Mi piacciono i libri. Mi piace toccarli, carezzarli nella intimità delle loro pagine. E mi piace, soprattutto, l’odore dei libri. Mi inebria. Godo nel respirarlo a pieni polmoni. E, poi, quell’effluvio ha una sua precisa ed immota caratteristica, quella di essere uguale in tutti i posti in cui sono conservate le pagine stampate. È come un profumo aspro, misto a muffa, impregnato di polvere, con una certa fragranza di inchiostro o di vernice, galleggiante nell’aria, portatore di un aroma, che resta, a lungo, nelle narici e nelle stoffe degli abiti.
È un odore, quello dei libri, che mi porto appresso sin da bambino. Abitavo, allora, con i miei genitori, in una casa in fitto, insieme ad uno zio di mia madre, che, vedovo, non aveva eredi diretti. Si chiamava Enrico; aveva partecipato –ricevendo anche una medaglia e un encomio solenne- alla battaglia di Sciara Sciat, nel 1911, dove “malgrado le forti perdite subìte dal suo plotone, ne teneva efficacemente il comando non curando il pericolo”. Successivamente, aveva preso parte alla I guerra mondiale, coi gradi di Sottotenente di Fanteria e, per quest’ultima partecipazione, era stato a autorizzato, nel 1921, a fregiarsi della medaglia istituita “A Ricordo della Guerra MCMXV-MCMXVIII”; il decreto di autorizzazione, bene in vista accanto al letto dove chiuse i suoi giorni, era a firma del Ministro della Guerra, Ivanoe Bonomi.
Zio Enrico era stato anche a capo delle guardie municipali del paese. Era considerato, per i suoi coraggiosi trascorsi, alla stregua di un eroe, di un mito. Alla sua morte lasciò poche cose, tutte ereditate da mia madre: avanzi di un vecchio corredo fatto di lenzuola di cotone ed asciugamani di lino con le iniziali del nome della moglie, finemente ricamate; un paio di foto in bianco e nero di quand’era stato, appunto, a capo delle guardie municipali: una, in particolare, lo ritraeva, impettito, con ai piedi il corpo esanime di un povero lupo; le benemerenze militari già ingiallite dal tempo e tre o quattro libri, che rappresentavano la dotazione di un uomo riconosciuto istruito.
Morto zio Enrico, fummo costretti a cambiare casa. Mia madre raccolse le cose ereditate in una capiente scatola, legata con un doppio filo di spago. Io avevo poco più di cinque anni e, da uditore, stavo per entrare in un’aula di scuola elementare.
Appena, sillabando, imparai a leggere, il primo pensiero fu quello di tirar fuori dalla scatola i libri di zio Enrico, che -inutile dire- conservo, gelosamente, ancora oggi. Si trattava di una “Vita del Venerabile Servo di Dio Nunzio Sulprizio”, scritta da Raffaele Pica (sacerdote napoletano), stampata a Napoli, nella Tipografia Tizzano (via Cisterna dell’Olio, 45), nel 1893; di una “Vita di Gesù Cristo”, scritta da Antonio Cesari, stampata a Napoli, nello Stabilimento Tipografico di P. Androsio (strada Banchi Nuovi, 13), nel 1865; del III volume delle Tragedie di Euripide (Ippolito, Alcesti, Andromaca, Le Supplicanti, Ifigenia in Aulide), tradotte da Felice Bellotti, stampate a Napoli, dai Torchi del Tremater (Strada di Chiaia, 261), nel 1830; dei “Borboni di Napoli” (mancante della copertina e delle prime pagine), nella probabile edizione (è un mio azzardo), del 1862, di Alexander Dumas.
Letture troppo difficili per un bambino di prima elementare. E, infatti, non leggevo; sfogliavo solo quelle pagine, con larghe macchie d’umidità, che emanavano un odore misto tra il petrolio e la naftalina. Mi colpivano alcuni “segnalibri”: un’immagine dell’Immacolata, con l’atto di consacrazione secondo San Luigi Maria di Montfort (Roma, 23 martii 1952, imprimatur Clemente Cardinale Micara); un foglietto di carta con dei numeri scritti a penna, forse da giocare o giocati al banco lotto; un ritaglio di un giornale con un articolo sull’Istituto napoletano per la diagnosi e la cura dei tumori, a firma di Enzo Perez (accanto alla locandina del film Viva Zapata, con Marlon Brando e Jan Peters [1952]); una noticina della spesa, che accese la mia curiosità più di tutto il resto (£.74,00 prosciutto, £.13,50 pane, £.84,00 carne, £.65,00 vino, £.50,00 trasporto).
