Mia madre cominciava a ripeterlo, come un ritornello, subito dopo il 13 giugno; cioè subito dopo la ricorrenza di Sant’Antonio di Padova. Sì, perché poteva aver fatto anche un caldo equatoriale a maggio o agli inizi di giugno, per lei l’estate cominciava con il giorno in cui la Chiesa ricordava il santo patrono del Portogallo e del Brasile. Ed allora si liberava della maglia intima –quella di lana di pecora- a vantaggio di una maglietta di filo con bretelle che lasciavano le spalle scoperte; si liberava anche delle calze, che non erano autoreggenti, che erano estranee a una inimmaginabile giarrettiera, che si tenevano sospese con un elastico doppio poco sopra l’incavo del ginocchio. Un vecchio medico del mio paese, il dottore Tremolati, abituato ad esaltarsi per ogni piccola acquisizione professionale, avrebbe detto che mia madre si reggeva le calze con un elastico sino al cavo popliteo; ma lei non avrebbe capito niente; però, avrebbe guardato con ammirazione quel dottore!
Intanto non si liberava delle calze elastiche (comprate solo da Flaùto, un negozio specializzato, nei pressi della Galleria Umberto di Napoli), quelle a compressione graduata, che continuavano a fasciarle le gambe, diventate con l’età, all’altezza dei polpacci, due grumi di vene varicose. Il 13 di giugno, poi, faceva anche il cambio di scarpe. Metteva a posto quelle chiuse e preparava quelle aperte, che erano degli zoccoli con la fibbia, con mezzo tacco, di colore beige, perché il beige va bene sotto tutte le tinte.
E dal 13 giugno cominciava a ripetere, ogni giorno, che bisognava fissare quando fare le bottiglie e i materassi.
Fare le bottiglie significava procedere alla provvista di pomodori per tutto l’inverno ed anche oltre. Per prima cosa mia madre concordava i tempi con Giovanni, l’ortolano, che, dopo aver caricato il suo carretto, veniva ogni giorno a vendere i prodotti della sua terra palustre. Ed era, perciò, per tutti, Giovanni il padulano.
I tempi dovevano essere quelli in cui i pomodori erano molto maturi, polposi, quasi sanguigni. E non si doveva andare oltre la fine di agosto. Perché, all’epoca, la fine di agosto, dopo al massimo qualche giornata al mare intorno ai giorni dell’Assunta, segnava la fine dell’estate. Infatti, mia madre, con un’espressione abbastanza colorita ma efficiente, sentenziava che bisogna fare le bottiglie, prima che si rompono i tempi. Perché, secondo le sue personali previsioni meteorologiche, alla fine d’agosto cominciavano le piogge e, poi, ripeteva spesso che austo è cap’’e vierno, bisognava fare, perciò, come avrebbe cantato, poi, De Gregori, il sugo per quando viene Natale. Perché farlo dopo avrebbe significato imbottigliare il sugo di pomodori spaccati dall’acqua, che non avrebbero retto alla bollitura nei grandi bidoni o sarebbero andate subito a male.
Giovanni il padulano, mentre scaricava le cassette di pomodori, approfittava per mettere il sacco di biada al collo del suo cavallo. Era un bel cavallo pezzato bianco e nero, paziente, con la coda continuamente in movimento, per scacciare le mosche.
Erano sempre, più o meno, due quintali di pomodori. Mia madre faceva scaricare i pomodori su un lenzuolo, che aveva steso a terra. Poi, appena Giovanni il padulano andava via, cominciava la prima parte del rituale.
Per prima cosa bisognava scegliere i pomodori; bisognava, cioè, fare un’operazione di separazione tra i pomodori molto maturi e già un po’ molli, quelli più duri e quelli spaccati nella ressa della raccolta o del trasporto.
Dopodiché, veniva la cosa che mi piaceva di più. Cominciava il lavaggio. Con cura si prendevano con ampie manate i pomodori e si versavano in una bagnarola piena d’acqua. Si frizionavano leggermente, si pulivano dalla polvere e si versavano in un’altra bagnarola piena d’acqua, per un bagno successivo. Poi, si mettevano su una rete a scorrere – a far colare l’acqua- e, quindi, ad asciugare.
