. · Non così, mi pare, si è trattato per Nicolazzi? · Nicolazzi sa perché è stato condannato? Perché ha utilizzato l’aereo di un’impresa, che lavorava per il suo ministero. · Una sua considerazione finale sulla politica dei nostri giorni. · La politica, senza etica, non è politica. È inutile cambiare i termini. Se prima c’era la tangente oggi c’è la consulenza. Se non c’è un rivolgimento morale, non c’è alcuna possibilità che la politica torni a primeggiare. |
Dal 1963 al 1970, quasi ininterrottamente, Caria ricopre la carica di assessore al Comune di Napoli. La sua prima esperienza nell’esecutivo risale alle giunte presiedute dal sindaco democristiano Clemente Ferdinando di San Luca e, poi, a quelle del sindaco, sempre democristiano, Giovanni Principe. Sono gli anni del primo centrosinistra[49], che, politicamente, inaugurano la stagione delle grandi speranze e delle grandi prospettive. Però, la classe politica napoletana, che gestisce la nascita del centrosinistra è, per la maggior parte, la stessa che si è aggregata attorno a Lauro. “Erano di una modestia estrema! Clemente di San Luca non fu solo il primo sindaco del centrosinistra; egli avviò una vera svolta, pretendendo che la sua squadra fosse quanto di meglio potessero esprimere i partiti”.
C’è, perciò, grande entusiasmo, da parte del segretario della federazione provinciale socialdemocratica, nel ricoprire il ruolo di assessore, anche perché il delegato del sindaco di una grande città ha come interlocutori i maggiori responsabili della vita e delle scelte della metropoli. Nel 1970, poi, Caria si candida alla Regione; è eletto ed è nominato assessore al personale ed al patrimonio; “fui praticamente io ad avere le chiavi per andare ad aprire Palazzo S. Lucia, sede della Regione, che avevo preso in consegna dalle Ferrovie dello Stato ”. L’ente regione è al suo battesimo, il personale non ha esperienza diretta, proviene da uffici comunali, provinciali e da strutture similari, si avvale dell’istituto del comando ed ha una gratificazione in bustapaga. “La mancanza di personale qualificato è stato il grande limite delle Regioni nei loro primi anni. Nessuno, consigliere o assessore, poteva chiamare dipendenti ritenuti meritevoli; volenti o nolenti bisognava avere il consenso dei partiti. Fu la stagione del clientelismo. Per cui fu macchinoso ogni tentativo di avvio di lavoro; quasi nessuno sapeva cosa fare e da dove cominciare. Così capitò che un ferroviere fosse destinato ad occuparsi di demanio, mentre un veterinario andò a coordinare l’avvocatura. Un vero strazio. Tanto che Nicola Mancino -tra i migliori presidenti della Regione Campania ma con un personale non sempre all’altezza- era costretto a scriversi, di suo pugno, le delibere. E faceva sempre notte!”.
Arrivano, però, tempi sicuramente peggiori. Agli inizi degli anni ottanta il terrorismo imperversa dappertutto. La Regione Campania, in particolare, è colpita mortalmente in alcuni suoi esponenti di rilievo. Il 19 maggio del 1980, infatti, in piena campagna elettorale per il rinnovo del consiglio regionale e del consiglio comunale di Napoli, in una delle strade centrali della città partenopea, cade sotto i colpi di un commando l’assessore regionale al Bilancio, il democristiano Pino Amato[50],”Era ritenuto un uomo aperto, uno dei democristiani più moderni e disponibili al dialogo della DC campana. Appartenente alla corrente degli amici di Andreotti, era intimo del ministro Scotti e negli ultimi tempi era diventato l’uomo più rappresentativo della corrente andreottiana in Campania, insieme all’onorevole Cirino Pomicino. In questa campagna elettorale Pino Amato veniva presentato come un’alternativa ai dorotei imperanti a Napoli, l’uomo che poteva lavorare ad una svolta nel modo di gestire l’ente regionale della Campania[51]”. Il 27 aprile, poi, del 1981, a Torre del Greco è sequestrato l’assessore regionale all’urbanistica e presidente del comitato per la ricostruzione, il democristiano Ciro Cirillo. La striscia di sangue continua, quindi, nel 1982, con l’uccisione dell’assessore regionale al Lavoro, il democristiano Raffaele Delcogliano[52], “Con l’attentato a Delcogliano le BR, dunque, proseguono la campagna napoletana, riprovano, cioè, a sfondare la barriera del sud, attaccando nella città e nella regione più martoriata del sud…Il disegno dei terroristi appare tragicamente evidente: acuire e tentare di far esplodere le contraddizioni di Napoli e della Campania ancora lacerata dal dopoterremoto…Hanno scelto Napoli per meglio lavorare sul sociale e perché qui è il ventre molle del Paese”[53]. Infine, sempre nello stesso anno, cade vittima del terrorismo anche il capo della Squadra Mobile napoletana, Antonio Ammaturo[54]. “Le B.R. sferrarono un vero attacco alla Regione Campania. L’assassinio di Pino Amato fu veramente efferato, perché portato a segno, tra l’altro, nel cuore di Napoli, nelle