Mio padre, che è stato un operaio per tutta la vita, andava a lavorare usando i treni della Circumvesuviana. Aveva sempre qualche libro, dal contenuto poliziesco, da leggere durante il percorso che da casa lo portava al lavoro e ritorno; probabilmente, li comprava a qualche mercatino dell’usato. Appena ne finiva uno, infatti, subito quel “giallo”spariva dalla circolazione e ne compariva un altro. Però, sul suo comodino, vicino al letto, teneva bene in vista anche altri tre libri: Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta (Massimo D’Azeglio, Barion Editore, Milano, 1928), Sarah dagli occhi di smeraldo (Guido da Verona, Società Editrice Lombarda, Milano, 1932), Resurrezione (Leone Tolstoi, Lucchi Editore, Milano, 1947). Dopo qualche anno avrei trovato anche La sepolta viva e La cieca di Sorrento (Francesco Mastriani, Lucchi Editore, Milano, 1964), Umiliati e offesi (Fedor Dostojevski, Lucchi, 1962).
Ovviamente questi ultimi libri mi intricavano molto. Li guardavo, me li giravo tra le mani, me li coccolavo ma ancora non riuscivo a leggerli. Mi piacevano le copertine, che non erano cartonate ma presentavano immagini molto vivaci. Ettore Fieramosca o la Disfida di Barletta aveva una copertina bianca sulla quale era raffigurato un cavaliere medievale (mantello rosso su una corazza grigia, con elmo calato sul volto e cimiero verde), mentre col suo cavallo stava per spiccare un salto verso il mare. Resurrezione, invece, aveva una copertina a sfondo giallo sulla quale si stagliavano le figure di Katiuscia -in lacrime e con una bisaccia sulle spalle- e del principe Nekliudov col volto incorniciato dalla barba e in divisa da militare; in prospettiva il filo spinato di un campo per lavori forzati, in Siberia. Sarah dagli occhi di smeraldo aveva, invece, una copertina semplice su cui, oltre al nome dell’autore ed al titolo del romanzo, c’era disegnato un sole stilizzato, per richiamare la collana della casa editrice: “i romanzi del raggio di sole”. Le copertine dei libri di Mastriani erano più da fotoromanzo: una raffigurava il giovane medico Gaetano nell’atto di baciare la mano a un’eterea Beatrice Rionero, disegnata col vitino di vespa e la pettinatura a conocchia. L’altro, invece, illustrava -in chiaroscuro- uno spettrale ambiente cimiteriale, con una bella quanto meravigliata Eva, la garibaldina, davanti alla tomba della madre Elisa, a pregare e a parlarle della cattiveria di suo fratello Federico, il borbonico della famiglia.
Che rabbia non poter ancora a leggere quei romanzi, che costituivano il grande patrimonio in libri della mia famiglia! Ero –allora- ancora attratto dalle strisce de Il Monello (con Superbone, Pedrito el Drito, Arturo e Zoe, Teo, Nonna Nilla, Rochy Rider), da quelle del Corriere dei piccoli (con il negretto Bilbolbul, il signor Bonaventura, Marmittone e Sor Pampurio) e dalle avventure del trapper Blek Macigno (con Roddy e il Professore Occultis) e del ranger Capitan Mike (con gli inseparabili Doppio Rhum e il dottor Salasso).
Era l’ultima domenica di giugno di fine anni Cinquanta (28-6-1959), quando feci la prima comunione. Ebbi in dono, da parenti e amici, sei libri. Di uno, I promessi sposi, ne rimandavo sempre la lettura. Non l’ho mai letto, forse, nemmeno in quinta ginnasiale; anzi, l’ho odiato, perché era la fonte di un esercizio sterile di analisi comparativa –né letteraria né introspettiva- di una serie di personaggi: fra’ Cristoforo e don Abbondio, l’Innominato e don Rodrigo, Agnese e donna Prassede o la monaca di Monza. Per capirne l’importanza linguistica ed il valore storico dovetti prima lasciare i banchi di scuola. E quando lo rilessi, senza obbligo di riassunti della trama o di analisi del periodo, solo allora riuscii ad apprezzare la valenza di un’opera, certamente la più rappresentativa del Risorgimento e del Romanticismo Italiano.
Mi appassionai, invece, subito agli altri libri ricevuti in regalo, che lessi, rilessi, imparai, quasi a memoria e sognai di poter esserne, ogni volta, io il protagonista.
Alexander Dumas mi introdusse alle avventure di Robin Hood e a quelle de I Tre Moschettieri. Mi perdevo nei colori e nei suoni della foresta di Sherwood; godevo della bravura da arciere di Robin e del forte vincolo di amicizia che lo legava a Little John; mi meravigliavo, ogni volta, del sentimento d’amore cavalleresco nei confronti di Lady Marian. In fondo, ciò che mi attraeva di più di Robin Hood –prodromo della mia fede socialista per tutta la vita?- era la determinazione nella lotta ai soprusi e alle angherie, la sete di giustizia sociale nel togliere ai ricchi e dare ai poveri, la speranza che sapeva trasmettere agli ultimi della società, i più derelitti, i più sfortunati, i più umili. Con I Tre Moschettieri, invece, mi spostavo –con D’Artagnan, Athos, Porthos ed Aramis- tra la Francia e l’Inghilterra, entravo nelle trame ordite dal Cardinale Richelieu (ma ancora non capivo l’espressione: essere il Richelieu della situazione!) e da Milady de Winter, mi barcamenavo tra i segreti di Costanza Bonacieux e quelli del duca di Buckingam, oltre a quelli di Ketty e a quelli del re Luigi XIII.
