1) Una festa particolare quella delle “Lucerne”, la cui ricorrenza cade ogni quattro anni, il cinque di agosto, giorno dedicato dalla Chiesa alla Madonna della Neve. Una festa particolare perché ricca di fascino, intrisa di simbolismi e con identità popolare. Già, infatti, il ricorso ad un termine demodé, per denominare una minuscola sorgente di luce, impone un immediato salto nel passato. La lucerna era (ma lo è ancora?) una lampada di uso domestico, che assolveva, però, anche ad una funzione liturgica e votiva. Nelle catacombe era usata dai primi cristiani, per l’illuminazione dei luoghi di culto e per un tributo d’onore alla suprema divinità. Nel linguaggio ascetico il termine lucerna era ed è sinonimo di luce suprema di purezza e verità; nel linguaggio figurato, invece, resta sinonimo di guida morale. Nella cultura popolare lucerna sta per organo sessuale maschile (Simili gentarelle non son svogliati…né pigliano mai la lucerna in mano acciò che il suo lume gli faccia vedere quanti borselli ha la tua fica, stropicciandole gli orli [Aretino, 20-259]) e femminile (‘a lucerna ‘e donna ‘e donna Lucia ha fatto cinche figlie [I fescennini non tramontano mai]). Ma la lucerna è anche figurazione del lumino cimiteriale; è, forse, espressione di fuochi fatui. È sicuramente un fuoco intenso, nella cultura popolare, come un legame tra la vita e la morte. È il ritorno dei morti alla vita, attraverso il rito dell’(in)seminazione: quello tramandato dagli antichi Romani, che facevano l’amore sulle tombe dei loro defunti, o dagli Etruschi e dai Frigi, che abbellivano le tombe dei loro morti con falli che ne conservassero la potenza sessuale anche nell’altra vita. La lucerna, infine, significa la vita stessa dell’individuo. Nella fiaba “Il guardiano delle lucerne”, Angelo Di Mauro fa dire al suo personaggio -il guardiano, appunto-, nel mentre si rivolge ad un uomo, che, dopo aver guardato la propria lucerna ormai agli sgoccioli, lo aveva invitato a rigenerarla, “No, non è possibile. Il mio compito qui è proprio questo. Questa è la porzione d’olio assegnata. Quando si consuma, si deve morire”[1].
In tempi remoti la festa delle lucerne si esauriva, forse, nell’arco di un solo giorno: una comunità contadina non poteva consentirsi il lusso di sottrarre preziose ore di faticoso lavoro alla terra, madre e matrigna. C’era da spaccarsi la schiena, sempre. E, poi, c’erano gli animali a cui badare, gli attrezzi da preparare, la montagna del Somma-Vesuvio da copulare col sudore, con la lama di un falcetto, con un bicipite teso nello sforzo della vanga, con l’affilato ferro quadrilungo di un’avita zappa. Col passar degli anni, dopo una momentanea cancellazione dell’evento festivo, dovuto alle preoccupazioni ed ai lutti causati dalle molteplici occupazioni straniere e dalle innumerevoli guerre, le lucerne si riaccesero e si regalarono un’esistenza più lunga, della durata anche di due o tre notti. In un opuscolo sulla festa delle lucerne, pubblicato nel 1990 (a cura dell’Arci), il parroco della Chiesa di San Pietro al Casamale, don Armando Giuliano, fornì una preziosa testimonianza: “La festa delle lucerne, a causa della seconda guerra mondiale, era stata accantonata […] Nel 1951 presi contatto con i maestri di festa e mi adoperai per ripristinarla. […] La festa ebbe un grande successo per le sue caratteristiche e per il suo folklore popolare”.
Poi, di nuovo, la festa delle lucerne si oscurò, fin quando “negli anni settanta, dopo circa due decenni di interruzione, venne ripresa, per volontà e merito del locale circolo dell’Arci che la riscoprì e la ripropose nelle sue forme più autentiche”, (testimonianza di Vincenzo Maiello, uno dei membri del comitato organizzatore, in Guida alla festa delle Lucerne, 1998).