vicinanze di Piazza dei Martiri. Proprio come a volere sfidare le istituzioni. Quando rapirono Cirillo fui subito avvertito; con la macchina di servizio corsi a Torre del Greco. In mattinata avevo preso appuntamento per il giorno dopo, con Cirillo, per discutere di alcune questioni della penisola sorrentina, che interessavano i nostri assessorati. Sotto casa di Cirillo c’era ancora l’auto con le portiere spalancate ed i corpi senza vita di Mario Canciello e di Luigi Carbone. Seguirono, poi, gli omicidi del vicequestore Ammaturo e dell’assessore Delcogliano. Precedentemente c’era stato l’assassinio del professore Alfredo Paolella[55]. Era chiaro che ci trovavamo di fronte ad un vero assalto alla classe dirigente, finalizzato a metter in crisi le istituzioni in un sistema democratico. Gli episodi ci fecero molta impressione; noi eravamo dodici in giunta e vederne colpiti tre non era rassicurante per nessuno. Avemmo tutti la netta sensazione che ciascuno di noi potesse finire sotto i colpi del terrorismo, perché essi sparavano nel mucchio, non miravano all’uomo ma al rappresentante delle istituzioni ed all’esponente della classe politica. Pensare alle macchine blindate? E che ne facevamo? dovevamo pur scendere dalle macchine! ”.
E del 1980 è anche la tragica notte del 23 novembre, quando la terra trema per più di un minuto e mezzo e semina morte e distruzione[56]. Molti paesi dell’Irpinia sono rasi al suolo, interi nuclei familiari scompaiono sotto le macerie. A lungo si scava tra i palazzi venuti giù come fuscelli e le case sventrate; molti corpi di uomini e di animali sono introvabili. “Quella domenica tornavo da una riunione di partito, tenutasi a Benevento, alla quale aveva preso parte anche l’allora segretario nazionale, Antonio Cariglia. Ero rientrato a casa insieme a Cariglia, che aveva lasciato la sua auto nel mio garage. Per via telefonica mi danno la notizia, che c’era stato il sisma; ma non sembrava che fosse stato così tremendo come, poi, si rivelò. Anch’io faccio alcune telefonate di verifica, mi tranquillizzo e vado a letto. Il lunedì mattina, sul presto, mi cercò Emilio De Feo, il Presidente della giunta regionale, che mi aggiornò sulla gravità dell’evento. Mi precipitai a Palazzo S. Lucia, ma gli uffici della Regione erano vuoti. Il Presidente mi invitò a recuperare subito le prescrizioni, conservate in una cassaforte, da seguire in caso di un evento così calamitoso e, nel contempo, di prendere contatti col Genio Civile, per concordare il da farsi. Nella cassaforte c’era soltanto una busta gialla, che conteneva un foglio con i numeri di telefono dei vari ingegneri responsabili di settore. Per il resto nulla. Intanto, De Feo mi comunicò che a Roma si stava decidendo di affidare a Zamberletti il coordinamento delle operazioni di soccorso. De Feo, da vecchio democristiano, mi suggerì anche di non mettermi troppo in vista, perché passata la fase delle emozioni, ci sarebbe stata, poi, quella dell’individuazione di “un mostro da sbattere in prima pagina”. Non mi curai molto dell’amichevole consiglio del Presidente e mi recai subito alla Prefettura di Avellino, dove incontrai i sindaci della zona. Quindi, tornai a Teora, dove solo qualche giorno prima, in previsione delle elezioni amministrative, avevo tenuto un incontro con i notabili del partito, compreso Arcangelo Iapicca, noto imprenditore della zona. Vi trovai fango, lutto e desolazione. Visto che Zamberletti coordinava il tutto, mi interessai, attraverso il partito, perché fossero inviati, nei luoghi della tragedia, container e prefabbricati. L’appello non fu vano ”. Molti sono, ovviamente, gli episodi in cui cerca di accreditarsi la malavita. Dagli illeciti guadagni scaturiti dagli appalti post terremoto, infatti, la camorra, in particolare, scopre la miniera d’oro della costruzione dei villaggi turistici, fatti nascere a pochi metri dal mare di Calabria, specie nella provincia di Cosenza, la più vicina all’estremo Cilento. I capi clan si rivelano molto bravi ad inserirsi nei gangli della politica e, talvolta, lo fanno con una sfrontatezza che rasenta l’incredibile. “Mentre ero in una riunione al Genio Civile, infatti, mi cerca, insistentemente, al telefono un certo Antonio Spavone, che scopro, in seguito, trattatavasi d’’o Malommo. Mi chiede di mandare qualche funzionario regionale a Forcella, per far dichiarare pericolanti alcuni fabbricati. Al mio netto rifiuto, Spavone dice che riferirà tutto a De Feo, avvertito preventivamente ( a suo dire) della richiesta. Stizzito, vado da De Feo a chiedere ragione di quel comportamento. Ed il Presidente mi dice che analoga richiesta gli era stata fatta, questa volta a nome di Gava. Questo a dimostrare che, nei caotici giorni che seguirono al terremoto, i camorristi si vendevano il nome dei politici e degli amministratori, mentre questi ultimi, spesso, erano completamente estranei ”.