Divorai, letteralmente, nell’ordine: Piccoli Uomini (di Louisa May Alcott), L’isola del tesoro (di Robert Louis Stevenson) e Il Trionfo di Kriss (di Luciana Martini).
Quando lessi il primo di quei libri, ignoravo del tutto l’esistenza di Piccole donne crescono –l’opera precedente della stessa autrice- e, di conseguenza, non conoscevo la genesi della trama né l’esistenza di alcuni dei personaggi successivamente raccontati. Tuttavia, entrai curiosamente nelle vicende della casa-scuola di Plumfield e degli allievi rispondenti al nome di Rob e Teddy, del ribelle Dan e dell’ingenuo violinista Nat.
Con L’isola del tesoro fui centomila volte Jim Hawkins, figlio dei proprietari della locanda “Ammiraglio Benbow”. Partii con Jim alla scoperta del tesoro del mitico capitano Flint, vivendo, una per una, tutte le ansie, le paure e gli scontri con i pirati dell’isola; avevo sempre nelle orecchie la canzone fischiettata dal capitano Bones: “Quindici uomini sulla cassa da morto/ oh!oh!oh!e una bottiglia di rum./Liquore e demonio fecero il resto…/ oh!oh!oh!e una bottiglia di rum”.
Infine, con Kriss (nella collana “I Libri meravigliosi dell’editore Salani”), entrai nel mondo degli indiani, di Lupo Rosso e Orso Bianco, di Mano Tenace e Bisonte Solitario, delle squaws e degli sciamani, dei tipis (le tipiche tende indiane) e dei totem, acquisendo una visione nuova e diversa dei guerrieri della prateria, molto in anticipo rispetto al tempo in cui sarebbe stata raccontata, negli anni a venire, in pellicole quali “Un uomo chiamato cavallo”, “Soldato blu”, “Balla coi lupi” o nei versi di una canzone di Fabrizio De Andrè nella quale si racconta che, per colpa di “un generale di vent’anni, occhi turchini e giacca uguale…ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek”.
Dopo aver letto i libri avuti in dono per la prima comunione –e appassionatomi ad entrare nelle pagine e ad accompagnarmi ai protagonisti delle storie- giocoforza dovetti accedere al fondo librario di casa, composto dai volumi ereditati da zio Enrico e da quelli introdotti da mio padre.
Avevo, ormai, una decina d’anni; leggevo correntemente e non avevo altre distrazioni di sorta. Gli inverni, come le estati, erano lunghi da passare. La televisione ancora non c’era e, anche quando ci sarebbe stata, sarebbe entrata, con molto ritardo, nella casa di un operaio come mio padre. Attorno a un braciere -con la doppia funzione di riscaldamento e di antico asciuga panni- o nell’angolo fresco di un giardino, mi facevano, perciò, sempre compagnia le letture dei “libri di famiglia”.
Nunzio Sulprizio era nato a Sansonesco di Teramo, negli Abruzzi; era figlio di una famiglia di modeste condizioni. Era rimasto orfano di entrambi i genitori ed era andato, per questo motivo, a vivere a casa dell’avola materna (avola, che poteva significare mai! Non possedevo ancora un vocabolario della lingua italiana). Egli – così era scritto- profitta nelle lettere e nella devozione ed è arricchito da Dio dal dono di preannunziare l’avvenire. Ogni capitolo della storia del venerabile Nunzio portava in epigrafe delle parole di una lingua, per me, incomprensibile: Ibunt de virtute in virtutem (andranno di virtù in virtù), Omnibus omnia factus sum (mi son fatto tutto per tutti). Boh!
La forzata lettura coincise con un mio improvviso misticismo infantile. Volevo diventare come Nunzio, frequentavo la Chiesa, servivo messa (con veste nera e cotta bianca), accompagnavo i morti al cimitero insieme ad altri chierichetti e, spesso, riuscivo ad accaparrarmi il privilegio di aprire il corteo innalzando una croce di metallo (da semplice chierichetto ero retribuito con cinquanta lire; da chierichetto con la croce la retribuzione saliva a cento lire).
Riuscii, in quel lontano tempo, a leggere, quasi di un fiato, un ponderoso volume di ben 290 pagine; a parte la vita di sacrifici e preghiere, i miracoli fatti da morto, il profumo che emanava la bara col corpo di Sulprizio, per il resto capii ben poco. Meno che mai, il discorso del sommo pontefice Leone XIII, posto a chiusura del libro e pronunziato dopo la lettura del decreto sulle virtù del Venerabile servo di Dio.
Venne naturale passare alla Vita di Gesù. Ma rinunciai presto: c’erano 106 ragionamenti ed un’infinità di orazioni, tra cui Sopra l’amare i nemici (Diligite inimicos vestros/amate i vostri nemici), Sopra il pericolo delle ricchezze, Sopra il vestire disonesto!