Precedentemente le stesse bagnarole erano servite per lavare le bottiglie. Durante l’anno precedente, man mano che si svuotavano del sugo, erano state lavate e portate in cantina o in un ripostiglio. Mia madre le copriva anche con una vecchia coperta. Però la polvere entrava dovunque. Allora, per la nuova annata le bottiglie venivano poggiate in una prima bagnarola per una lavata generale; poi, venivano sciacquate -una per una- con la pompa dell’acqua infilata nei colli, per eliminare ogni residuo di polvere. Era bellissimo; si facevano continue docce. A me la pompa la cedevano solo quando gli adulti si attardavano con degli spazzolini infilati nel ventre delle bottiglie, per togliere qualche residua incrostazione.
Quando ogni bottiglia era praticamente trasparente, veniva poggiata capovolta –in un’altra bagnarola o, comunque in uno spazioso recipiente- a gocciolare, fino a formare una piramide di vetro. Ma tutte pronte all’uso, come soldati ad una parata. Alcune volte, in verità, ero chiamato, in questa fase, a un compito di attenta selezione: da una parte le bottiglie con la chiusura con i tappi di sughero, dall’altra quelle con i tappi di metallo.
La mattina successiva la sveglia suonava all’alba. Contemporaneamente arrivavano le sorelle di mia madre (zia Olga e zia Clelia), che, dopo aver preso il primo caffè, si cambiavano d’abito ed indossavano vecchi e lunghi camicioni adatti a proteggere tutta la persona da schizzi di sugo e da semi di pomodori volanti. Quindi si avviava la catena di lavoro. Uno macinava i pomodori, un altro riempiva le bottiglie –poste su un tavolo in ordine di grandezza e dentro le quali era già stata messa una foglia di basilico- col sugo raccolto in una capiente bacinella. Uno provvedeva a tappare le bottiglie (quelle col sughero richiedevano una complicata legatura con lo spago; quelle col tappo, invece, passavano sotto la morsa di un braccio meccanico, azionato dalla signora dei tappi), un altro cominciava a sistemarle in un bidone sotto il quale, dopo averlo colmato d’acqua, sarebbe stato appiccato il fuoco, che, lentamente, l’avrebbe portato ad una lunga bollitura. Intanto mia madre faceva la spola tra la cucina e il momentaneo opificio conserviero; distribuiva tazze di caffè, pacchetti di pavesini, fette di pane con l’olio; e preparava il pranzo per fine lavoro, che sarebbe stato ricco di maccheroni al forno, polpette e peperoni arrostiti (arrecanati) sulla brace che ardeva sotto i bidoni.
A mio padre toccava la responsabilità di appiccare il fuoco sotto il bidone, di tenere la fiamma costante e di stabilire, dal momento in cui l’acqua cominciava a bollire, per quanto tempo bisognava ancora alimentare il fuoco. Non esisteva un tempo stabilito; era tutto basato su un tempo empirico; il tempo che serviva alle patate per cuocersi su un altro lato della brace sotto il bidone. Se, poi, il fuochista fosse stato all’altezza del compito affidatogli, si sarebbe saputo solo il giorno dopo, quando si estraevano le bottiglie dal bidone. Una bottiglia con tracce di acqua era colpa di una cattiva tappatura; una bottiglia rotta era colpa di mio padre, il fuochista che non aveva saputo alimentare costantemente le fiamme.
Mio padre mi chiedeva solo di aiutarlo a prendere la legna; non mi permetteva di intervenire. Diceva soltanto guarda e impara. Poi, in un agosto di tanti anni fa, disse: l’anno prossimo te la vedrai da solo. E così fu. Negli anni che gli restarono non volle proprio saperne più del sugo, delle bottiglie e della loro bollitura. E, forse, non volle sapere più niente di niente.
Fare i materassi, invece, non mi piaceva proprio. E ogni volta –cioè una volta l’anno- mia madre si industriava per quest’ultima incombenza di mezza estate, cercavo di tenermene abbastanza distante. Ma senza successo.
Il letto matrimoniale era formato da due coppie di materassi ripieni di lana. Anche i cuscini (che mia madre usava a coppie, perché sosteneva che la testa dovesse essere rialzata rispetto al corpo. Ma, secondo me, era solo alla ricerca di un inutile artificio per evitare di russare) erano gonfi di lana. La prima operazione consisteva nello svuotamento di una coppia di materassi. Le federe bianche venivano lavate e messe ad asciugare in terrazza. La lana, invece, veniva raccolta in un lenzuolo e calata in acqua fredda, per evitare l’infeltrimento. Poi, veniva messa ad asciugare sul pavimento della terrazza (stando attenti alle giornate di vento). Quindi, con una pazienza certosina, in compagnia di mia madre e di zia Olga, ero sottoposto alla tortura dell’allargamento della lana. Che consisteva nel prendere i riccioli, uno per uno, e distenderli, evitando la formazione di nodi. Il giorno dopo, poi, l’intervento del cardatore metteva fine a tutta l’operazione.