Nella quiete di casa Caria i ricordi abbondano, si intersecano, si sovrappongono. Filippo non fa molta fatica a tener dietro a fatti e personaggi, che hanno segnato il suo percorso di impegno politico. Sul divano del salotto, dove normalmente avvengono le nostre conversazioni, sono sparsi ritagli di giornali, cartelline zeppe di documenti, bozze del periodico “Democrazia Socialista” (direttore Responsabile Giovanni Oranges), locandine di convegni. Ogni tanto il vecchio Caria sembra assentarsi, rincorre fantasmi e nomi di un ormai lontano passato politico: nei suoi pensieri entrano ed escono, continuamente, quasi tutti i nomi che hanno fatto la storia della città di Napoli degli ultimi sessant’anni. Noto che ha una certa ritrosia a parlare di Benedetto Croce; mi incuriosisco e gliene chiedo ragione. “Non ho conosciuto Benedetto Croce personalmente, e , confesso, non ne avevo alcuna voglia! Militavo nel Partito d’Azione, che aveva come sua caratteristica fondamentale la lotta al fascismo e detestavo, perciò, profondamente la classe dirigente prefascista, responsabile di aver consegnato l’Italia al fascismo. Croce, come gran parte degli esponenti liberali, aveva accettato il fascismo, votando in senato, a favore del governo Mussolini: era convinto che si trattasse di un fenomeno di breve durata, che sarebbe stato presto riassorbito e che, comunque, aveva bloccato il “pericolo rosso”, dando una certa stabilità al paese. È vero, Croce si allontanò dal fascismo a mano a mano che venivano promulgate le leggi eccezionali ed il fascismo diveniva dittatura: si chiuse nei suoi studi preferiti e, per un ventennio, gestì un’opposizione da salotto, senza mai essere disturbato dal governo fascista. Caduto il fascismo, Croce tornò sulla scena per spiegarci come dovevamo ricostruire la democrazia e, soprattutto, per tentare di salvare, non Vittorio Emanuele, ma la monarchia, della quale si dichiarava sostenitore. Era troppo per me, ventenne, azionista, militante attivo nell’antifascismo fin dai tempi dell’università. D’altra parte, la profonda disistima di Croce nei confronti del P.dA era ben nota: basta leggere il “Taccuino di guerra “ dello stesso don Benedetto per rendersi conto del giudizio profondamente negativo, aggravato dal fatto che molti dei suoi allievi militavano nel Pd’A, a cominciare da Omodeo , da de Ruggiero, per finire allo stesso suo genero, Craveri. Per Croce il Pd’A era un “ idrocervo”, una specie di animale fantastico mai esistito, che voleva tentare di coniugare nella formula astratta del liberal socialismo, i principi fondamentali del socialismo e del liberalismo Comunque, devo dire che, successivamente, ebbi modo di rivedere il mio giudizio su Croce, allorquando, nell’autunno inoltrato del ’45, Pasquale Schiano, responsabile del centro meridionale del P.d’A., ritenne che fosse indispensabile combattere con le armi i fascisti e i tedeschi, questi ultimi trincerati a Cassino. D’intesa con il generale Pavone, fu proposto agli americani ed agli inglesi la costituzione di un gruppo di volontari, che combattessero al fianco degli alleati contro i tedeschi. Schiano ottenne l’autorizzazione ed il generale Pavone iniziò il reclutamento, insediandosi nel palazzo dell’INA in Piazza Carità. Ricordo che ci presentammo in tanti; per l’occasione Benedetto Croce stilò un magnifico manifesto, invitando i giovani a prendere le armi per conquistare la libertà Con questo gesto, mi riconciliai con Croce, anche se rimaneva un giudizio negativo di fondo sull’azione svolta dalla borghesia liberale, sul suo trasformismo, sul consenso dato inizialmente al fascismo”.