Lasciai subito anche le tragedie di Euripide. Alcesti, Andromaca, Ifigenia: chi mai potevano essere! Mia madre – che non aveva conseguito nemmeno la licenza elementare- mi disse solo che Alcesti doveva essere un uomo, sicuramente un guerriero! Degli altri nomi, che le sembravano –questi sì- di donna, non ne conosceva nessuno.
Mi trovai, così, di fronte a un bivio: continuare letture “di chiesa” o passare all’ultimo “bene di famiglia”, i Borboni di Napoli. Optai per la seconda ipotesi, dopo aver letto, superficialmente, una breve vita di san Gerardo Maiella (di cui era devotissima un’amica di mia madre, che ne conservava –in casa- anche una statua di gesso, ad altezza d’uomo) e aver imparato, quasi a memoria, la supplica alla madonna di Pompei (O augusta regina delle vittorie, o vergine sovrana del paradiso, al cui nome potente si rallegrano i cieli e tremano per terrore gli abissi…), che mia madre recitava –ogni 8 di maggio e la prima domenica di ottobre, a mezzogiorno, genuflessa davanti a una sedia, come se fosse stata piegata su un inginocchiatoio o ai piedi di un altare.
Scoprii, così, la bellezza dei Borboni di Napoli. Era un volume di oltre mille pagine, che lessi con grande piacere. Si arricchiva di sette stampe colorate (lavorate presso la litografia Armanino di Genova e che conservo ancora, tranne l’ultima strappata malamente) riproducenti: “Gennaro De Deo, in carcere, che scongiura il padre a lasciargli subire il martirio”; “Ferdinando IV e la regina Carolina travestiti da bettolieri”; “Gennaro Rivelli nell’atto di offrire le teste di madre e figlio –ambedue giacobini- al cardinale Fabrizio Ruffo”; “Alcune donne oranti che invocano il miracolo di san Gennaro”; “Gennaro Rivelli e sua moglie Luisa”; “il principe di Torella e la figlia di Saliceti salvati dal crollo del Palazzo del ministro Saliceti”; “Ferdinando IV nell’atto di ricevere l’ammiraglio Nelson”.
Appresi, da quella lettura, della vita da picaro del re Ferdinando IV e delle bravate di Gennaro Rivelli, della lussuria della regina Carolina, della passione politica (ma ignoravo molti riferimenti e rimandi) di Eleonora Pimentel Fonseca, di Vincenzo Russo (rimasi molto perplesso: aveva lo stesso nome e lo stesso cognome di un mio compagno di scuola, figlio di un macellaio, che giocava molto bene a pallone. Com’era mai possibile?) o dell’abate Galiani; di un generale Championnet capace di far sciogliere il sangue di san Gennaro, dell’eroismo di alcuni lazzari come Michele ‘o pazzo, del giuramento dei Sanfedesti e dei Calderari.
Certo, leggevo quel libro come si legge un romanzo ma mi sfuggivano un sacco di cose, un sacco di relazioni: perché un cardinale, uomo di chiesa, era a capo di un esercito? Perché re Ferdinando diceva che san Gennaro era un santo giacobino? Da che parte stava Luisa Sanfelice? Che c’entravano i Francesi con Napoli? Domande destinate a restare senza risposte. Chi me le poteva dare, d’altra parte, a casa mia!
Però, devo dire, che mi fermavo più volte a leggere alcuni versi in dialetto, di cui era pieno quel libro; mi piacevano ma non ne coglievo a pieno il senso, sia che fossero rivolti al re (Scetate maestà ch’è fatto juorno/ nu’penzà chiù a la caccia e a la figliola,/ vide che fa Monzù cu la maesta,/ pensa ch’ire ciuccio e mo’ si ciervo,/ scetate, mena ‘a mazza; si no, sì re de cuorno!) sia che fossero rivolti a sua moglie Carolina (Carulì si m’amava n’aut’anno/ quanta cose ch’avive d’ave’/nu vurzone de doppie de Spagna/ lu teneva apposta pe’ te).
In casa di zia Clelia, una sorella di mia madre, dimorava una vecchia maestra di scuola elementare, donna Lucia Ragosta. Era completamente cieca e viveva, per tutta la giornata, con i fantasmi dei suoi vecchi libri e del suo passato nascosti, forse, nella crocchia dei suoi capelli, nei suoi occhi acquosi, nelle sue vesti lunghe fino ai piedi o in un ventaglio andaluso, che maneggiava con velocità e destrezza. Donna Lucia, visto che ero arrivato alla fine della scuola elementare, sosteneva che avrei dovuto necessariamente leggere il libro “Cuore”, di cui conoscevo solo alcune delle novelle mensili (La piccola vedetta lombarda, Il piccolo scrivano fiorentino, Sangue romagnolo, Dagli Appennini alle Ande), che lei stessa raccontava ai miei cugini e a me. E fu proprio lei a regalarmi (lo aveva in casa? lo fece acquistarere da qualcuno? chissà!) una copia del libro di Edmondo De Amicis (firmata dal figlio Ugo), con la copertina azzurra e le lettere del titolo in rosso, illustrato da Bruno Angoletta ed edito da Garzanti, nel 1959.
