Antonio Caldoro (1924-2015) abitava sulla collina del Vomero, proprio nei pressi di un’uscita della Tangenziale, dove era impresa ardua trovare un parcheggio. La prima volta che ci incontrammo a casa sua, era un giorno di novembre di oltre dieci anni fa. Egli scese ad aprirmi il cancello e mi permise di lasciare l’auto all’interno del palazzo. Era in perfetta forma, dimagrito rispetto a come lo ritraevano le foto sui giornali, con una maglietta blu a giro collo, con i suoi ottant’anni splendidamente portati.
Caldoro, che era nato a Campobasso, era stato funzionario delle Ferrovie dello Stato e, da ultimo, aveva fatto parte anche del consiglio d’amministrazione. Era stato consigliere comunale a Napoli dal 1953 al 1964, era stato segretario della Federazione, deputato sin dal 1968, membro del Comitato Centrale e della Direzione Nazionale del PSI. Era un amabile conversatore e nel tempo in cui stemmo insieme, raccontò pezzi di storia socialista vissuti in prima linea. Ed ogni tanto dalle sue parole emergeva l’orgoglio di essere il padre di Stefano, “che è più bravo di me; a 45 anni, l’età in cui io fui eletto per la prima volta al parlamento, lui è già ministro!”. I suoi ricordi erano ricchi di politica, di personaggi incontrati, di battaglie intraprese, di episodi anche sapidi, a cui la sua simpatia molisana non riesciva a rinunciare: “La parte di De Vita, nel film “Le mani sulla città”, quella interpretata da Carlo Fermariello, il regista Rosi la voleva dare a me, ma, a quel tempo, ero troppo grasso e non se ne fece niente”.
Allora, Antonio, parliamo degli inizi della tua attività politica?
- Mi iscrissi giovanissimo, nel 1944, al partito socialista a Campobasso. Lo stesso anno in cui vinsi un concorso alle Ferrovie dello Stato e fui destinato come, “alunno d’ordine”, alla stazione centrale di Napoli, dove, in rappresentanza dei socialisti, divenni subito membro dell’allora commissione interna. Nel 1948, poi, in occasione dello sciopero proclamato contro l’attentato a Togliatti, diventai, per un curioso episodio, vicesegretario provinciale dei ferrovieri.
- E qual è questo episodio?
- Proprio in quei giorni noi ferrovieri, per protestare contro gli stipendi da fame, avevamo in preparazione uno sciopero economico. Da parte dei dirigenti comunisti ci fu, però, una posizione ambigua, perché confusero lo sciopero già proclamato con quello contro il criminale atto del Pallante. Allora, noi chiedemmo chiarezza, facendo sapere che le motivazioni di protesta non potevano sovrapporsi, altrimenti saremmo stati costretti a differenziarci. Una tempestosa assemblea col segretario generale –allora, era Gnuti, già sindaco di Bologna nell’era prefascista- stabilì di rinviare lo sciopero economico. Successivamente, chiedemmo un chiarimento anche a livello nazionale, in seguito al quale il vicesegretario socialista di Napoli, Vincenzo De Blasio, fu chiamato a Roma, alla direzione del sindacato nazionale dei ferrovieri. Così io presi il posto di De Blasio, a Napoli, insieme a Ruffini (rappresentante dei repubblicani) e Loffredo (in rappresentanza del PCI).
- Ci fu, poi, un’evoluzione nella linea del sindacato?
- Sì; noi socialisti cominciammo ad avere un peso sempre maggiore nel sindacato e, in occasione del congresso, ci presentammo –una sorta di eresia, per l’epoca in cui avvenivano i fatti- con una lista separata da quella comunista. Prendemmo più voti ed io diventai prima segretario provinciale e, poi, regionale del sindacato ferrovieri. Devo dire che fu Fernando Santi ad incoraggiarci a fare la scelta delle liste separate; egli, infatti, disse: “visto che non vi vogliono riconoscere, visto che avete i numeri e la forza, andate avanti per conto vostro”.
- Dopo essere stato consigliere comunale a Gragnano (era un percorso obbligato quello dei dirigenti, che dovevano fare esperienza amministrativa nei piccoli centri), hai conquistato lo scranno della Sala dei Baroni. Cosa racconti della tua presenza nel consiglio comunale di Napoli?
- Devo dire che avevamo, in Federazione, la guida illuminata e preziosa di Luigi Buccico; in consiglio comunale –dove eravamo in tre, Porzio, Lezzi ed io- portammo avanti una seria battaglia contro Lauro e la speculazione edilizia. Tant’è che in un suo articolo, Giovanni Ansaldo, il direttore de “Il Mattino”, non poté fare a meno di lodare la battaglia socialista in consiglio comunale. Avemmo molti successi ma non tanti, però, da bloccare il saccheggio edilizio a cui fu sottoposta Napoli.
- I rapporti con Lauro sono stati sempre conflittuali?
- No, in occasione della prima[1] e della seconda[2] legge per Napoli, non ci opponemmo e partecipammo, propositivamente, alla discussione. Ciò anche a dimostrazione che i socialisti non assumevano mai posizioni pregiudizialmente settarie.
- E la città di Napoli come rispondeva a questa politica amministrativa del PSI?
