La telefonata arrivò poco prima delle sei del mattino di quel giovedì 13 settembre; fu mia moglie a rispondere. Io rimasi immobile, a letto, aspettando di conoscere la brutta notizia, sempre annunciata da un improvviso trillo, che ti sorprende nel cuore della notte o all’alba di un nuovo giorno. Poi, mia moglie tornò a letto, senza parlare, nonostante il mio sguardo interrogatorio. Dopo qualche attimo, disse soltanto: “Era Pia”. Con la bocca secca, appena riuscii a biascicare: “Ho capito…Gaetano!”.
Negli ultimi mesi, spesso, avevo temuto di riceverla quella telefonata; ma, quando arrivò davvero, fu comunque una amara sorpresa. Gaetano stava male e lo sapevo. Giusto una settimana prima, ero stato l’ultima volta a casa sua. Lo avevo trovato molto sofferente, stanco, di un pallore unico e con dei larghi ematomi sulle mani e sulle braccia sventrate dalla difficile ricerca di una vena per una flebo. Mi era venuto incontro appoggiandosi –curvandosi, direi meglio- pesantemente sul bastone. Ci eravamo salutati, abbracciandoci, ed io gli avevo offerto il vassoio con i pasticcetti, ancora caldi, che gli avevo portato da Somma Vesuviana. Sapevo di fargli piacere, come quando mi presentavo con la pastiera o, quand’era il tempo, con le albicocche del monte Somma. Sempre gli ridevano gli occhi e diceva: “Grazie, ti ringrazio molto, mi stai facendo ritrovare gli antichi sapori del mio piccolo mondo antico”. E, poi, passando il pacchetto a Nelly –la fedele donna di servizio, affettuosa più di una persona di famiglia- ammiccando, aggiungeva: “L’hai resa felice. Lei è molto ghiotta; ora non resisterà ed andrà subito a provarne un pezzo”.
Ci eravamo, poi, andati a sedere nel salone con vista su uno spicchio di via Crispi, sulle due vecchie poltrone, nella solita posizione, uno di fronte all’altro. Intorno, c’erano libri, pacchi, posta, scatole di medicine. Gaetano aveva tentato di accendersi una sigaretta, ma l’accendino non funzionava. Poi, ne aveva scovato un altro e aveva cominciato avidamente ad aspirare il fumo, nonostante fosse interrotto da una malefica tosse. Avevamo parlato a lungo. Di tante cose. Di Somma, di alcune nostre comuni conoscenze, della situazione politica che si andava delineando nel Paese, del costituendo Partito Democratico, della solitudine delle persone perbene, del brutto momento che stava attraversando la città di Napoli.
C’era stata una breve interruzione solo quando aveva fatto irruzione Nelly, col suo accento strascicante e scarso uso delle doppie: “Scusi profesore…nonno deve prendere medicine…nonno, ti lascio altra pilloletta, non prendere tutt’insieme”.
Aveva squillato il telefono; era Maria Teresa, che Gaetano rassicurò circa la sua salute, dicendole che si sentiva meglio e che stava facendo una chiacchierata con me.
Quando avevamo ripreso la chiacchierata, egli disse che doveva trovare il modo di tornare a San Donato, in Maremma, perché c’erano da mettere a posto ancora alcune carte e da inviare altri pacchi di libri alla Fondazione “Turati” di Firenze. Poi, come inseguendo un pensiero, aggiunse: “Perché non ti metti a lavorare ad una ricerca sul rapporto di influenza reciproca tra l’Istituto Croce e la vita cittadina napoletana?”. Risposi: “Sì. A patto che tu mi aiuti e mi segua”. Disse: “Va bene”.
Quando stavo per andarmene, volle per forza accompagnarmi fino alla porta. Si reggeva con una mano al bastone e con un’altra al mio braccio. Mi trattenne davanti ad uno scaffale di libri. Me ne indicò uno con la copertina rossa, un po’ corrosa e mi chiese di prenderlo, sfogliarlo, guardare la data di stampa: “1878” (se ricordo bene). Mentre lo riponevo al suo posto, disse: “I libri sono stati la tragedia della mia vita!”. Si fermò sull’uscio, come sempre. Ci abbracciammo; ci stringemmo a lungo le mani; ci promettemmo di rivederci presto; mi raccomandò di salutare mia moglie e mia figlia, aggiungendo:”Devo mandare un pensiero a tua figlia”. Io gli dissi: “Non ti preoccupare, basta la tua amicizia”. Ed egli ancora: “L’amicizia è fatta anche di queste attenzioni”.
Restò –come sua abitudine- dietro la porta socchiusa ad aspettare che l’ascensore mi riportasse al piano terra. È l’ultima immagine che ho di Gaetano in vita.
Di Arfé si era sempre parlato molto a casa mia. Mia madre, infatti, era stata sua compagna di scuola alle elementari; mio padre, invece, al ritorno dalla guerra e dai suoi anni di prigionia, si era iscritto alla sezione del PSI, dove aveva conosciuto il giovane militante socialista, figlio di Raffaele e Maddalena Maffezzoli. Spesso, perciò, i ricordi e le parole dei miei genitori mi avevano precocemente introdotto nell’infanzia di Gaetano, nel mondo delle sue scelte politiche e culturali.
Ero cresciuto con la curiosità di conoscere personalmente Gaetano. E l’incontro era avvenuto, dopo una serie di contatti telefonici, una sera di oltre venti anni fa. Egli era stato invitato a tenere una conversazione con i suoi concittadini, in occasione della caratteristica e tradizionale festa delle lucerne. Io, allora, mi ero preoccupato di andarlo a prendere, con la mia macchina, alla stazione centrale di Napoli, di accompagnarlo a Somma Vesuviana, quindi, all’albergo Il Quadrifoglio di Pomigliano d’Arco dove pernottò e, poi, di riportarlo di nuovo alla stazione di Napoli, da dove sarebbe ripartito per Roma. In quelle poche ore, che eravamo stati insieme, si era stabilito un immediato rapporto di simpatia ed amicizia.
