Avevo avuto il mio primo incarico di presidenza alla scuola media “O. Bordiga” di Ponticelli; era l’anno 1988. Sostenuto dall’entusiasmo e dalla collaborazione di tanti giovani colleghi, che operavano con alunni provenienti quasi tutti dal Rione INCIS (una zona a forte rischio sociale; io stesso avevo avuto in classe un fratello di una delle due bambine uccise dal cosiddetto mostro di Ponticelli), organizzai un convegno sui temi della legalità. Invitai a relazionare l’allora Provveditore agli Studi di Napoli Pasquale Capo, il professore Amato Lamberti ed il vescovo di Acerra don Riboldi. Dei tre non conoscevo personalmente il solo don Riboldi. Allora, mi misi in auto, raggiunsi il palazzo della diocesi di Acerra, bussai e chiesi di parlare con il vescovo. Non avevo alcuno appuntamento, fui subito ricevuto e con molta cortesia. Non dovetti dire molto; don Riboldi sarebbe stato presente a Ponticelli.
Il pomeriggio del 3 giugno – giorno del convegno- tornai di nuovo ad Acerra; il vescovo salì in macchina con me; tenne un’amabile conversazione mentre due auto della polizia ci scortavano fino alla palestra della scuola dove si sarebbe tenuto l’incontro. Fu un bellissimo pomeriggio di cultura.
L’anno successivo, più o meno nello stesso periodo, invitai don Riboldi a presentare un mio libro: Razzismo, oltre il colore della pelle (Mursia, 1989). Con il prelato ci sarebbero stati Antonio Pizzinato (segretario generale CGIL), Francesco De Martino (che fu, poi, impossibilitato a partecipare per la morte della moglie) e Sergio Piro (il padre della psichiatria napoletana e italiana).
In una stagione di grande tensione morale e culturale, don Riboldi era presente dovunque si tentasse di costruire un argine all’illegalità o di battere sentieri di confronto fruttifero tra le persone. Non per caso il documento dei vescovi campani del 1982, Per amore del mio popolo non tacerò, di cui egli era stato uno dei massimi estensori, era divenuto, in quel periodo, quasi un testo di studio per politici, amministratori, uomini di fede e di cultura.
Nel mese di ottobre del 1993, mentre avevo l’onore di reggere l’assessorato alla cultura della città di Somma Vesuviana, riuscii a portare nell’allora cinema Arlecchino, con una presenza strabocchevole di giovani, il vescovo di Acerra insieme al giudice Antonino Caponnetto. Fu un pomeriggio di grande fascino culturale e di profondo impegno civile. Caponnetto e don Riboldi, i due simboli viventi della legalità (erano appena stati uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) furono stretti in una morsa di affetto, curiosità ed ammirazione. Anche quando le sirene della scorta decretarono la fine della manifestazione, gruppi di cittadini non si decidevano a lasciare il cinema. Molti stringevano tra le mani il libro di Caponnetto (I miei giorni a Palermo, Garzanti, 1992) o quello di don Riboldi (Non posso tacere, il sud non è l’inferno, Rusconi, 1993).
Il 15 novembre 1995, mentre ero impegnato in un corso di formazione presso la scuola media Don Bosco di Auletta (Sa), fui raggiunto da una telefonata (su un cellulare, che all’epoca era rozzo e ingombrante, quasi una radio ricetrasmittente!). La chiamata arrivava dalla sede del Municipio di Somma; era stato ammazzato il piccolo Giacchino Costanzo, appena tre anni, in un agguato di camorra in cui era caduto anche un suo zio, il vero bersaglio degli assassini. Sia Amato Lamberti – che da un anno era diventato Presidente della Provincia – che don Riboldi si stavano portando a Somma. E, se ricordo bene, assicurarono anche la loro presenza alla seduta straordinaria del consiglio comunale convocato per il grave fatto di sangue.
Seguirono altri incontri. Ogni volta che si testimoniava di cultura della legalità, c’erano sempre Lamberti e Riboldi. Ed io che ero amico del Presidente della Provincia, spesso ero presente alle loro profonde riflessioni.
Don Antonio Riboldi aveva occhi intensi, che guardavano ben oltre il punto della messa a fuoco; parlava le parole semplici di chi sa andare diritto al cuore delle persone; aveva i sentimenti profondi, che sapevano aprire ogni strada alla speranza. Era veramente una bella persona, in tutti i sensi. Immaginato senza clericeman sarebbe stato uguale ad un attore americano dei film in bianco e nero. Sarà per questo che ricordo un suo vezzo, un suo piccolo peccato di vanità. Una volta gli dissero, in una delle tante manifestazioni a cui partecipava, che stavano per intervistarlo ad una televisione. Allora lui tirò fuori un pettinino e dette un tocco d’ordine ai suoi capelli ondulati. Poi, andò verso la telecamera.
Buon viaggio don Antonio.