Le testimonianze ed il filo dei ricordi di Filippo Caria, sono state da me raccolte nel corso di lunghe conversazioni avute tra il 2007 ed il 2009. Negli ultimi tempi, però, i nostri rapporti si sono limitati a qualche telefonata, dalle quali si sente la stanchezza del vecchio combattente. Più di ogni altra cosa, ho la sensazione che la solitudine e la nostalgia si siano impadronite della giornata di Caria. Forse perché sono scomparsi, man mano, tanti suoi compagni di antiche battaglie; ultimamente se ne è andato anche Francesco Picardi (2012). Ma, forse, dal punto di vista politico e culturale, la mancanza più cocente è stata quella di Gaetano Arfè (2007). “Gaetanino –come affettuosamente tutti lo chiamavano- ed io avevamo la stessa età. L’ho conosciuto, da studente, all’Università di Napoli, nella primavera del 1943. Diventammo subito amici ed insieme fummo animatori e protagonisti di molte battaglie politiche. Con la morte di Arfè se ne è andata una parte importante del mio mondo; quel mondo nato agli inizi degli anni ’40 del secolo scorso, quando molti di noi vantavano i propri vent’anni. Quello stesso mondo condito di battaglie combattute in nome di principi e valori difficili, oggi, da recuperare”.
Nella notte della Repubblica (I, II o addirittura III?) e nella speranza della rinascita politica, morale e culturale del paese Italia, le storie dei padri servono ai figli, perché non commettano gli stessi errori. Utinam id sit!
Ciro Raia
[1] “Italia libera” è il nome di un gruppo clandestino, che era emanazione del Partito d’Azione.
[2] Pasquale Schiano (1905-1987) fu segretario nazionale amministrativo e organizzativo del PdA, allo scioglimento del quale confluì nel partito socialdemocratico, per le cui liste fu eletto deputato nel 1958. Due anni dopo confluì nel PSI. Nel 1964 fondò l’Istituto Campano di Storia della Resistenza, di cui fu anche presidente.
[3] Antonio Armino, attivissimo esponente del PdA, nel quale, in particolare, esercitò funzioni sindacali.
[4] Adriano Reale, fratello del comunista Eugenio, fu segretario della Federazione del PdA a Napoli.
[5] Filippo Caria, conversazione con Ciro Raia, 20 dicembre 2007.
[6] Antonio Pietropaolo nasce in Calabria, nel 1899; giovanissimo si trasferisce a Milano. Nella città lombarda è arrestato per i fatti connessi all’attentato al teatro “Diana” ed è condannato a 19 anni. Liberato per amnistia nel 1932, trascorre 2 anni in libertà vigilata a Vibo Valentia. Ritorna, quindi,a Milano, dove partecipa alla Resistenza con le brigate Bruzzi-Malatesta. Muore a Milano il 1° gennaio 1965.
[7] Il 23 marzo 1921 un gruppo di anarchici milanesi fa esplodere una bomba all’esterno del teatro “Diana”, nell’intento di colpire Gasti, il questore di Milano, responsabile –secondo gli attentatori- dell’ingiusta detenzione dei redattori del quotidiano “Umanità Nova”, Borghi, Quaglino e Errico Malatesta. L’esplosione della bomba provoca la morte di ventuno persone ed oltre centocinquanta feriti.
[8] Tommaso Morlino (1925-1983), Avvocato ed uomo politico, democristiano, ricoprì innumerevoli incarichi politici ed istituzionali. Fu responsabile del Ministero per le Regioni (dal 1974 al 1976), del Ministero del Bilancio (1976 al 1979) e del Ministero della Giustizia (dal 1979 al 1980). Dal 1964 al 1965 fu segretario nazionale della Democrazia Cristiana; dal dicembre del 1982 al maggio del 1983 fu presidente del Senato. Morlino fu il principale artefice dell’attuazione dell’ordinamento regionale, che si concretizzò con l’approvazione della L.22/7/1975, n.382.
[9] “A Cosenza la sezione del PdA ebbe un notevole sviluppo, tanto da diventare quella più numerosa del “Regno del sud”, con circa 10 mila iscritti […]. Per concludere il discorso sul PdA casentino è d’obbligo ricordare […] a cui vanno aggiunti gli operai Umberto De Rosa, tipografo, che partecipò al Convegno di Napoli di fine 1943 insieme ad Ernesto Bastardi, elettricista, e i giovani studenti universitari Umberto Caldora e Filippo Caria, il quale ultimo, trasferitosi definitivamente a Napoli, assunse qui cariche dirigenziali nella Gioventù d’Azione”, in Antonio Alosco, Il Partito d’Azione nel Regno del Sud, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2002.
[10] Luigi Razza (1892-1935), giornalista e uomo politico calabrese. Volontario di guerra, fu decorato con due croci di guerra italiane ed una croce di guerra cecoslovacca. Membro della segreteria del PNF, fu Ministro dei Lavori Pubblici.