Dal momento in cui furono riaccese di nuovo, negli ultimi anni del secondo millennio, le lucerne diventano un richiamo, una curiosità, una ricerca antropologica, un’opportunità di sogno per visitatori incantati, per etnomusicologi, per il popolo di un antico borgo a stento compresso all’interno di una murazione aragonese.
Lo spazio della celebrazione del rito delle lucerne si rinchiude entro le mura del Casamale -a Somma Vesuviana-, luogo in cui migliaia di fiammelle illuminano gli antichi vicoli dalla suggestiva toponomastica (Giudecca, Cuonzolo, Puntuale, Malacciso, Piccioli, Zoppo, Torre, Coppola, Stretto, Lentini, Perzechiello ), inequivocabile eredità di un cognome di un’antica famiglia, di un evento cruento capitatovi, di una colonia di giudei a lungo risiedutavi.
La vetusta e fascinosa festa delle Lucerne, -la cui origine si perde nella notte dei tempi e la cui memoria si tramanda con l’enfasi e il trasporto della favola, della poesia e dei fatti di storia locale-, rappresenta, perciò, la testimonianza e il simbolo di una lontanissima comunità agricola. Il Maestro Roberto De Simone, nel 1990, diede una suggestiva lettura della manifestazione vesuviana di fine estate: “Da diversi fattori (in particolare dal periodo calendariale) la festa appare collegata a particolari riti agricoli celebranti la fine del ciclo estivo o comunque la morte dell’estate. La stessa festa per la morte della Madonna (15 agosto) è una trasposizione cristiana di tali precedenti celebrazioni. E gli elementi, raffiguranti la fine di un ciclo, si possono notare dalla presenza dei banchettanti (nota simbologia in relazione alla morte), dalle lucerne notturne, dagli apparati di fiori e dalle zucche che esplicitamente raffigurano una testa di morto. Purtuttavia, si colgono, come sempre in tali casi, quegli elementi tipici di riscatto dalla morte, che sono offerti dagli stessi elementi dei banchettanti in funzione rigenerante (un uomo e una donna), dalla zucca (nota simbologia fallica), dalla lucerna (nella cultura tradizionale come simbolo del sesso femminile) e dalle oche, che sono in strettissima relazione con gli antichi culti priapici. Infatti, dagli scavi di Pompei e di Ercolano sono riemerse molte lucerne composte da elementi osceni e molte raffigurazioni del dio Priapo accompagnato da oche e galline “. Ed anche nel museo della vicina città di Capua, una Diana Tifatina (VI secolo a. C.) troneggia su un cavallo con un’oca tra le zampe!
Ma cosa succede, a Somma Vesuviana e al Casamale, terre alle quali è stato concesso il privilegio di sognare, nelle notti del primo quarto di luna di agosto? Nel buio più assoluto, d’incanto, alimentate da purissimo olio, si accendono le lucerne di terracotta,che, poste su strutture lignee a forma di triangoli, cerchi, quadrati e spirali, disegnano un arredo urbano tanto suggestivo quanto fantasmatico. L’antropologa Annamaria Amitrano Savarese, in un opuscolo del 2002 sull’Evento Lucerne, curato dal Comune di Somma Vesuviana, dà un’interpretazione del simbolismo legato alla geometria delle strutture: “Le figure geometriche a nostro avviso sono esse stesse la metafora della Montagna e, quindi, sistema di collegamento, perché il ciclo dalla luce-al buio-dal buio-alla luce, nel rapporto Cielo-Terra-Alto-Basso, si espliciti nel sistema concatenato della rappresentazione integrale del ciclo Vita-Morte-Vita. E così all’infinito, com’è segnalato dai prolungamenti senza fine ottenuti dagli specchi. Se si dà corpo, infatti, ai significati simbolici che tali figure sottendono, avremo che il quadrato è una figura base dello spazio, simbolo della terra e dell’universo creato e che richiama le fondamenta; sapremo che il triangolo è lo spazio chiuso, definito e perfetto nella sua dimensione magico-sacrale riferita al numero 3; e sapremo, ancora, che esso, con la punta in su, rappresenta il fuoco e il sesso maschile, mentre con la punta in giù l’acqua e il sesso femminile; sapremo, ancora, che il rombo richiama lo scatenamento di forze telluriche primordiali e che esso poi rimanda, per sopravvivenza, allo strumento che evoca il tuono, quindi, per