Cominciai la lettura del libro Cuore e non la lasciai più fino a quando non giunsi all’ultima pagina. Non sapevo ancora niente dell’Unità d’Italia, dell’organizzazione scolastica all’epoca in cui regnava casa Savoia, dell’entusiasmo vissuto da (quasi tutta) una nazione monarchica. Non mi destava molta meraviglia se nella classe descritta nel diario di Enrico si parlasse dei funerali di Vittorio Emanuele II, se a ereditare il trono fosse toccato a Umberto I, se a sfiorare un volto fosse statta la carezza di un re! Tanto, a casa mia, anche in piena era repubblicana, c’era ancora tanta nostalgia per Umberto II, il re di maggio, per le avventure sentimentali della figlia Beatrice con Maurizio Arena e, forse, un poco meno, per suo nonno, Vittorio Emanuele III (re Sciaboletta), “che” -a dire dei miei familiari- “aveva tradito Mussolini!”.
Il maestro Perboni era tanto uguale al mio maestro Francesco Cozzolino, che ho avuto dalla seconda alla quinta elementare e del quale noi alunni non abbiamo mai saputo se avesse o meno famiglia. Tra i miei compagni di classe andavo, poi, alla ricerca delle comparazioni. Pietro Mosca era Garrone: era il più grande della classe, testa grossa e spalle larghe; Antonio De Falco era Votini, sempre ben vestito; Luigi Pentella era Franti, ripetente e sempre senza quaderni; Mariano Barra era Precossi, il figliuolo del fabbro ferraio (ma il papà di Mariano era maniscalco). Derossi, quello che aveva più ingegno di tutti, chi poteva essere? Ma, forse, era diviso tra Mimmo Costa, Pietro Vernillo e Franco Naddeo (tifoso sfegatato, quest’ultimo, dello svedese Kurt Hamrin [il mitico Uccellino] e della Fiorentina). Pietro Ossorio, invece, era tanto simile a Crossi: povero di famiglia, volenteroso a scuola, umile di carattere.
Dopo il romanzo di De Amicis arrivarono altri due libri a casa mia. Uno me lo regalò un’amica di mia madre: si trattava del capolavoro di Ferenc Molnàr, I ragazzi della vai Pàl (la fragilità, la malattia e la morte di Ernesto Nemecsek furono proprio uguale a quelle del mio amico Franco D’Amato, anche lui molto malato e, perciò, promosso capitano sul campo della Società dello Stucco). L’altro libro, ben più importante, lo avevo avuto in seguito a una mia richiesta. Una sera me lo aveva portato mio padre, sussurrando appena che gli avevano detto di un’edizione minore –proprio per gli alunni delle scuole medie-, ma lui aveva preferito prendermi quella grande, perché “te lo troverai se avrai voglia di continuare a studiare”. Si trattava del Vocabolario della Lingua Italiana (copertina rossa), compilato da Nicola Zingarelli ed edito dalla Zanichelli (Bologna, 1960).
“Me lo trovai”, subito, “il libro” portatomi da mio padre! Infatti, mi fece compagnia nella lettura dei romanzi di Emilio Salgari (Il corsaro nero, Le tigri di Mompracem, Jolanda la figlia del corsaro nero, I misteri della jungla nera, I pirati della Malesia), che mi schiusero al mondo delle avventure con Sandokan, Yanez De Gomera, Marianna, Tremal-Naik o Kammamuri.
Fu zio Pasquale, il marito di zia Olga, a regalarmi la prima edizione (nell’Universale Economica della Feltrinelli Editore, febbraio 1963) de Il Gattopardo. Il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, scritto fitto fitto, ricco di 187 pagine, costava 300 lire; la copertina era per un quarto –quello superiore- su sfondo bianco e la restante parte su sfondo verde. Sullo sfondo bianco era scritto, in verde, il nome dell’autore e, in nero, il titolo del romanzo. Sullo sfondo verde era disegnato, invece, un gattopardo stilizzato con la coda alta e la testa incoronata.
Zio Pasquale mi disse che quel libro stava avendo un grande successo; me lo aveva preso ma, forse, era ancora troppo presto perché io lo leggessi e ne comprendessi il valore. Ovviamente, Il Gattopardo lo lessi subito, d’un fiato (è l’unico romanzo che ho riletto, negli anni, per ben sette volte! Ogni volta una scoperta nuova, il carattere di un personaggio, una riflessione storica, una sensibilità sfuggita prima).
Quanto ho amato don Fabrizio Corbera, Principe di Salina! Ma non minor sentimento ho riposto anche in Tancredi Falconieri e in Angelica Sedàra. Un posto a parte l’ha avuto, però, un cane, l’alano Bendicò: compagno fedele e silenzioso del Principe di Salina, ha rappresentato il senso più tangibile della distruzione. È difficile dimenticare le ultime righe de Il Gattopardo, laddove Concetta – una delle figlie di don Fabrizio-, nel vuoto interiore alimentato dai ricordi, dispone che sin’anche quel cane imbalsamato sia buttato via. “Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo, quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno. Durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi, e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”.