Dopo quell’occasione cominciammo a sentirci più frequentemente e, talvolta, ad incontrarci anche. Lo invitai a Somma, dove tornava sempre con immenso piacere, in varie occasioni pubbliche. Qualche volta, quando gli impegni glielo permettevano, si fermava anche a colazione. Gli piaceva ritornare a Santa Maria a Castello, luogo situato nel cuore del monte Somma; gli piaceva ripercorrere i passi di un’antica trattoria –ora trasformata in elegante ristorante con piscina- di cui aveva conosciuto il proprietario, Ciro ‘a pupatella. Poi, con lo sguardo rivolto alla cima del monte ricordava, con commozione, Ninuccio, un suo vecchio amico, morto, tanti anni addietro, per una rovinosa caduta in un valloncello. Subito dopo si preoccupava di chiedere notizie dei tanti amici e conoscenti sommesi, di raccontare episodi ad essi collegati, di ricordare, con perfetta lucidità, intricate relazioni parentali.
Quando ci incontravamo a Napoli, invece, Gaetano era solito invitarmi a colazione da Mattozzi Europeo, un ristorante vicino all’Università, a piazza della Borsa, alle spalle del negozio della Perugina. Lì il professore Arfé -si vedeva- era di casa; ci preparavano, infatti, subito il tavolo e chiedevano cosa volessimo mangiare. Risento perfettamente la sua voce, impastata di raucedine e nicotina, chiedermi: “Che ne dici di un piatto di paccheri al sugo? Provali, li fanno proprio buoni… Si dice che la cucina di questo ristorante l’abbia apprezzata anche Garibaldi, nei giorni in cui fu a Napoli”.
Si infittì, col tempo, il rapporto interpersonale. Gaetano –oltre a rendermi depositario di ricordi riguardanti fatti e personaggi della nostra piccola patria, Somma Vesuviana– fu prodigo di consigli per alcuni lavori a cui avevo cominciato a mettere mano. Fu, quindi, un autentico affabulatore –o, forse, un cantastorie, come gli piaceva definirsi- nella presentazione di un mio lavoro sul bicentenario della rivoluzione del 1799, all’Istituto di Studi Filosofici di Gerardo Marotta. Ricordo ancora quel pomeriggio in cui era stata fissata la manifestazione. Era un freddissimo martedì 2 febbraio 1999, al limite dei giorni della merla. Nella mia proverbiale ansia da ritardo, mi ero anticipato di circa un’ora sull’orario previsto, obbligando alla corsa anche mia moglie e mia figlia. Quale sorpresa fu trovare Arfé già fermo sul marciapiedi di fronte all’Istituto, intabarrato nel suo cappotto scuro, col capo coperto da un basco dello stesso colore, sempre più senatore col minoia, come lo chiamavano a Parma! “Gaetano, così presto…con questo freddo…”. Salutò affettuosamente le mie due donne e disse “In questa città caotica è meglio sempre anticiparsi…andiamo al bar a prenderci un bel caffé”.
Successivamente, mi diede dei consigli e delle indicazione per un altro lavoro sulla regina Giovanna I d’Angiò, della quale ripeteva che “aveva nel nostro paese una delle sedi preferite e nella mia adolescenza correva ancora il detto: ne ha fatte più della regina Giovanna!”.
Nel tardo autunno del 2001, telefonai a Gaetano e gli dissi che avevo in mente un nuovo progetto e che volevo parlargliene. Mi diede appuntamento all’Università, in via Rodinò, dove mi volle subito mostrare, con malcelata soddisfazione, le casse contenenti una parte dei suoi libri, che, grazie ad una convenzione (tra la Fondazione “Turati” di Firenze –a cui Gaetano aveva donato parte della sua ricca biblioteca- e la stessa Università di Napoli) avevano trovato ospitalità nella Facoltà di Scienze Politiche e dove attendevano di essere ordinati e resi accessibili a studiosi e studenti. Era il martedì 23 ottobre. Ricordo precisamente la data, perché con entusiasmo comunicai telefonicamente ciò che stava accadendo a Nino Pino (che era a conoscenza delle mie intenzioni), uno dei miei più cari amici, autentico maestro, antico compagno socialista, ammalato, che dopo meno di un mese sarebbe morto. “Nino, sto con Gaetano Arfé; gli ho parlato di quella mia idea…poi, vengo a casa e ti racconto…adesso ti passo Gaetano”. E Gaetano lo salutò, gli chiese della sua salute, ricordò i tempi in cui suo cognato, Lorenzo Pagliuca, con Nino e tanti altri professionisti ed intellettuali animavano quell’autentica fucina di idee e proposte, che erano stati il circolo Pisacane ed i dossier di Campania Documenti.
Quando lasciammo l’Università, Gaetano si appoggiò al mio braccio e mi indirizzò verso un bar della zona. Mentre sorbivamo il nostro caffé, gli dissi che avrei desiderato mettere mano ad un lavoro che lo riguardava; in poche parole, avrei voluto scrivere su di lui. Notai che a Gaetano si fecero gli occhi lucidi. Si schermì, mi ringraziò, mi disse che ci avrebbe pensato. Poi, ci salutammo.
Dopo una decina di giorni, il 5 novembre, mi arrivò una lettera con una grafia minuta ma precisa: “Caro Ciro, la tua offerta, che io considero un dono, mi ha, al tempo stesso, imbarazzato, lusingato e commosso. Imbarazzato e lusingato, perché, senza false modestie, provo un sottile senso di riluttanza al pensiero di essere oggetto di attenzione in sede storica; commosso perché vi ho visto il segno di un’amicizia affettuosa e sincera che ha radici nel mondo in cui sono nato, e che ricambio con altrettanta sincerità.
Accetto perciò il dono, perché alla stima per lo studioso si associano il senso della gratitudine e il compiacimento di essere ricordato nella mia terra, dalla quale i casi della vita continuano a tenermi lontano, ma alla quale sempre mi lega assai forte il sentimento della nostalgia. Ti mando per ora una breve nota autobiografica, che è il testo di una mia lezione, l’ultima, all’Università di Salerno. Un abbraccio e a presto. Gaetano Arfè”. Alla missiva era allegato il dattiloscritto della lezione, preceduta dal saluto, che avevano rivolto al Maestro i professori Diomede Ivone, Massimo Mazzetti e Geppino Imbucci.