assimilazione, anche al ruggito del vulcano. Ora, incastonando virtualmente una sull’altra le figure geometriche del Casamale, ci si accorge che esse, accolte nei loro valori simbolici, possono in realtà rappresentare, logicamente, l’idea della “Montagna Calda” possente, ruggente, svettante dalla Terra a Cielo”. Sono, in effetti, i quattro elementi che ritornano sempre, anche nella simbologia geometrica. La rappresentazione grafica del triangolo li contiene tutti: il triangolo equilatero simboleggia la Terra, quello rettangolo, invece, l’Acqua; il triangolo isoscele è simbolo del Fuoco, quello scaleno, invece, dell’Acqua. Il cerchio è simbolo della perfezione, di ciò che non ha inizio e non ha fine; è anche simbolo del tempo ciclico (i Babilonesi usavano suddividere il cerchio per misurare il tempo). Il quadrato è il simbolo della Terra, rappresenta la delimitazione, il modello di un recinto sacro quale può essere il Tempio; Plutarco, in “Iside e Osiride”, affermava che il quadrato riuniva le potenze di Rhea (madre degli dei e Madre Terra), cioè si manifestava in Afrodite-Acqua, Hestia-Fuoco, Demetra-Terra, Hera-Aria. Infine, il rombo e la spirale. La prima figura è un simbolo vulvare; ha anche una storia di magia: i Greci traevano responsi da legnetti a forma di rombo; alcune tribù degli indiani d’America, invece, attraverso legnetti rombici ascoltavano la voce delle divinità; in Calabria un rombo in legno è ancora posto sui covoni, per auspicio, durante la mietitura; anche i dolci natalizi conservano la loro magia nella forma rombica (di matrice siciliana) del mostacciolo, della pasta di mandorla e degli imbottiti. La spirale, infine, è il simbolo dell’espansione, della crescita e dello sviluppo, dell’infinito e della vita che continua.
2) I telai portalucerne, dunque, occupano ogni vicolo, lungo tutta la loro profondità, sino a formare una galleria di luce. Anzi, a rendere illimitato il luccichio, sul fondo del vicolo, uno specchio moltiplica all’infinito il percorso, che gli antropologi hanno interpretato simile a quello dell’inevitabile passaggio dalla vita alla morte. In tutte le culture popolari lo specchio è stato sempre considerato, nella sua simbologia, come una sorta di porta tra i due mondi: quello noto (appena vissuto) e quello parallelo ma ignoto dell’Altrove.
La festa delle lucerne, infatti, come già detto, è metafora di vita e di morte e, come tale, ne possiede tutti gli elementi. La lucerna, in quanto simbolo di vita, rappresenta il sesso femminile e maschile, la capacità di procreazione. Ma è anche simbolo di morte e richiama il lumino dei cimiteri, la luce a corredo dei catafalchi, i fuochi fatui, la vitalità che viene meno se non si aggiunge altro olio alla lucerna. A completare, poi, la simbologia vita-morte si aggiungono –nel cuore della festa- le scene dei banchetti e le zucche svuotate dei semi. Davanti ad ogni vicolo, davanti ad ogni galleria di luce sono collocati, infatti, dei fantocci di uomo e di donna – ‘o signore e ‘a signora, ‘o sposo e ‘a sposa– che siedono alla tavola imbandita, vero cardine di incontro domestico ma anche di cunzuòlo (conforto, consolazione), dono di cibi ricevuti dai vicini per un lutto in famiglia.
Ogni quadro famigliare è arricchito, poi, dalla fantasia dei casamalisti, dei masti di festa, che, dopo aver già provveduto alle spese dell’olio e delle terrecotte, addobbano gli ambienti ricorrendo ad originalità ma anche a stereotipi. Serti di felci, di castagno e di bionda ginestra vesuviana creano un’immaginaria stanza alle cui pareti sono appesi tiàne e ruoti (tegami di terraglia e teglie di rame), corone di peperoncini rossi (pupàvoli) insieme –talvolta- ad incredibili dipinti naif. Ed accanto alla tavola imbandita, in un improbabile inventario della memoria, non è difficile imbattersi, poi, in una vecchia macchina da cucire Singer, in un radiogrammofono con i panciuti 78 giri La Voce del Padrone, in un ferro da stiro a carbone, negli attrezzi per la campagna ed anche –segno dei tempi- in una televisione, in un frigorifero e nella plastica dei recipienti per il vino o per l’olio.