Avevo, ormai, poco più di quindici anni ed ero alla continua ricerca di libri da leggere. Frequentavo la quinta ginnasiale; ero preoccupato di trovare una buona sintesi de I promessi sposi, tanto alla scuola interessava solo il riassunto dell’opera ed il profilo di qualche personaggio. Dopo l’Iliade e l’Odissea, che mi avevano aperto lo sguardo sul mondo della mitologia, mi piaceva leggere, nella traduzione in endecasillabi sciolti di Annibal Caro, l’Eneide di Virgilio. Vivevo in un mondo popolato di guerrieri, dei ed eroi; sfilavo accanto ad Ettore ed Achille, Ulisse e Patroclo, Aiace Telamonio e Laocoonte; mi appassionavo agli amori di Apollo e alle furberie di Giove; conoscevo a menadito le peripezie di Enea ed il valore militare di Turno o di Camilla. Sapevo, ora, anche chi mai fossero state Andromaca e Ifigenia; sapevo anche chi mai fosse stata Alcesti – ma non lo rivelai mai a mia madre- e quale sacrifico avesse sopportato, per amore del suo sposo Admeto.
La mattina, quando uscivo per andare a scuola, mia madre (ma, a sua insaputa, lo facevano anche le mie zie) mi metteva in tasca cinquanta lire: dovevano servire per comprarmi un panino (alla salumeria di fronte al liceo un panino con la mortadella costava 35 lire). Diciamo che con quelle monete mi potevo consentire qualche sfizio. Infatti, il panino non me lo compravo sempre; mi compravo, invece, ogni giorno, tre sigarette sfuse (Diana) dal tabaccaio ed un caffè allo chalet “Valle della Delizia”. Il resto dei soldi me lo conservavo, per comprarmi libri. Ricordo che nel 1965 fu dato inizio alla pubblicazione settimanale degli Oscar Mondadori. Ogni volume costava 350 lire. Il primo titolo fu Addio alle armi di Ernest Hemingway; sulla copertina, oltre ad autore e titolo, era raffigurata la faccia del protagonista del romanzo, il tenente Frederick Henry, che era, poi, quella dell’attore Rock Hudson dell’omonimo film (1957), con il berretto da ufficiale dell’esercito italiano durante la disfatta di Caporetto.
Cominciò, allora, una sorta di gara con me stesso. Il romanzo dovevo leggerlo velocemente, perché sarebbe seguito subito un altro titolo. E così, nel tempo, mi ritrovai a far la conoscenza di Mara, La ragazza di Bube (Carlo Cassola), di Metello (Vasco Pratolini), di Ginia de La bella Estate (Cesare Pavese), di Berardo Viola di Fontamara (Ignazio Silone), della Parroccola di Cristo si è fermato a Eboli (Carlo Levi), di Antonio Roquentin de La Nausea (Jean-Paul Sartre), di Laide di Un amore (Dino Buzzati), del colonnello Nicholson de Il ponte sul fiume Kwai (Pierre Boulle) e di tanti altri personaggi. Intanto, erano arrivati anche i tascabili della Garzanti mentre continuava la pubblicazione della B.U.R. (Biblioteca Universale Rizzoli). Con la Garzanti entrarono a far parte della mia conoscenza Madame Bovary (Gustave Flaubert), Moll Flanders (Daniel Defoe), La paga del soldato (Wiliam Faulkner), Un amore di Swann (Marcel Proust), Angelica (Anne e Serge Golon); con la B.U.R. arrivarono Bel-Ami (Guy de Maupassant), Il Maestro e Margherita (Michail Bulgakov), La coscienza di Zeno (Italo Svevo)… E tra i capolavori Sansoni leggevo I fratelli Karamazov e Delitto e Castigo (Fedor Dostoevskij), Le affinità elettive (J. Wolfgang Goethe), Il ritratto di Dorian Gray (Oscar Wilde), L’uomo che ride (Victor Hugo), Guerra e Pace (Lev Tolstoj), Il rosso e il nero (Stendhal).
Soffrivo di insonnia; di notte ero sempre con la luce accesa e leggevo. Mi facevano compagnia i tanti personaggi letterari, che avevo conosciuto nelle mie letture. Cominciavo ad avere una visione della letteratura un po’ diversa. Anche della letteratura italiana. Frequentavo il liceo classico e studiavamo la Storia della Letteratura Italiana sul testo di Mario Sansone (Principato Editore); io avevo acquistato i cinque volumi sulla Storia della Letteratura Italiana di Francesco Flora (Mondadori) e li avevo letti. Avevo, ormai, proprio un’altra visione dello studio della letteratura e, perciò, ero in forte difficoltà nella scuola del libro di testo! Me ne accorsi, senza avere più vie di scampo, un giorno in cui il mio professore di italiano, interrogandomi su A Luigia Pallavicini caduta da cavallo (Foscolo), mi aveva chiesto cosa mai facesse il cavallo quando si imbizzarriva (Invan presaghi i venti/ il polveroso agghiacciano/ petto e le reni ardenti/ dell’inquieto alipede,/ ed irritante il morso/ accresce impeto al corso…). Io avevo cercato risposte in immagini letterarie, nei versi del poeta. Inutile. Era stato premiato il mio compagno di banco, che, alla domanda iniziale, aveva risposto semplicemente: nitriva!