[11]Michele Bianchi (1883-1930), giornalista, sindacalista rivoluzionario, fu segretario di diverse camere del lavoro. Antimilitarista, poi, interventista nel dopoguerra, si avvicinò al movimento fascista. Divenne, in seguito, il primo segretario generale del PNF. Quadrunviro della Marcia su Roma, fu consigliere di Stato, segretario generale al Ministero degli Interni, sottosegretario ai Lavori Pubblici e agli Interni, ministro dei Lavori Pubblici.
[12] “Gli azionisti hanno in via Mezzocannone un centro clandestino che da un lato si organizza per la propaganda contro il regime, dall’altro come concentramento di forze antifasciste che, in qualche modo, anticipa l’esperienza dei Comitati di Liberazione Nazionale, raccogliendo non solo un gruppo di socialisti liberali di ispirazione rosselliana, ma anche anarchici e comunisti dissidenti. Si tratta di militanti che fanno capo a Pasquale Schiano e ad uno dei pochi cattolici che fanno attività clandestina, l’ex prefetto Selvaggio, che finirà poi sotto le bandiere della DC. ”, Aragno G., L’antifascismo durante la clandestinità, in Muzzupappa S., e Hobel A. (a cura di), Fascismo e antifascismo a Napoli (1922-1952), La Città del Sole, Napoli, 2006.
[13] Ferdinando Facchiano, nato a Ceppaloni (Bn) nel 1927, avvocato, eletto alla Camera nel 1987 nelle liste del PSDI, è stato Ministro dei Beni Culturali nel VI governo Andreotti, Ministro della Marina Mercantile nel VII governo Andreotti, Ministro per il Coordinamento della Protezione Civile nel I governo Amato.
[14] Carlo Fermariello (1925-1997), giovane azionista, nel 1945 si iscrisse al PCI, partito per il quale ricoprì la carica di consigliere comunale a Napoli, senatore (dal 1968 al 1983) e sindaco di Vico Equense.
[15] Discendenti da una illustre ed antica famiglia, Dario, Leonida, Roberto e Rita Santamaria raggiunsero alte vette professionali: Dario fu docente alla facoltà napoletana di Giurisprudenza; Leonida fu professore alla facoltà di Medicina di Pavia, Roberto, invece, in quella di Napoli. Rita, infine, fu primario medico ospedaliero.
[16] “I partiti intanto sono cresciuti. Alla fine del 1944, una relazione del Prefetto afferma che a Napoli i più influenti sono Pci e Pli. Ma i dati sul tesseramento sono diversi: la DC appare il partito più forte con ben 14.000 iscritti, […] il PdA e il Pli (entrambi 2.000)”, Hober A., I partiti dalla clandestinità alla rinascita e l’esperienza del CLN, in Muzzupappa S. e Hober A (a cura di), op. cit.
[17] Franco Picardi (1929-2012), conversazione con Ciro Raia, 23 gennaio 2008.
[18] “Napoli odora di legno bruciato. Ovunque macerie –che in alcuni casi ostruiscono completamente le strade-, crateri di bombe e tram abbandonati. Il problema principale è l’acqua. Le due spaventose incursioni aeree del 4 agosto e del 6 settembre hanno distrutto tutte le condutture, e già dopo la prima è venuto a mancare il necessario approvvigionamento idrico. Per completare l’opera di distruzione degli Alleati, le squadre di guastatori tedeschi sono andate in giro a far saltare in aria tutto quanto di utile alla città ancora funzionasse. La grande sete collettiva di questi ultimi giorni è stata tale che, ci hanno detto, la gente ha provato a cucinare con l’acqua di mare, e sulla riva si sono viste famiglie intere accovacciate intorno a strani marchingegni, coi quali speravano di riuscire a distillare l’acqua salata per poterla bere. ”, Norman Lewis, Napoli ’44, Adelphi, Milano, 1993.
[19] “Fu una lezione per noi: ci si rese conto che non c’era unità nelle masse popolari e che vi era il rischio di un pericoloso isolamento della sinistra e addirittura di uno scontro con gli alleati. Perciò cominciò a maturare l’idea che bisognasse uscire dalla paralisi e trovare terreni di collaborazione fra tutte le forze antifasciste”, in Attilio Wanderlingh, Maurizio Valenzi un romanzo civile, Edizioni Sintesi, Napoli, 1988.
[20] Federico Zvab (1908-1988), istriano, combattente della guerra di Spagna, compagno di carcere a Ventotene di Pertini ed Ernesto Rossi, tra gli organizzatori delle quattro giornate di Napoli.
[21] “Nella federazione del PCI in via Medina –dove ora sorge l’albergo Jolly- sono stati esposti il tricolore e la bandiera rossa. Litza è lì. Davanti all’edificio si radunano i monarchici, sempre più numerosi. Rovesciano un tram, partono all’assalto a mano armata. La polizia interviene, si scatena una battaglia. Andiamo a dare man forte. A terra restano undici morti e un centinaio di feriti, forse è stata una rivolta separatista.”, in Maurizio Valenzi, Confesso che mi sono divertito, Tullio Pironti, Napoli, 2007.