Lessi le 27 pagine tutte di un fiato. Poi, le rilessi e ne sottolineai alcune righe; imparai, quasi a memoria, la bellissima conclusione di Arfé: “I valori che noi scoprimmo all’alba della nostra giovinezza, la libertà, la giustizia, la pace, scaturiscono dalla storia e in essa prendono corpo, ma trascendono la storia. Sempre minacciati, sempre feriti, essi ritornano sempre, perché essi soltanto rendono la vita degna di essere vissuta”.
Arrivò un piacevole inverno. Anche due volte a settimana mi incontravo con Gaetano, a casa sua. In uno studio -non ancora diventato soggiorno-, ancora pieno di libri, di pile di giornali, di cartelline con l’intestazione Senato della Repubblica, di fogli sparsi zeppi di appunti, io accendevo il registratore e Gaetano mi portava per mano nella storia d’Italia e del PSI. Aveva la grande capacità di non omettere alcun particolare dei fatti e dei personaggi che raccontava. Mi insegnò che il mestiere di storico si fa, soprattutto, avendo un taccuino a portata di mano, su cui segnare impressioni, fermare pensieri e sentimenti e, se possibile, anche odori e colori: nella storia –diceva- ci deve essere il respiro della vita. E, così, cominciarono a sfilare davanti ai miei occhi e ad affollare i nostri incontri Francesco De Martino –ci ritrovammo nello stesso partito, sulla base delle stesse valutazioni, che erano di diffidenza e di distacco nei confronti dello stalinismo– e Sandro Pertini –per tutti è stato un punto di riferimento ideologico e politico, la fonte di un ethos politico-, Giuseppe Saragat –egli previde, inevitabile e vicina, la crisi della casta burocratica dominante in URSS e irreversibile la marcia dei comunisti italiani verso la piena autonomia– e Pietro Nenni –pochi uomini come lui hanno conservato, fino all’ultimo giorno della loro vita, la stessa carica di passione e di ideali dei giovani anni-, Benedetto Croce –mi interrogò subito sulle mie letture mi regalò una copia del suo libro sul materialismo storico– e don Lorenzo Milani –non coltivava amicizie convenzionali. Le sue relazioni erano in funzione del suo disegno pastorale;aveva la forma mentis del vero rivoluzionario-, Gaetano Salvemini – gli ultimi miei incontri con lui furono a Sorrento, dove morì. Nelle ultime ore disse: muoio felice, perché ho tanto amici intorno, quelli che mi hanno accompagnato per tutta la vita– e Gianni Bosio –amava i braccianti e gli operai, gli emarginati e i ribelli e voleva dar loro la padronanza della parola, perché fossero in grado di intendere e di farsi intendere-. Per ognuno, poi, di questi compagni di viaggio Gaetano raccontava particolari, che li restituivano ombreggiati di una insolita familiarità. Così di De Martino ricordava che era stato alunno di sua madre mentre egli stesso lo era stato di una sorella del Professore, quando dovette rinverdire il latino, per affrontare la maturità classica; del partigiano Pertini ricordava il coraggio leonino e la sua figura di padre della Patria nel settennato della Presidenza della Repubblica. Di Saragat e Nenni, poi, Gaetano ricordava, che ambedue avevano inteso la politica non come mestiere,ma come missione che si chiude quando si chiude la vita. Quindi apparivano la grande cordialità di Croce nei confronti di quanti frequentavano il suo Istituto (so di dovere molto a lui per una concezione serenamente laica della vita e dei suoi valori) ed, all’opposto, il piglio di grande diffidenza di Don Milani (posso dire, però, che conquistai la sua stima al punto che mi fece leggere il dattiloscritto di “Esperienze Pastorali”); senza tacere, infine, le vicende legate alla collaborazione col meridionalista Salvemini (collaborai a raccogliere i suoi scritti sulla questione meridionale pubblicati da Einaudi. Ricordo che mi disse: è meglio che il tuo nome non compaia, perché io sono uno degli uomini più detestati d’Italia, ma già vecchio; tu, invece, sei giovane e ti attireresti le antipatie, che ho raccolte nella mia vita, tra i crociati, i comunisti ed i cattolici, per non parlare dei fascisti) o a quella con lo storico del movimento operaio, Bosio, che, ricordava Gaetano, amava i braccianti e gli operai, gli emarginati e i ribelli, di un amore tanto intenso quanto disincantato e contenuto e voleva dar loro la padronanza della parola, perché fossero in grado di intendere e di farsi intendere, di esprimere e di arricchire autonomamente il mondo dei valori che essi avevano costruito.
Parallelamente agli incontri con Gaetano, cominciai a chiedere appuntamenti anche a svariati suoi amici, colleghi e conoscenti, per raccogliere testimonianze e ricordi. Il più solerte e puntuale –mi fornì, spontaneamente, una serie di indirizzi a cui rivolgermi, per potere approfondire la ricerca su Gaetano- fu Peppino Cuomo, il vecchio rettore della Federico II. Andai a trovarlo, due o tre volte a casa sua, sulla Panoramica che porta a San Sebastiano al Vesuvio. Uomo dal giudizio pacato, dotto, profondo nelle analisi, ripeteva: Non è facile parlare di Gaetano Arfé senza correre il rischio di tralasciare un aspetto, forse il più complesso e meno penetrabile, quello dell’Uomo, con il suo carattere, le sue doti, le sue passioni, con quel mondo interiore, che gli hanno permesso di vivere la politica e di scrivere la storia, lasciando un’orma profonda, difficile da cancellare. Quando mi consegnò la sua testimonianza –rigorosamente dattiloscritta su una Olivetti, senza uso del computer- su Gaetano, era visibilmente sofferente; aveva una gamba fasciata, forse per una flebite. Morì poco tempo dopo.