Poco più avanti, poi, ‘o signore e ‘a signora, sono uomini in carne ed ossa e le zuppiere fumano di pasta vera; come vere sono le giare di vino catalanesca, le bevute a garganella, le fette di anguria, le percòche nel vino. Quasi dappertutto c’è una fontanella con zampillo: l’acqua è elemento di vita primordiale.
Agli angoli delle stradine e dei vicoli, nel fondo dei portoni e tra gli alberi dei giardini compaiono delle zucche svuotate, alcune anche illuminate dall’interno, a simboleggiare un teschio, la morte. La zucca senza semi, d’altra parte, è incapace di riprodursi. È un anticipo della consumistica notte di Halloween: serve a mimare il ritorno dei morti sulla terra. Ma la zucca è pur’essa simbolo di vita: per la sua leggerezza e la sua impermeabilità, infatti, in tempi remotissimi, una volta essiccata, era utilizzata come recipiente per il vino o galleggiante, o, a coppia, come salvagente per i nuotatori principianti.
La festa delle lucerne può definirsi un relitto folcloristico. Nasce, infatti, in un borgo di contadini, come rito pagano, e sopravvive, modificandosi, nel solco della religione cattolica. Originariamente la festa fu celebrata –secondo alcuni studiosi- in onore di Diana, la divinità italica il cui culto introdusse a Roma Servio Tullio. Diana la luminosa era una dea dispensatrice di luce e protettrice delle partorienti; alle idi di agosto, nella valle di Aricia, nei pressi del lago di Nemi, le donne erano solite recarsi in processione per propiziarsi il parto o per ringraziare la dea per averle assistite. Secondo altre interpretazioni, invece, la festa fu celebrata in onore dell’italica Cerere, che, spesso, veniva associata al dio Libero/Bacco (e proprio al Casamale si son trovate tracce di un tempietto sacro a Bacco).
Cerere -in onore della quale i Romani, nel mese di aprile, celebravano le Cerealia ed, in estate, il sacrum anniversarium Cereris (la versione latina delle Tesmoforie, la festa delle donne in Grecia)- era, spesso, associata anche alla dea Terra. Dunque, una comunità agricola come quella di Somma Vesuviana celebrava la festa in onore di una dea, per ringraziare del raccolto ed annunziare la morte del ciclo estivo. Poi, la trasposizione. La dea Terra diventò Madonna e la sua festa si celebrò il 5 di agosto. Così oggi, nella data in cui, nella Roma caput mundi, si onorava la dea Salus (Salvezza), al Casamale, nei giorni, appunto, della festa delle lucerne, si continua a venerare la Madonna della Neve, la cui statua è conservata in una cappella della Chiesa della Collegiata.
È tutto un caso? C’è una continuità tra profano e sacro, tra paganesimo e cristianesimo? Certo, la leggenda che attribuisce a papa Liberio (352-366) la fondazione, in Roma, della Basilica Liberiana o di Santa Maria ad Nives, nel punto in cui sull’Esquilino una insolita nevicata agostana tracciò il perimetro della chiesa, è molto lontana dalla realtà sommese. Più verosimilmente la pagana festa delle lucerne, che si celebrava da sempre nel mese di agosto, necessitava di una sua continuità nel calendario cattolico. Non a caso tutti i riti pagani cadenti tra la fine di luglio e i principi di agosto nacquero come ringraziamento per il raccolto e come propiziatori per l’aratura e la semina. E non è, forse, un caso –anche se sempre trascurato- che la chiesa cattolica il 5 agosto abbia inteso celebrare anche sant’Osvaldo, protettore dei mietitori ma certo non tanto famoso da prestare il nome a una festa popolare. Il discrimine è sicuramente nella forza miracolosa della Madonna. Scrive, infatti, Rino Camilleri nel suo “Grande libro dei Santi protettori” (Piemme, 1998): “Entrate in una chiesa qualsiasi e guardate davanti a quali immagini spesseggiano le candele accese. Ne troverete poche davanti ai capolavori dell’arte sacra e molte davanti a una statuetta di gesso della Vergine di Lourdes. Poche davanti a San Paolo o San Tommaso d’Aquino, moltissime davanti a Sant’Antonio da Padova o a Santa Rita da Cascia. Perché? In verità non lo so, ma la statistica parla da sola. Con alcuni santi è più facile ottenere miracoli, con altri meno. Ovvio che la gente si rivolga più numerosa ai primi”.