Quando si chiudevano le scuole, cominciavano le estati lunghissime, interminabili. Senza televisione, senza il miraggio di una vacanza (tranne qualche giorno al lido Rex di Portici con mio padre), senza soldi da spendere in una paninoteca, in una balera o a cavallo di un Benelli Leoncino 125. L’unico rifugio erano i libri. Con la lettura c’era un’estensione della mente; si aprivano nuovi mondi, si entrava nei sentimenti, nelle storie, nei luoghi. Si materializzavano i personaggi e diventavano compagni di viaggio. Micòl Finzi Contini fu la mia prima fidanzata; l’amai per il suo essere ebrea, per le passeggiate che mi regalava in quel parco ferrarese di cui conosceva il nome di tutti gli alberi, per le partite a tennis, per un pomeriggio da sogno passato insieme a lei nella rimessa di casa, per la fine dolorosa alla quale era stata condannata con tutti i suoi familiari.
Raffrontavo Fontamara con il mio paese e ne coglievo tutte le similitudini. Il capo del paese, che era sempre a banchetto con tutti i notabili (il parroco, il farmacista, il comandante dei vigili urbani, il medico condotto, l’uomo di coppola) e don Circostanza, quel vecchio avvocato che aveva avuto sempre il potere di persuasione sulla gente di campagna, grazie alle sue capacità mistificatorie e al suo apparire ricco di bontà nei confronti dei cafoni. Don Circostanza –come qualcuno del mio paese- era stato per il passato l’unico rappresentante votato, perché aveva fatto imparare, a tutti i fontamaresi in età di voto, a scrivere solo il suo nome, aveva mantenuto, quindi, in vita –chissà con quali imbrogli- tutti i morti, le cui famiglie, dopo ogni elezione, erano retribuite con cinque lire. “Quel vantaggioso sistema si chiamava democrazia. E grazie all’appoggio sicuro e fedele dei nostri morti, la democrazia di don Circostanza riusciva in ogni elezione vittoriosa”. Proprio come accadeva nel mio paese.
Guardavo ai tanti imprenditori, che si affacciavano nei campi dell’edilizia o della lavorazione della frutta o della meccanica e mi veniva agli occhi la figura di Annibale Doberdò. I neo industriali della mia terra, come Doberdò, avevano relazioni con i politici e con la Chiesa, con persone che battevano loro le mani e li osannavano solo perché speravano di spillare un po’ di soldi. Quanti neo industriali della mia terra, presi dalla smania di ricchezza e di successo, avevano rinnegato le proprie idee ed erano stati strappati alle abitudini delle loro origini contadine!
Pensavo al maresciallo dei carabinieri del mio paese e speravo che potesse essere mille volte come il capitano Bellodi, “che portava la divisa, perché il mestiere di servire la legge della Repubblica, e di farla rispettare, diventava ogni giorno difficile”. Quello stesso maresciallo dei carabinieri, che, ogni giorno, aveva a che fare con i don Mariano Arena, gli Zicchinetta, i commendatori Zarcone e gli stimatissimi onorevoli di un ameno paese ai piedi dello sterminator Vesevo.
In quelle lunghissime estati, sempre, mi facevano compagnia animali domestici, uccelli, lucertole ed anche un topo. Ho avuto un gatto, si chiamava Zic, che era un gran giocoliere. E, poi, ho avuto per compagni fedeli, cani che si chiamavano Gemma, Nero, Fritz (era un randagio). I cani, in particolare, mi hanno sempre appassionato. Così i miei Gemma, Nero e Fritz erano gli omologhi di Argo (il cane del costante Odisseo, che un giorno lo nutrì di sua mano prima che per Ilio sacra partisse), di Barone (in paese non era riguardato come un cane normale, ma come un essere straordinario, diverso da tutti gli altri cani, e degno di essere particolarmente onorato), di Immacolatella (per conversare con me, aveva inventato una specie di linguaggio dei muti: con la coda, con gli occhi, con le sue pose, e molte note diverse della sua voce, sapeva dirmi ogni suo pensiero; e io lo capivo) o di Buck (non era né un cane casalingo né un cane da canile. Tutto il reame era suo…pesava centoquaranta libbre).
Libro dopo libro, stavo costruendo una discreta biblioteca. C’era molta letteratura italiana, di meno quella straniera; c’erano saggi storici e pubblicazioni specialistiche. Molti di miei amici dicevano che la mia era soltanto una mania; i libri, in fondo, esclusi quei pochi che servivano per la professione (secondo l’indirizzo di una scuola di ignoranti), che valore potevano avere nella vita di un uomo?