Andai, poi, nella solitudine della sua casa sulle acque di Marechiaro, a parlare con l’ingegnere Sandro Petriccione, antico amico, oltre che compagno di partito, di Arfé: La nostra amicizia risale agli inizi degli anni cinquanta, quando lui ed Anna Pagliuca, allora fidanzati, venivano alla sede del Comitato Regionale del PSI e, poi, si spostavano alla Federazione in Piazza Dante. Ho seguito, passo passo, Gaetano. In ogni incarico, che ha ricoperto; egli ha curato sempre poco l’organizzazione e moltissimo il pensiero.
Sapendo delle non buone condizioni di salute di De Martino, dopo avergli parlato per telefono, gli scrissi, chiedendogli una testimonianza su Gaetano. Mi rispose a fine giugno 2002: Non ho risposto alla tua lettera di aprile nella speranza di poter inviare la mia testimonianza sull’opera di Arfé. Purtroppo, in questi mesi mi son dovuto sottoporre a cure ospedaliere che si erano rese necessarie e non ho avuto la possibilità di scrivere qualcosa di degno sull’opera di Arfé. Spero di poterlo fare nel prossimo futuro non appena mi sarà possibile. Non fu possibile, perché il Professore mancò nel novembre dello stesso anno.
E, poi, di volta in volta, parlai di Gaetano con Giorgio Napolitano (ci conosciamo sin dal 1942…aveva visto giusto, Arfé, nell’indicare il terreno dell’europeismo, come terreno di possibile unità tra socialisti e comunisti, anche in piena era craxiana), Antonio Lombardi (come potrei dimenticare quelle sue lezioni di storia del movimento operaio e socialista, tenute nella sede della Federazione di Piazza Dante?), Pietro Lezzi (conosco Gaetano sin dai tempi in cui la federazione del Psiup era ospitata nella Società centrale operaia, in via Egiziaca a Pizzofalcone. La sua battaglia ideale è stata quella di poter rivendicare la vitalità della tradizione socialista), Ermanno Rea (Il mio ricordo di Arfé è tutto all’interno del Gruppo Gramsci. Egli viveva lo studio della storia con rigore, con obbligo di serietà e circospezione) e Gerardo Marotta (Con Gaetano ci frequentiamo sin dal dopoguerra; posso testimoniare della grande influenza che ha avuto su me e su centinaia di giovani che, a Napoli, seguivano le sue lezioni al “Gruppo Gramsci”). In occasione, anzi, di quest’ultimo incontro mostrai all’avvocato Marotta una foto in bianco e nero, di cui mi aveva fatto dono Gaetano, datata 2 maggio 1953, in cui era stato immortalato un brindisi, a bicchieri levati, fatto dai partecipanti a un seminario proprio del “Gruppo Gramsci”. Marotta è al centro del gruppo; seduti al tavolo, in primo piano, ci sono un giovane Arfé, Renzo Lapiccirella e Francesca Spada. Mostrai anche un’ingiallita cartolina postale, inviata ad Arfé –quand’era a Firenze- dallo stesso Marotta, nel 1953: “Carissimo Gaetano, ho letto con gioia il tuo articolo su “Labriola e Spaventa”. Lo conserverò tra le cose più preziose. Bisognerebbe studiare a fondo la scuola hegeliana e mi propongo di riparlartene. Come sta la cara Anna? Spero di potervi presto riabbracciare a Napoli e spero che lo sviluppo dei nostri giovani amici intellettuali napoletani possa operare un ricongiungimento dell’ala fiorentina con la matrice napoletana., attraverso iniziative che ci rimettano spalla a spalla a lavorare insieme, sotto la guida dei capiscuola Guido e Gaetano. Saluti affettuosissimi e abbracci, Gerardo Marotta ”.
Mi rivolsi, successivamente, anche ad interlocutori, che vivevano lontano da Napoli e che avevano avuto rapporti politici, culturali o di amicizia con Arfé.
Sentii Mauro Ferri, legato a Gaetano da un rapporto di sincera amicizia, al punto tale che, nel 1972, quando ancora militava nel PSDI ed era ministro, Arfé gli inviò un suo saggio sui riformisti Bonomi e Bissolati con una dedica un po’ affettuosa e un po’ ammonitrice: “A Mauro Ministro meminisse iuvabit” (considero Gaetano non solo un amico fraterno, ma un Maestro a cui devo molto. Egli ha contribuito a far sì che io sia rimasto fedele alla mia scelta della sinistra e del socialismo). Mi recai a casa di Antonio Giolitti, che, nel 1987, con lo stesso Gaetano, Pintor, Coen, Strehler, Guido Rossi e Imposimato, diede luogo a quella –come scrisse Giorgio Bocca- “storica o meno emorragia, che priva il partito socialista di personaggi, che rappresentano non solo una certa idea di socialismo, ma la stessa società civile”; Giolitti datò la sua amicizia con Arfé nei primi anni cinquanta, con una assidua frequentazione a partire dal 1956, dopo i fatti d’Ungheria (Arfé è un uomo di solidi studi e coerenti principi. Con lui ho con diretto “Mondo Operaio”, un’impresa per la quale ancor più si stabilì tra noi un rapporto, che mi lusingo di definire di vera amicizia). Vittorio Foa lo raggiunsi telefonicamente a Formia; prima di parlare di Gaetano come uomo di cultura e politico, volle sottolineare la sua grande umanità, ricordando di averlo trovato a vegliare, da solo, la salma di Ernesto Rossi, come testimonianza di rispetto e solidarietà nei confronti di un grande antifascista. Quindi, passò a parlare di Gaetano storico (Arfé ha avuto la grande capacità di rappresentare, in modo semplice, una vicenda così complessa ed articolata come la storia del socialismo).
Aldo Aniasi, che, in una lettera, già si era detto ben lieto di poter evidenziare i molti meriti del partigiano Arfé, insistette, infatti, molto sul contributo dato dallo storico nel contrastare, con fermezza, le tesi dello pseudorevisionismo, che falsifica la storia per fini ideologici, (Gaetano è il più importante storico del PSI ed il più serio della storia del movimento della Resistenza italiana).