- Devo dire bene. I consigli comunali erano seguiti dal popolo. Nell’aula consiliare c’era spesso anche Francesco Rosi, che tradusse, in “Le mani sulla città”, la battaglia che noi socialisti conducemmo contro la speculazione edilizia. Il partito, poi, cresceva e si conquistava larghe fette di borghesia e di intellettuali, consentendoci di uscire fuori dall’appoggio solo del sindacalismo e dell’operaismo socialista. Ricordo che in un manifesto, a conferma di quanto ho appena detto, lo stesso Rosi e Raffaele La Capria garantirono il loro appoggio alla linea politica del PSI.
- La tua posizione all’interno della geografia politica del partito quale era?
- Cosa vuoi, all’epoca noi giovani eravamo tutti nenniani dentro ma morandiani nei fatti. Se non ci fosse, stato, infatti, la tenacia di Rodolfo Morandi, che aveva riorganizzato il partito e, con Nenni, aveva dato impulso alla politica di autonomia socialista, saremmo stati sicuramente destinati alla scomparsa e portati alla fusione col PCI.
- Ma i rapporti con il partito comunista napoletano com’erano?
- Finché c’è stato alla segreteria un uomo come Giorgio Napolitano, i rapporti erano buoni e cordiali. Poi, cominciarono ad essere tesi, non tanto per motivi ideologici quanto per motivi politici, che vedevano la crescita elettorale del PSI e l’avvicinamento di strati sempre più folti della borghesia intellettuale di Napoli. Alla difesa della tradizione storica comunista dell’ILVA di Bagnoli e dei caschi gialli, noi operavamo con progetti e collaborazioni di eccelsi professionisti. Così contro l’opposizione preconcetta del PCI, noi avviammo l’impostazione progettuale della Tangenziale, della Metropolitana (realizzatasi, poi, col sostegno del sindaco Valenzi), del Centro Direzionale o del CIS di Nola.
- Sai che a Napoli ti è riconosciuta l’etichetta di storico avversario di Francesco De Martino?
- Sì, ma sono solo favole metropolitane. Eravamo su posizioni politiche diverse, ma c’è stata una stima di fondo innegabile. Francesco era un uomo di grande preparazione ed un politico di grande spessore; io, d’altra parte, diventai segretario della Federazione perché lo volle De Martino. Poi, cominciammo a prendere strade diverse: io ero per una fusione immediata con i socialdemocratici, lui pensava a tempi più lunghi; io ero più autonomista, lui sosteneva più un percorso di unità della sinistra. E, devo riconoscere, che spesso aveva ragione Francesco; la fusione con i socialdemocratici, per esempio, non era matura né si poteva sancire firmando un documento, che riconosceva due segretari nazionali (lo stesso De Martino e Mario Tanassi) e univa i due direttivi nelle varie Federazioni.
- Quale altro personaggio del partito socialista ti ha segnato di più?
- Ma, non so, penso Bettino Craxi e Giacomo Mancini. Oltre, naturalmente, a Pietro Nenni. Ricordo di Pietro, per esempio, la reazione che ebbe al rapimento di Guido De Martino. Craxi ed io, nella notte, avevamo raggiunto casa del Professore a Napoli, poi, avevamo fatto un’assemblea in Federazione. Sulla strada del ritorno ci fermammo a Formia, dove Nenni e la figlia Giuliana ci aspettavano per la colazione. Non ci fece nemmeno entrare e ci tempestò di domande. Bettino raccontò anche di sospetti che il questore Colombo avanzava circa una possibile ispirazione al sequestro all’interno del partito stesso. Allora Nenni lapidario disse: ”C’è lo zampino dei servizi non del partito. Come fecero con me la volta scorsa, ora lo fanno con Francesco. Non vogliono nemmeno De Martino come presidente della Repubblica”.
Nel corso degli anni mi sono sentito frequentemente con Antonio Caldoro: per una ricerca sui socialisti a Napoli, per una testimonianza su Gaetano Arfé o per qualche sua curiosità. In uno degli ultimi incontri avuti a casa sua mi aveva fatto dono anche di una fotografia, in bianco e nero, che aveva sul tavolo da lavoro e che io guardavo con molto interesse: ritraeva un momento di un Comitato Centrale del Psi del 1969 con Francesco De Martino in primo piano, Pietro Lezzi accanto nell’atto di scrivere, Giacomo Mancini in camicia a mezze maniche e bretelle e lo stesso Caldoro alle loro spalle.
In occasione della pubblicazione di un suo libro –Frammenti di memoria (non è un’autobiografia, sono testimonianze sparse che vanno dal 1944 al 2013), edito da il Denaro Libri nel 2013- Antonio Caldoro mi telefonò per dirmi che mi avrebbe fatto trovare una copia alla portineria del Palazzo della Regione, al Centro Direzionale. Era una mattina di inizio primavera. Ci andai di corsa. Mi aveva scritto anche una dedica molto affettuosa.
[1] Si riferiva allo schema di legge speciale per Napoli predisposto da una apposita commissione consiliare ed approvato all’unanimità dal consiglio comunale del 24 luglio 1950 e fatta propria dai senatori socialisti Porzio e Labriola.
[2] Si riferiva alla legge speciale per Napoli promulgata dal governo il 9 aprile 1953, n.297, che consentiva l’utilizzazione delle somme stanziate tramite la Cassa per il Mezzogiorno.