Nacque, quindi, la festa della Madonna della Neve. Quella stessa Madonna, la cui statua –faccia rotonda, lunghi capelli a boccoli e corpetto snello-, portata a spalla dai fedeli, la sera del 5 agosto, attraversa le strette ed affollate stradine del Casamale, toccando tutte e quattro le Porte d’accesso all’antico borgo (Porta Piccioli, Porta Castello, Porta Terra, Porta dei Formosi). Al passaggio della Madonna la folla si accosta ai muri e cede il passo alla processione. Subito dopo, quasi a volerla proteggere o diventarne corpo unico, la stessa folla si chiude in un cordone massiccio e invalicabile. Intanto, dai balconi e dai terrazzi voci femminili modulano un inno alla Madonna, tanto simile ai canti delle Adonie, quando le devote del dio stazionavano sui lastrici solari, mentre bruciavano gli incensi nei giardini. E così, in un’atmosfera di devozione e di curiosità, si leva, soave e struggente, una litania, una nenia, un canto-preghiera-invocazione: “O Madonna della Neve, tu che aiuti i tuoi fedeli. O regina della pietà, tutte queste lucerne accese. O regina della città, ai piedi della Madonna è caduta una bella stella, nel fulgore del sole ardente cade la neve, che la fa bianca”.
3) La notte del 7 agosto calerà silenzio e buio sulla festa e sul Casamale. Dopo che per tre sere di seguito il vecchio borgo avrà fatto l’amore con le stelle del cielo, tutto rientrerà nella routine. Resteranno ansie, problemi e necessità di un centro in perenne lotta per la sua stessa sopravvivenza. Tornerà il silenzio nella terra violentata dalle diverse dominazioni storiche ed attanagliata dalla paura perenne dell’accigliato Vesuvio. Anche la festa del lucerne 2010 (come le precedenti) rischierà di essere l’ultima. Ormai quasi tutti i casamalisti vivono extra moenia; col lanternino si contano i superstiti contadini, quelli che vivono solo col frutto della propria terra; sempre più si accasano, in abitazioni abbandonate e fatiscenti, venditori di colore, lavoratori bielorussi, inservienti polacche. C’è qualcosa che sfugge: forse, addirittura, l’identità e l’appartenenza al vecchio borgo antico.
Un cenno a parte merita, però, il Casamale, il centro antico della città, il cuore di tutte le attività inserite nel filone della tradizione. Spesso, infatti, turisti e visitatori di passaggio pongono una cantilenante domanda: “Ma cos’è il Casamale? Ma che significa Casamale?”. Il nome Casamale, secondo un atto di locazione del 9 settembre 1011, per la terra di Castagneto in Somma (Monumenta, Tomo II, parte I, pag. 438), deriverebbe dall’antica e nobile famiglia dei Causamale: “Il giorno 9 del mese di settembre, X indizione, in Napoli. Sotto l’impero del signor nostro Alessio (Basilio), grande imperatore, anno II e di Costantino, grande imperatore, suo fratello, anno XLIX. Palumbo, di cognome Causamale, figlio del fu Giovanni, e Rogata, coniugi, abitanti in Somma, hanno dato in locazione a Stefano Russo per anni quattro e per tarì 24 una loro terra detta Castagneto posta nel luogo di Somma, con alberi ed introiti, [etc]”. Ma il nome Casamale potrebbe derivare anche da Causa Manes (il luogo degli antenati divinizzati della tradizione romana) o da Casa Mana (sinonimo di potenza) o da Casa Malax (un etrusco luogo delle offerte).