Particolarmente affettuosi furono i ricordi di due giornalisti dell’Avanti! Il primo, Marco Sassano, che seguì la strage di Piazza Fontana e la vicenda Pinelli e che ebbe bruciata la macchina e due volte la casa, ci tenne a sottolineare la ferma direzione di Arfé, che permise al PSI di battersi per l’affermazione della verità e della giustizia nella difficile gestione delle stragi del quinquennio 1969-1974, (la direzione di Arfé permise al giornale di condurre la battaglia civile sulle stragi e sulla necessità di trovare verità e giustizia). Ezio Unfer, che all’Avanti! ebbe il compito –tra gli altri- di far conoscere l’importanza politica della svolta seguita a Bad Godesberg, volle, invece, ricordare il suo direttore, per la spinta impressa al recupero della memoria storica, (una sua costante è stato il riproporre le date storiche del 25 aprile e del 1° maggio, senza retorica, ma per non far smarrire i sogni e le speranze).
Ma l’incontro più emozionante, per me, fu quello con Giorgio Spini, la cui conoscenza con Arfé risaliva al 1952. Andai a fargli visita, a casa sua, sulla collina di Fiesole, in mezzo a un verde incontaminato e a pareti di libri. Spini, esponente della corrente storiografica azionista -insieme a Venturi, Garosci, Galante Garrone e Valiani- riconobbe a Gaetano il prezioso merito di aver saputo riaffermare il valore etico-politico-storico di una effettivamente grande e vitale esperienza socialista (Arfé è stato un grande studioso, di grandi qualità; ha portato nella storiografia italiana quella rivalutazione del socialismo riformista, che gli va tutta ad onore). Poi, ad una mia richiesta, tesa a capire come Arfé fosse riuscito a salvarsi da quell’ostracismo messo in atto dal PCI, nei confronti di tutti gli antifascisti non comunisti, lo storico fiorentino aggiunse: “Col suo attento lavoro di politico e di studioso, Arfé riesce a ribadire, sottraendosi ad una sorta di ricatto sentimentale, che l’anticomunismo non significa assolutamente fascismo. Quindi, il suo grande merito è stato proprio di essere riuscito a dare cittadinanza alla grande tradizione socialista. E, quando il PSI si è erotizzato, inoltre, Gaetano, che ha avuto sempre un orientamento internazionale, vi ha contribuito con le idee, la passione, lo studio e l’intelligenza”.
La sera in cui fu presentato il libro Gaetano Arfé un socialista del mio Paese, all’Istituto di Studi Filosofici, a Napoli, c’era una grande folla di amici e compagni. Gaetano, che mi aveva suggerito il titolo, mi aveva anche fatto capire che avrebbe avuto piacere che a parlare del libro fossero Pasquale Colella e Luciano Scateni.
Si sentiva lontano un miglio che, in quella occasione, Gaetano era molto emozionato. Nel suo intervento conclusivo, sintesi di un percorso di impegno storico e politico, toccò delle vette altissime. Poi, quasi a schernirsi, disse –prendendo a prestito un’analoga espressione di Pietro Nenni, in occasione dei suoi ottanta anni- di sentirsi come uno di cui si sta celebrando l’elogio funebre, mentre è ancora in vita.
A fine serata, mi ringraziò e mi abbracciò con un affetto, che sentii fraterno e sincero. Poi, da una tasca della giacca, tirò fuori un pacchettino e me lo porse, dicendo: grazie ancora; non è niente di eccezionale…tienila come mio ricordo. Era una Mont Blanc stilografica, su cui aveva fatto incidere le mie iniziali. Non ho mai scritto con quella penna; ce l’ho conservata come un cimelio, un caro oggetto di famiglia, un segno d’amicizia.
Ci furono altre presentazione di quel libro. Ancora ad una paio intervenne Gaetano. Una delle due si tenne all’Istituto Campano di Storia della Resistenza con Guido D’Agostino, Andrea Geremicca, Luciano Scateni e Fausto Corace. L’altra si tenne nella nostra piccola patria, a Somma Vesuviana. Parteciparono Antonio Cimmino, che l’aveva organizzata, Vincenzo D’Avino che era il sindaco in carica, Carlo Correr, Umberto Ranieri e Gianni Ferrara. Gaetano, quel sabato di ottobre, non si sentiva bene. Aveva un busto che gli stringeva il torace e qualche difficoltà di respirazione. Ma era molto contento di quella festa, che, in un qualche modo, gli tributava il suo paese. “Sono rimasto non solo contento ma commosso dell’accoglienza di Somma Vesuviana…In questa sala, non più tardi di un mese fa, è stato ricordata la figura di De Martino. Francesco appartiene al mondo della mia giovinezza ed è stato il mio primo interlocutore in materia di socialismo…Oggi il socialismo è diviso; la nostra aspirazione è stata e rimane quella di ricomporlo ad unità dialettica, operativa e di riforme, in modo da assumere la forza di guida nella vita del paese”.
Intanto, cercando di approfondire sempre più la figura e l’opera di Arfé, nella vita culturale ed in quella politica, munito di una piccola videocamera, cominciai a bussare ad altre porte, per procurarmi altre testimonianze (tutte le registrazioni sono presso la Fondazione “Turati” di Firenze).
Angelo Capo -dirigente scolastico, autore di un bel lavoro su Il Socialismo Salernitano- lo incontrai nella sede del liceo di Paestum, in una mattina di luglio. Al nome di Arfé gli si accesero gli occhi: “Ho consumato la sua Storia del Partito Socialista. Proprio leggendo Arfé,sono diventato socialista, io, figlio di un comunista”. Con Fausto Corace, invece, ci incontrammo nella sede del gruppo socialista della Regione Campania. Non ebbe esitazioni al nome di Gaetano: “E’ poco definirlo un maestro; non ho perso alcuno dei suoi scritti, che sono stati per me una vera guida. Non condividevo sempre tutto. Spesso, infatti, notavo qualche accenno, nemmeno larvato, di pessimismo rispetto al partito ed alla sinistra in genere. Condividevo, però, le ragioni che lo generavano, rifiutandone le conclusioni, perché in politica non ci si può lasciar vincere da visioni pessimistiche ”.