[22] Lelio Porzio (1895-1983), proveniente dalle fila del Partito Socialista Riformista, negli anni Venti era stato segretario della sezione di Napoli. Durante il ventennio fascista fu rinchiuso per alcuni mesi nel carcere di Poggioreale, perché trovato in possesso di molti testi marxisti e socialisti.
[23] Giampiero Orsello (1927-2006), docente di istituzioni di diritto pubblico e di diritto dell’unione europea, tra gli animatori della sinistra liberale negli anni ’50. E’ stato presidente della “Fondazione Saragat” e, dal 1975 al 1986, è stato vicepresidente della RAI.
[24] Cucchi Aldo (1911- 1984), medico legale, medaglia d’oro al valor militare per le sue imprese nella lotta partigiana, aderisce sin dal 1936 al partito comunista clandestino. È eletto deputato nella I legislatura. Nel 1951, dissidente dal PCI sulla questione titina, è espulso dal partito e, con Magnani, fonda il Movimento dei lavoratori italiani (in seguito diventato Unione Socialisti Indipendenti). Successivamente, Cucchi aderisce al PSDI.
[25] Valdo Magnani (1921-1982), docente di filosofia, medaglia di bronzo al valor militare; dopo l’armistizio si schiera con la Resistenza jugoslava. Tornato in Italia, nel 1947, diventa segretario della federazione comunista di Reggio Emilia e, nel 1948, è eletto deputato. Nel 1951, in contrasto con le posizioni del partito nei confronti di Tito, insieme a Cucchi, esce dal PCI e fonda il Movimento dei Lavoratori Italiani. Con questo movimento, Magnani e Cucchi si presentano alle elezioni del 1953 e prendono 250.000 voti, che non sono sufficienti a fare scattare un seggio ma impediscono che scatti la “legge truffa”. Nel 1957 Magnani passa al PSI; nel 1962 rientra, poi, nel PCI.
[26] Togliatti definì Cucchi e Magnani due pidocchi sulla criniera di un grande cavallo (PCI).
[27] Corrispondenza Socialista, settimanale nato nel giugno del 1959, diretto da Michele Pellicani, con l’intento di raccogliere le intelligenze e le energie liberate dalla cappa dello stalinismo, dopo i fatti d’Ungheria del 1956. Si avvalse della collaborazione di innumerevoli ex comunisti, tra i quali Alfonso Gatto, Antonio Ghirelli, Tomaso Smith, Cesare Vivaldi, Antonio D’Ambrosio
[28] “Reale ci confermò tutte le nostre ipotesi e supposizioni. Egli aveva costruito la prima rete di società import-export con l’est europeo, per rendere il partito di Togliatti più autonomo da Mosca e, insieme, per rafforzarlo economicamente. […] Alla fine D’Ambrosio fu molto più esplicito di Reale: “Cari amici –ci disse pressappoco- nei prossimi anni, non ci sarà più un solo commercio con quei paesi senza che il PCI non raccolga la sua percentuale. Questa è la via italiana al socialismo. I maggiori industriali che commerciano con i paesi dell’est passano l’intermediano a Botteghe Oscure. Al foraggiamento del PCI partecipano, in non piccola misura, alcune grandi e medie industrie italiane. Non parliamo, poi, delle aziende di Stato, dell’Eni, della Finsider, della Fincantieri, che sono fra le più attive in questo genere di traffici, e che non disdegnano la mediazione costosa delle società controllate dal PCI ”, in Giuseppe Averardi, Le carte del PCI, Lacaita, Manduria, 2000.
[29] “Mentre il Partito comunista fuoriesce lentamente dalla crisi de ’56, il Movimento di Alleanza Socialista, da noi fondato, forte ormai di circa 20 mila ex comunisti, confluisce nel PSDI di Giuseppe Saragat il 16 novembre del ’59. Reale non vuole alcun incarico ma chiede di occuparsi del reperimento di mezzi finanziari per il partito, che viveva alla giornata ”, in Giuseppe Averardi, op. cit..
[30] Mario Del Vecchio, conversazione con Ciro Raia, 29 gennaio 2008.
[31] Leopoldo Ranucci (1879- ), avvocato, socialista, fu eletto per la prima volta consigliere comunale a Napoli, nel 1914, per il Blocco. Durante la prima guerra mondiale fu sindaco di Sparanise (Ce). Diresse “La Propaganda”, giornale dell’Unione Socialista Napoletana. Dopo il 25 luglio 1943 fu chiamato a rappresentare i socialisti nel CLN. Nel 1946 fu di nuovo eletto consigliere comunale a Napoli nelle liste del Blocco Democratico Popolare.