Ma, in me era più forte la curiosità, la scoperta di nuove conoscenze, l’apprendimento di forme stilistiche, l’accrescimento lessicale. Continuavo a leggere libri, cercavo di parlarne negli ambienti che frequentavo (sempre la scuola!); ero rimasto entusiasta de Le memorie di Adriano (Marguerite Yourcenar), cercavo di pubblicizzarne la conoscenza. Non mi arresi nemmeno di fronte al sarcasmo di una mia compagna di studio, che mi disse: “ma sì, hai proprio ragione! Come si potrebbe vivere o risolvere problemi senza aver letto Le memorie di Adriano?”.
Si sa, me lo sono ripetuto mille volte, la vita è segnata dagli incontri. Ebbi la fortuna di incontrare un uomo, che mi incoraggiò ancor più ad accompagnarmi ai libri. Si trattava del preside Nino Pino. Nel 1975, Nino, per mia fortuna, era stato nominato coordinatore del corso di abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nella scuola media da me frequentato. Ricordo che il primo giorno, in un’aula della scuola media “Manzoni” al corso Vittorio Emanuele di Napoli, si era presentato con un borsone pieno di libri. Quindi, dopo aver detto brevemente di sé, aveva tirato fuori i libri, uno a uno, aveva cominciato a parlare a noi, giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendoci se mai ne avessimo letti qualcuno e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati…Poi, dal fondo del borsone estraendo gli ultimi due libri, aveva detto: “Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono il Libro rosso dei pensieri di Mao Tse Tung e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani”. Successivamente Nino ci aveva parlato più volte di don Milani e della scuola di Barbiana e non aveva mai omesso di sottolineare con la sua accattivante dizione: “Pensate, sulla porta di quella scuola c’era scritto: I care (mi interessa, mi riguarda)”.
Nino aveva un rispetto, oserei dire, sacro per i libri, sempre, in ogni occasione. Un rispetto che mi ha trasmesso uguale uguale. Il figlio Alessandro, ancora oggi, ricorda di una volta che il papà era tornato a casa con un nuovo atlante geografico e lo aveva chiamato per mostrarglielo. Il piccolo aveva lasciato i suoi giochi nel giardino; il padre, prima di fargli sfogliare l’atlante, lo aveva mandato a lavarsi le mani!
Perché le pagine di un libro, quelle pagine zeppe di parole, di concetti, di racconti, di teorie, non possono essere contaminate dalla sciatteria, dalla superficialità, dalle mani sporche. L’unico tratto “sporco” che possono sopportare è una sottolineatura, un appunto, un rimando, insomma, un qualcosa che renda vissuta la loro lettura.
Si stabiliscono sempre strane relazioni tra esseri di uguale sentire. Sarà un sesto senso, una particolare sensibilità, ma capita quasi sempre così.
Anni fa conobbi Mariarosa Savastano, una donna di grande spessore culturale e di notevoli capacità introspettive. Ci conoscemmo sul posto di lavoro e diventammo amici; anzi, confidenti, perché eravamo gli unici, in quell’ambiente, a passarci informazioni e impressioni sui libri che leggevamo. Mariarosa –che è morta nel giugno di qualche anno fa-, approssimandosi alla pensione, in occasione del Natale del 2000 mi fece trovare un testo sulla mia scrivania: Elementi di Geografia e di Storia dell’evo antico, medio e moderno per le classi superiori dei ginnasi. L’autore era Guglielmo Putz (professore nel Ginnasio cattolico di Colonia); il libro era stato stampato presso Giovanni Gnocchi, via S. Damiano, n. 32, Milano, 1878. Fra le pagine c’era un biglietto d’accompagnamento, di colore verde, vergato con una grafia dai caratteri ariosi e chiari. C’era scritto: “Uno dei pochi ricordi di casa mia che, non so per quale ragione, mi fa piacere darti. Ho seguito, come spesso, l’impulso del momento…”.
È uno dei libri più cari, che conservo, affettuosamente, tra i circa ottomila volumi di casa mia (una discreta biblioteca di cui vado orgoglioso. Perché l’ho creata io, volume per volume, romanzo per romanzo, saggio per saggio, poema per poema).
Quel libro donatomi da Mariarosa era, sì, un atto di amicizia e di stima nei miei confronti, ma era soprattutto, una testimonianza di riguardo nei confronti di un libro.
Passo gran parte della mia giornata nel mio studio, in una dignitosa biblioteca, che mi sono regalato da solo, volume per volume, autore per autore. Lì, leggo, scrivo, prendo appunti, mi incanto a guardare i dorsi e le copertine, libero la mia fantasia, mi intrattengo con gli innumerevoli personaggi che ho conosciuto. Perché, per dirla con Petrarca, “i libri dilettano profondamente, parlano, consigliano e sono congiunti a noi da una consuetudine viva e parlante”.
Ma, soprattutto, lì, nella mia dignitosa biblioteca, mi inebrio di quell’effluvio che emanano i libri e che resta, a lungo, nelle narici e nelle stoffe degli abiti.