Il cardatore, che arrivava da un paese vicino a bordo di una vecchia Lambretta dal colore indefinito, era un omino piccolo, calvo, che arrivava con un arnese simile un piccolo dondolo, costituito da una parte –fissa- concava e da una –mobile- convessa che si soprapponeva e combaciava. Le due parti erano irte di chiodi, simili a spazzole per cani. Io porgevo al cardatore manciate di lana e lui, dopo aver riempito la parte concava, con movimento sincrono ed oscillatorio, le restituiva soffici e prive di ogni impurità. Zia Olga, intanto, mentre mia madre era intenta a preparare il caffè per il cardatore, riempiva di lana appena cardata la pancia vuota del materasso poggiato su un tavolo appositamente preparato.
Quando il cardatore andava via, si procedeva a ricucire la pancia del materasso, che, appariva –nonostante zia Olga avesse tentato di distribuire la lana in tutti gli angoli- gonfia come quella di una partoriente. Successive manate erano, perciò, necessarie a fare afflosciare l’interno del materasso. Poi, calava improvvisamente il silenzio; zia Olga inforcava gli occhiali, mia madre si avvicinava con una scatola di aghi e fettucce. In quel momento apparivano come un chirurgo e il suo assistente. Infatti, mia madre infilava l’ago saccarale o anche sacculare –non aveva niente a che vedere col nervo sacculo; era chiamato così perché era lungo, doppio ed in grado di passare da parte a parte i sacchi- e formava sei piccole anse, che davano di nuovo forma al materasso.
Anche per il rito dei materassi era previsto un pranzo di gruppo, ma non era ricco ed abbondante come quello preparato per i pomodori. Non partecipava mio padre, che aveva finito le sue ferie ed era tornato a lavorare nella fabbrica di cartucce; non partecipava zia Clelia né i miei cugini.
Intanto, era passata oltre la metà dell’estate. In casa, ora, c’era un poco più di tranquillità. Ma già mia madre cominciava a dire che bisognava prepararsi per l’apertura della scuola, anche se l’1 ottobre era ancora lontano, mentre più prossima era la data della festa patronale in onore di san Gennaro.
Anche la preparazione della festa patronale era un rito. A fine agosto la ditta incaricata dell’allestimento scaricava lunghi pali di colore azzurro, che, posti a distanze convenute l’uno dall’altro, costituivano un’infinita serie di coppie parallele, pronte a reggere l’arco delle luminarie. Mi piaceva molto guardare quegli uomini, che, su scale altissime, fissavano i pali con fili di ferro, montavano le luci e provavano l’attacco per l’energia elettrica. E così, già qualche giorno prima del 19 settembre, giorno in cui si festeggiava san Gennaro, si cominciava a respirare aria di festa. In attesa che montassero le tende per i venditori di torrone, le bancarelle dei giocattoli, il tavolo del tirassegno. E arrivassero le bande di musica, per il giro per le strade ed il concerto in piazza.
Mia madre, invece, aveva altro per la testa: stava per riaprire la scuola ed io avevo bisogno di pantaloni lunghi di flanella e di scarpe con la crepe. A un nuovo maglione di lana ci pensava zia Olga, che quelle mani non riusciva a tenerle mai ferme: la coperta all’uncinetto con filo di cotone pescatore, i ferri per una maglia a rovescio, la piega della gonna da ribattere sotto la macchina Singer.
Don Antonio Iervolino vendeva i pantaloni di flanella; al negozio di don Peppe De Falco, invece, si potevano trovare le scarpe con la crepe.
Io mi entusiasmavo a quei nuovi acquisti, anche se si era all’inizio di settembre e faceva ancora molto caldo. Però mia madre sosteneva che ad ottobre “si rompevano i tempi”, pioveva e faceva freddo. E, cosi, anche col caldo autunnale –se non proprio estivo- il primo ottobre mi toccava andare a scuola con i pantaloni di flanella e con le scarpe con la crepe. Ed il maglione di lana. Sudavo. Ma restavo, fiducioso, in attesa della pioggia e del freddo!
L’aveva detto mia madre ed era diventato, perciò, un rito.