[32] Achille Lauro (1887-1982) armatore sorrentino, proprietario di una vasta flotta. Iscritto al PNF, nel 1933; vicino all’Uomo Qualunque, nel 1947; dal 1948 in poi appoggia il partito monarchico. Nel 1952 è eletto, per la prima volta, sindaco di Napoli. Nel 1954 fonda il Partito Popolare Monarchico, sotto il cui simbolo, tra il 1955 ed il 1957, continua a fare il sindaco di Napoli. Nel 1957 è eletto al Parlamento, dove è eletto sino al 1972 come capolista monarchico e, nel 1976, nelle liste del MSI-DN.
[33] Si tratta dei consiglieri comunali, eletti nelle liste del Partito Monarchico, Corrado Arenare, Ugo Cozzolino, Vincenzo Cito, Filippo Dell’Agli, Giuseppe Del Barone, Giuseppe Moscariello e Luigi Wolf. L’ispiratore della trama trasformistica è, però, l’avvocato Nicola Foschini, tra i fondatori del MSI e consigliere comunale a Napoli, per lo stesso partito, nel 1952. Nel 1956, poi, Foschini passa alla corte di Lauro, per la cui lista siede sia in consiglio comunale che al parlamento. Dopo qualche anno, infine, Foschini passa con la DC, partito per il quale riesce ad essere eletto di nuovo al comune di Napoli ed al parlamento.
[34] “Oggi la DC esulta per quanto è avvenuto nel Consiglio Comunale di Napoli, dove ben sette consiglieri hanno seguito l’esempio dell’ineffabile onorevole Foschini, il Fregoli della politica napoletana! […] Il sistema è marcio e la situazione politica in sfacelo. E si tratta, innanzitutto, di sfacelo morale. Non è la situazione di questo o quel partito che preoccupa, è il metodo che indigna e dimostra che la democrazia, così come è concepita oggi in Italia, è veramente il regime dei peggiori. Un regime che oltre a fondarsi sulla demagogia ed a sollecitare gli istinti peggiori delle masse, giustifica il trasformismo dei voltagabbana, le manovre degli arrivisti, i salti di quaglia degli ambiziosi, gli appetiti dei profittatori. Non si illudano questi puttani di aver battuto, con il loro tradimento, Lauro e il laurismo” Alberto Giovannini, I sette puttani, “Roma”, 13 settembre 1961.
[35] Bruno Romano, nato a Napoli nel 1920, medico; è eletto dal 1946 al 1970, per sette volte consecutive, come consigliere comunale a Napoli. Nel 1946 è tra i fondatori partenopei dell’ Uomo Qualunque, partito per il quale ricopre anche la carica di assessore nelle giunte Buonocore. Nel 1948 aderisce al partito monarchico. Nel 1952 è rieletto nello schieramento di Lauro e ricopre di nuovo la carica di assessore. Nel 1958, sempre per il partito monarchico, è eletto deputato. Nel 1960 aderisce al PSDI, partito per il quale ricopre la carica di assessore. Nel 1963 è rieletto deputato; alle elezioni comunali del 1970 è eletto nelle liste del PSU e ricopre la carica di assessore nelle giunte di centrosinistra capeggiate dal sindaco democristiano Gerardo De Michele.
[36] Vincenzo Russo, uomo politico, di lunga tradizione socialdemocratica, proveniente da Marigliano (Na).
[37] Il consiglio comunale di Napoli, eletto il 6 novembre 1960, dopo tre anni di gestione commissariale, fu sciolto con decreto del Presidente della Repubblica del 28 dicembre 1961.
[38] Nel PSDI Romano riscuote 2753 preferenze, Abate 1912; il primo dei non eletti è Caria con 1714 voti. “Secondo eletto della loro lista il signor Salvatore Abate. Tra di essi si è verificato un attimo di vero e proprio smarrimento. “E chi è Salvatore Abate?”, si sono chiesti. Una piccola indagine li ha portati a stabilire che l’Abate è un alimentarista”, in “Roma”, Crisi nel PSDI per l’eletto Abate, 16 giugno 1962.
[39] Bruno Milanesi, nato a Livorno nel 1918, è tra i fondatori del movimento giovanile democristiano a Napoli. È eletto per la prima volta consigliere comunale nel 1962 e, poi, confermato nel 1964, nel 1970 e nel 1975. Dopo essere stato più volte assessore, nel 1974 viene eletto sindaco –per poco più di un anno- di una giunta di centrosinistra.
[40] “Lauro non ha mai tentato di passare con la DC; era antidemocristiano, perché era un padre-padrone, che non poteva andare d’accordo con i Gava padri-padroni; sia Lauro che i Gava erano autoritari e nessuno poteva pensare di esser secondo all’altro. Quando fu sciolta l’amministrazione Lauro, nel 1958, fu un regalo dei Gava in accordo con l’allora Ministro dell’ Interno, Tambroni”, Filippo Caria, conversazione con Ciro Raia, 20 dicembre 2007.