Andrea Geremicca, nella sede della Fondazione Mezzogiorno-Europa, in due tocchi, delineò il suo Arfé: “Mi hanno sempre colpito due cose: il suo rigore culturale ed intellettuale; la sua carica giovanile nell’approccio ai problemi, unita all’umiltà di raccogliere tutto quanto gli veniva da altri”.
Mi indirizzai, poi, a compagni di partito o di battaglie, che, a vario titolo, erano stati a contatto con Arfé. Filippo Caria, ricordò i tempi in cui “creammo, a Napoli, la giunta d’intesa PdA-PSI-PSDI, per cercare di aprire al PCI e reagire, così, al drammatico degrado della politica, che si stava vivendo nella città delle Quattro Giornate”; Antonio Caldoro mise in risalto “il contributo notevolissimo, che Gaetano diede alla cultura ed alla vita del partito socialista, diventando un continuo punto di riferimento”; Gianni Ferrara raccontò della sua conoscenza di Arfé avvenuta leggendo l’Avanti! del 1945, in cui si parlava dell’attività di combattente per la Resistenza del giovanissimo sommese. Poi, in seguito: “nei suoi confronti, io, rivoluzionario, ho provato, insieme, dissenso politico per lui, riformista turatiano, e grande ammirazione per la sua cultura, la sua grande umanità, la sua capacità di saper essere vicino, con assoluta discrezione, ai compagni più sfortunati. Egli non è stato mai incline a far prevalere la politica sulla storia. Da maestro ha utilizzato un metodo ricco di considerazioni, di riflessioni, di visioni del mondo. Non è stato mai dogmatico, perché profondamente storico e marxista”.
Francesco Guizzi, pur non sempre in sintonia con le scelte politiche di Gaetano, tenne a sottolineare che Arfé “è stato innanzitutto un militante. E solo chi è stato in un partito può capire il senso e la profondità di questa parola”. Peppino Avolio, invece, lo incontrai nel suo studio di Roma, probabilmente in una delle sue ultime interviste: morì, infatti, nel novembre dell’anno successivo. Peppino, come affettuosamente lo chiamavano tutti i compagni, ricordò i lontani e difficili tempi del dopoguerra trascorsi insieme ad Arfé, il legame affettuoso stabilitosi anche con le rispettive consorti, sottolineò, quindi, “il rapporto politico, di grande stima ma un po’ conflittuale per le scelte che ciascuno di noi aveva fatto. Ma era altro che ci teneva uniti: l’affetto sincero, la sua grande umanità, disponibilità abnegazione; il suo essere costante punto di riferimento culturale”. Il senatore Angelo Abenante ed il professore Federico Maria D’Ippolito diedero, poi, due letture, un po’ diverse, di Gaetano Arfè. Abenante mise in risalto “il suo profondo scetticismo. Mi è sembrato un uomo senza più la speranza che la sinistra possa diventare e svolgere un ruolo di rinnovamento nel nostro paese”; D’Ippolito parlò, invece, della “figura di tormentato intellettuale della sinistra, preoccupato sempre delle vicende del partito e del paese e di come si andavano sviluppando”.
Gilberto Antonio Marselli raccontò di aver fatto la conoscenza di Arfé, in lontanissimi anni, quando “io lavoravo con Manlio Rossi Doria,che era innamoratissimo di Gaetano Salvemini ed, allora, spesso, ci incontravamo con Arfé alla “Rufola” di Sorrento; poi, il mio rapporto è proseguito anche attraverso il fraterno legame che mi legava al cognato di Gaetano, Lorenzo Pagliuca, specie negli anni del Circolo Pisacane ”. Il giudice Ferdinando Imposimato, che sedette con Arfé sui banchi del Senato, e che, nel 1987 scelse, come Arfé, di uscire dal partito socialista, raccontò “di essere rimasto colpito dalla straordinaria cultura di Gaetano, dall’intelligenza delle sue analisi e dall’efficacia dei suoi interventi”. Infine, lo storico Guido D’Agostino esaltò quella speciale caratteristica di Arfé, capace di “legare il ruolo di intellettuale , per definizione, scomodo e critico, a quello di politico. Egli è il Professore per antonomasia,straordinario conoscitore di archivi, particolarmente vocato alla ricerca storica oltre che protagonista della storia del PSI”.
Gaetano Arfé conservava, con venerazione, il ricordo del padre Raffaele, socialista di stampo turatiano e prampoliniano, antifascista, maestro elementare, poliglotta, promotore di una scuola d’avviamento professionale a Somma Vesuviana. Il vecchio Raffaele, era stato anche il promotore dell’istituzione di una biblioteca scolastica, che aveva raccolto, salvandoli, preziosissimi volumi antichi e molte cinquecentine provenienti da un fondo librario di una comunità di frati francescani.
Parlando con Gaetano, più di una volta mi ripeteva: “Dalle cose che mi raccontava mio padre, io scoprivo un mondo diverso da quello in cui vivevamo. Il primo stimolo a studiare la storia mi è venuto proprio dalla curiosità, che nasceva dalla differenza tra quello che ci dicevano a scuola e quello che mi raccontava lui, in maniera cauta, senza forzature”. Sapevo, perciò, con certezza, che se Somma Vesuviana avesse trovato l’occasione per onorare la memoria del padre, Gaetano sarebbe stato molto contento. Allora, approfittando del fatto che l’antica scuola elementare si chiamava ancora, in modo anonimo, I Circolo Didattico, parlai al dirigente scolastico –dottoressa Anna Massa-, ad alcuni docenti, ad alcuni rappresentanti del consiglio di circolo, della possibilità di intitolare la scuola a Raffaele Arfé.
L’intitolazione, dopo il superamento di una serie di lungaggini burocratiche, avvenne, con una manifestazione pubblica, il sabato 26 novembre 2005. Gaetano era, inutile dirlo, felicissimo. Quando, preceduto dal saluto delle autorità, prese la parola, ricordando il padre, disse, tra l’altro: “Debbo a lui le idealità alle quali mi sono ispirato nella mia lunga e travagliata vita. E se vivo in uno stato, che un credente definirebbe “di grazia”, lo stato in cui ho molti errori da riconoscere ma nessuna colpa da vergognarmi, lo devo sempre a lui”.