Nel 1350, quando l’esercito ungherese, prima di raggiungere Napoli, saccheggiò la terra di Somma, scoppiò negli atterriti sommesi la necessità di preservare il popoloso borgo medioevale con strutture difensive meno fatiscenti. Così un fossatello ed uno sgangherato steccato furono sostituiti da alte mura perimetrali, poi, rinforzate da re Ferrante I d’Aragona, che ebbe la consapevolezza di quanto potesse essere importante, dal punto di vista strategico-militare, la Terra di Somma. Nacque, così, il quartiere murato a difesa della cittadella. In esso si poteva accedere solo attraverso quattro porte ben sorvegliate. La difesa, poi, era assicurata attraverso le feritoie e le bocche ancora visibili in alcune delle torri semicircolari, che intervallavano la maestosa cinta muraria.
Così, oggi, il Casamale, nonostante un generale abbandono ed un sempre più palpabile decadimento, per la sua storia (unicamente per la sua storia!), riesce ancora ad imporsi all’attenzione di tutti. Nella chiesa della Collegiata, al Casamale, infatti, si conserva la statua di San Gennaro, protettore di Somma; dalla stessa chiesa parte la suggestiva processione dell’Addolorata, il venerdì santo. Nei vicoli del Casamale si accendono le lucerne; e ancora nei vicoli del borgo antico si mantiene l’usanza di dar fuoco al cippo di Sant’Antuono, ‘o fucarazzo, o di tenere sospesa –tra un balcone e l’altro- una goffa figura di donna (la quaresima), che innalzata il mercoledì delle ceneri, segna il periodo dell’astinenza e del digiuno ed il cui simbolismo liturgico termina con fuochi pirotecnici, dopo 40 giorni, in segno di liberazione e trasgressione.
A lucerne spente resterà ben poco al Casamale! Strutture fatiscenti, assenza di servizi, stradine intasate e qualcuna proprio inagibile. Eppure la festa resiste! Merito di qualche cocciuto mast’’e festa, della caparbia volontà dell’Arci, del sempre contagioso entusiasmo della gente del Casamale, della generosa e volitiva Associazione “Festa delle Lucerne”. Non è poco. Ma è pur sempre molto faticoso. Una festa di tali proporzioni e durata, anche se di popolo, non si inventa. Infatti, bisogna pensare ai permessi, bisogna badare all’informazione, bisogna assicurare servizi e ristorazione agli innumerevoli visitatori (ventimila, cinquantamila, centomila?). E, poi, bisogna mettere d’accordo un po’ tutti sui tempi di realizzazione. La festa delle lucerne di quest’anno si è celebrata alla sua scadenza quadriennale (come hanno detto gli studiosi di antropologia), come gli anni della rotazione agraria e del ciclo lunare.
E se, invece, che quadriennale la festa delle lucerne nelle sue origini fosse stata annuale? E se, invece, le chiavi di interpretazione fossero differenti? E se sul Casamale si accendessero le luci dell’attenzione non solo per le lucerne e per le altre tradizioni di cui è depositario?
Ecco, a lucerne spente, bisogna riflettere e farsi queste e, forse, molte altre domande. Per rispettare, capire, interpretare, approfondire la tradizione; per non restare ancorati solo e fermamente a un passato da ricordare; per ricevere linfa vitale dall’esperienza di chi ha vissuto prima di noi.
Passateci, comunque, una di queste sere di agosto per Somma Vesuviana. E con lucerne vivrete la malia di una notte di mezza estate che, con le zucche vuote, le gallerie di luci, con le felci e le ginestre del Somma-Vesuvio, alimenterà la curiosità di poter guardare da vicino, per esempio, gli scupeli (le granatine per pulire i vasi, dallo spagnolo escobillon), le varrecchie (i barilotti, dal francese barique o da un tardo latino barriclus), i caccavielli, i pentolini per squagliare la pece per gli innesti!
[1] Angelo Di Mauro, Le Fiabe del Vesuvio, Mondadori, 1994.