[41] “1944, Nessun ripensamento, invece, sul rifiuto ad Achille Lauro; il Comandante. Incontriamo suo figlio Gioacchino nella redazione del “Mattino” all’Angiporto Galleria, dove Eugenio Reale e io siamo andati a salutare Floriano Del Secolo, direttore democratico. “Papà è pronto a passare dalla vostra parte, e anch’io”, dice Gioacchino. Reale gli risponde con una risata beffarda”, in Maurizio Valenzi, Confesso che mi sono divertito, Tullio Pironti, Napoli, 2007.
[42] Giovanni Gatti, marito di una nipote di Lauro; entrò al Senato, per le liste monarchiche, dopo la morte di Gioacchino Lauro, figlio del comandante.
[43] Italo De Feo (1912-1985), scrittore e saggista, allievo di Omodeo e Croce. Nel 1943, a Napoli, fu a capo dell’ufficio stampa del CLN. Dal 1944 al 1947 fu stretto collaboratore di Togliatti; uscito, poi, dal PCI, si avvicinò ai socialdemocratici di Saragat, di cui era amico personale. È stato direttore e vicepresidente della RAI.
[44] Filippo Caria, conversazione con Ciro Raia, 20 dicembre 2007.
[45] Matteo Matteotti (1921-2000) figlio di Giacomo, parlamentare del PSDI, partito per il quale ricoprì anche la carica di ministro del Turismo.
[46] Mario Tanassi (1916-2007), uomo politico del PSDI, fu più volte ministro. Per un breve periodo, fu anche cosegretario –insieme a Francesco De Martino- del Partito Socialista Unificato.
[47] Luigi Preti (1914), nel 1946 è eletto deputato nella Costituente; ha fatto parte dell’assemblea di Montecitorio per altre 10 legislature, sempre per il PSDI. È stato più volte Ministro delle Finanze, della Programmazione Economica, dei Trasporti e della Marina Mercantile.
[48] Ferdinando Facchiano, conversazione con Ciro Raia, 2 febbraio 2008.
[49] Giunta DC-PSDI presieduta da Clemente di San Luca (luglio 1963- aprile 1964), Caria ricopre la carica di assessore al personale. Giunta DC-PSI-PSDI, ancora presieduta da Clemente di San Luca (gennaio 1965- gennaio 1966), Caria ricopre la carica di assessore al patrimonio. Giunta DC-PSI-PSDI, presieduta da Giovanni Principe (gennaio 1966- luglio 1966), Caria mantiene la delega al patrimonio. Giunta DC-PSI-PSDI, con a capo ancora Principe (febbraio 1969- novembre 1970), Caria è investito della delega ai lavori pubblici (comprendenti strade, fognature, edilizia comunale e scolastica, edilizia privata).
[50] Pino Amato (Torino 1930, Napoli 1980) cade vittima delle B.R., il 19 maggio 1980, in un assalto in via Alabardieri, una delle strade del centro storico di Napoli.
[51] Pino Amato: un dc aperto al dialogo unitario, l’Unità, 20 maggio 1980.
[52] Raffaele Delcogliano (Benevento 1944, Napoli 1982), rimane ucciso, il 27 aprile 1982, insieme al suo autista Aldo Iermano, in un attentato rivendicato dalle B.R.
[53] Sul fronte di Napoli, Il Mattino, 28 aprile 1982.
[54] Antonio Ammaturo (Avellino 1925, Napoli 1982), vicequestore e capo della squadra mobile della questura di Napoli, cade sotto i colpi dei terroristi, il 15 luglio 1982, insieme al suo autista, l’agente Pasquale Paola. Il duplice assassinio è rivendicato dalle B.R.; nel corso del mortale assalto, però, alcuni terroristi restano feriti; la fuga e le cure necessarie sono garantite dagli affiliati alla camorra della Nuova Famiglia.
[55] Alfredo Paolella (Benevento 1928- Napoli 1978), docente universitario, titolare della cattedra di antropologia criminale alla Federico II. È assassinato a Napoli, l’11 ottobre 1978, sotto casa sua, al Vomero. Il crimine è rivendicato dai terroristi di Prima Linea
[56] “Sessanta interminabili secondi da incubo alle 19,35. In quel minuto edifici crollati, auto sepolte dalle macerie, gente uccisa dalla paura. Poi una serata e una notte infernale. L’Italia Meridionale sconvolta dal terremoto. La Campania e la Basilicata sono il cuore della tragedia. Mentre scriviamo è impossibile tracciare un bilancio. Non riescono a tracciarlo nemmeno al ministero degli Interni. Con alcune città i collegamenti sono saltati. Saltati anche all’interno delle varie province. I morti, comunque, si possono calcolare a centinaia, i feriti a migliaia.”, Un minuto di terrore i morti sono centinaia, Il Mattino, 24 novembre 1980.