Due giorni dopo, il lunedì, con Gerardo Marotta e Guido D’Agostino avevamo organizzato un incontro per festeggiare gli 80 anni, che Gaetano aveva compiuto il 12 di novembre. Parteciparono parecchi compagni ed amici. Peppino Avolio ed Antonio Lombardi, Guido De Martino e Geppino Aragno, Gianni Ferrara e Marco Sassano, Maria Rosaria de Divitiis e Filippo Caria, Fausto Corace e Gloria Chianese. Alla fine della serata, Gaetano ringraziò: “Ho avuto occasione di ripensare a che cosa significa avere 80 anni oggi…Devo dire che sono contento di essere nato nel 1925 e di avere vissuto il periodo che ho vissuto. Credo che nella storia mai nessuna generazione si sia trovata, come la nostra, ad affrontare un trapasso ed una trasformazione così tumultuosi e rapidi, come è capitato a noi. Nei miei 80 anni ho avuto modo di vedere tante cose: il fascismo blando del mio paese –Somma Vesuviana-, la lezione di libertà di mio padre, lo scoppio della guerra, la partecipazione al conflitto e, poi, alla Resistenza. Sono tornato a Napoli in una stagione di grande miseria e di grande speranza. Ho conosciuto Croce e Chabod; a Firenze, ho avuto modo di frequentare La Pira e Calamandrei, Don Milani e Salvemini, il mio grande maestro di vita oltre che di storia. Sono stato per 20 anni parlamentare. Ho avuto, quindi, in questi 80 anni, una ricca esperienza; un’esperienza alla quale non vorrei mai rinunciare, anche se potessi ritornare ai miei 20 anni. È un’esperienza che lascio a mia figlia, alle mie nipoti, ai miei studenti. Un’esperienza legata ad una grande speranza: quella di costruire, sulle rovine della guerra, un nuovo mondo, un nuovo ordine interno, che sia di pace, di libertà e giustizia. Oggi, come allora, questa speranza dobbiamo calarla nel nostro tempo. Senza pace, infatti, non si costruisce nulla; senza libertà non c’è vita degna di essere vissuta; senza giustizia non si garantiscono la pace e la libertà…Bisogna avere la capacità di saper guardare ai tempi lunghi; non fermarsi mai all’immediato. Ecco perché sono stato e resto socialista: perché i socialisti guardavano e guardano al futuro ”.
Passarono mesi alquanto agitati. Gaetano si sottoponeva a continui esami clinici. Ogni tanto, quando gli chiedevo come andava la sua salute, mi rispondeva: “Sono a libertà vigilata”.
Continuarono i nostri incontri, mentre le telefonate erano giornaliere. Io avevo cominciato a lavorare ad una ricerca sul PSI a Napoli nel dopoguerra. Incontravo, perciò, molti vecchi compagni, che mi chiedevano di Gaetano, gli inviavano, mio tramite, messaggi. Leggevo una grande felicità, mista a nostalgia, negli occhi di Arfé, quando gli riferivo delle visite fatte ai vecchi militanti della sinistra napoletana. Ad ogni nuovo tassello, che si aggiungeva alla mia ricerca, egli mi dava suggerimenti, mi indirizzava, mi indicava possibili strade da percorrere. Ma lo faceva con la sua solita umiltà, senza far pesare una parola. Anzi, alcune volte, come se gli fosse venuto in mente in quel momento, mentre mi accompagnava alla porta, diceva: “Sai, ora che ci penso meglio, potresti telefonare ad Aniello Formicola, che è stato un compagno sempre attivo nella Federazione napoletana; forse, poi, potresti consultare un opuscolo curato dalla Federazione napoletana del PSI, preparato in occasione del 60° anniversario del partito. Io non ne ho più una copia, però, potresti chiedere alla Fondazione “Turati”; prova a chiamare Degl’Innocenti”.
Nella primavera del 2006, i nostri rapporti furono solo telefonici. Mi ero, infatti, candidato a sindaco a Somma Vesuviana ed ero, perciò, impegnato, nella campagna elettorale. Gaetano, quando non ero io a telefonargli, mi chiamava e chiedeva notizie, si informava su come si alimentava il confronto politico, su come si organizzava la competizione. Spesso, si rammaricava, “per il male” –diceva- “che la sinistra riesce a fare a se stessa”. Infatti, a quel voto amministrativo la sinistra era arrivata dilaniata, spaccata a metà, con due candidati a sindaco e due coalizioni.
La mattina del 24 maggio 2006, abbastanza presto, ricevetti una telefonata da Gaetano. Dopo i saluti e le solite informazioni, mi disse di attivare il fax, perché mi voleva mandare un messaggio. Lo lessi con piacere, orgoglio e commozione: “Caro Ciro, i miei amici di Somma sono ridotti a pochi e quei pochi sono tutti sul viale del tramonto. A loro, ai loro figli, a quanti mi hanno conosciuto e conservano di me un buon ricordo io voglio dire, in questa circostanza solenne per il nostro paese, che, se fossi ancora tra voi, ti voterei non solo per ragioni sentimentali, ma perché ho avuto modo di conoscere e di apprezzare la tua probità, il tuo attaccamento alla nostra comunità, alla sua storia, alle sue tradizioni, la tua decisa volontà di adoperarti perché la vita amministrativa, politica, culturale della nostra piccola patria prendano nuovo vigore e nuovo slancio. Ragioni di salute, che tu ben conosci, mi impediscono di venire di persona, ma voglio che tu sappia che ti sono vicino. Gaetano”. Gli telefonai subito e lo ringraziai. Gli chiesi se potevo diffondere quel messaggio. Mi rispose: “Perciò te l’ho mandato”.
Dopo la sfortunata parentesi elettorale, conclusasi con la mia sconfitta al ballottaggio, a vantaggio del centrodestra (vincitore anche perché l’altro centrosinistra aveva preferito non impegnarsi eccessivamente), ripresi la frequentazione di casa Arfé.
Ormai il mio lavoro sul PSI napoletano nel dopoguerra, era pronto per diventare libro. Chiesi a Gaetano di leggere tutto il dattiloscritto. Lo fece in pochissimo tempo; poi, quando me lo consegnò, disse: “Mi hai fatto rivivere tutte le passioni di quei giorni, mi hai fatto ritrovare tanti vecchi compagni”.
Il libro diventò “Socialisti a Napoli, il dopoguerra tra storia e memoria”. Avrei voluto chiedere a Gaetano una presentazione scritta. Mi astenni, perché lo vedevo molto stanco e sofferente. Non mi astenni, invece, dal chiedergli di essere presente alla presentazione pubblica, che si tenne il 4 dicembre 2006, nella sala del Cenacolo di Santa Maria la Nova. Fu una bella serata. A parlare del libro c’erano Pietro Lezzi, Enrico Cardillo, Massimiliano Amato, Fausto Corace. Un folto pubblico mostrava di apprezzare ogni intervento. Poi, a fine serata, calò un silenzio di grande rispetto, quando prese la parola Arfé. Dava l’impressione di un uccellino implume, con i pochi capelli che gli erano rimasti; aveva il bavero della giacca alzata, perché uno spiffero gli arrivava all’orecchio; sembrava che, per tutto il tempo in cui era stato seduto dietro il tavolo, fosse capitato per caso dietro quel tavolo. Invece, come suo solito, appassionò tutti, riassumendo in una mezz’ora, la storia del partito socialista, degli uomini che l’avevano resa possibile, delle vicende che la stavano cancellando. Chiuse il suo bellissimo, unico, intervento con un ennesimo appello all’unità delle sinistre e manifestando una chiara inquietudine nei confronti del nascente Partito Democratico: “Nella fase attuale, come nel 1943, l’esigenza primaria –direi il dovere morale- è quello di esaltare tutti i motivi dell’unità con la fondata speranza che si arrivi alla formazione di un governo in grado di sanare i disastri, in parte già irrimediabili, provocati dai guastatori mal contrastati dai sedicenti moderati. Ma c’è da guardare ancora più lontano; e, qui i problemi ci sono e sono ardui; e quel che si sente e che si legge, a proposito di frettolose e fantasiose unificazioni sotto simboli amorfi, lascia adito a fondate preoccupazioni”.
Analoga preoccupazione Gaetano manifestò sette mesi dopo, nel luglio del 2007, quando, nella bella intervista su La Repubblica (edizione di Napoli), a cura di Ottavio Ragone, dichiarò: “Il Partito Democratico è carico di contraddizioni e culturalmente eterogeneo. Ne fanno parte nostalgici del comunismo, liberisti spinti, fanatici della crescita, cattolici veri e cattolici clericali. Una miscela, insomma, che non trova punti di coagulo. Prima o poi scoppieranno e comunque il PD non arriverà al 30%. Anche a sinistra vedo gruppi ristretti guidati da leader. La forza delle cose potrebbe spingere a un’intesa. Molto dipende dalla legge elettorale. È in atto in tutto il sistema politico italiano un processo lungo, che passerà attraverso fratture e unificazioni provvisorie ”.
Negli ultimi due o tre mesi Gaetano era solito telefonarmi, raccontarmi vicende, chiedermi pareri su fatti e personaggi. Ben prima del giorno in cui sarebbe caduto il centenario della nascita di Francesco De Martino, il 31 maggio del 2007, mi arrivarono, per posta prioritaria, due cartelle a ricordare il Professore. Sulla prima cartella, scritto con una grafia minuta, si leggeva “Uscirà su La Repubblica edizione Napoli nei prossimi giorni. Affettuosamente, Gaetano”. Mi telefonò subito e mi disse: “Che te ne pare?”. Gli risposi, semplicemente: “Tu sei un Maestro”.
Il pezzo su De Martino fu pubblicato proprio il 31 maggio: “A distanza di un secolo dalla nascita, la figura di Francesco De Martino appare per un verso legata ad un passato irripetibile, per un altro proiettata in un futuro remoto e imprevedibile. De Martino fu l’uomo dell’unità della sinistra”. Gaetano mi telefonò di nuovo nel pomeriggio del giorno dopo e mi comunicò, con soddisfazione, che era stato chiamato, telefonicamente, da un altro Francesco De Martino, un nipote del Professore, “che mi ha ringraziato a nome della famiglia”.
Negli ultimi mesi, se non addirittura negli ultimi anni della sua vita, Gaetano viveva di queste piccole soddisfazioni, di questi momenti di riconoscimento privati. Lo scenario politico era mutato; per la verità, erano mutati i politici, che erano diventati avvoltoi, senza scrupoli, spesso, senza riferimenti culturali. I grandi uomini, i maestri, erano scomparsi tutti. Degli antichi compagni solo con Mauro Ferri ancora c’era un forte legame, purtroppo, solo telefonico. La solitudine accompagnava, allora, le giornate di Arfé. Una solitudine, beninteso, che scaturiva dall’impossibilità –o inutilità- di voler tentare un confronto con i detentori del nuovo potere politico, che, come spesso ripeteva Gaetano, non hanno il senso della storia. “Io credo che un politico dovrebbe comunque avere il senso della storia, che è cosa diversa dal presumere di essere interpreti delle tendenze di fondo di quella storia in divenire, che è la politica. Oggi, questo senso della storia non lo hanno sia i membri delle classi dominanti sia i giovani capi della sinistra, i quali, vistosamente, ignorano che stanno vivendo ancora dell’eredità lasciata dai loro padri. Spesso, perciò, essi si muovono non solo con cinismo miope, ma anche con una chiara incomprensione di quello che ha rappresentato, nella vita del nostro paese, la Costituzione e, dietro di essa, la Resistenza ”.
Nel cuore dell’ultima estate, Gaetano si sottopose a continui controlli medici. Si vedeva che stava male. Ma aveva un grande desiderio, quello di tornare nella sua casa in Maremma, a San Donato. E riuscì ad andarci. Qualche giorno prima della partenza, mi disse che gli sarebbe piaciuto ospitarmi per qualche giorno, anche perché voleva affidarmi alcuni suoi scritti, per una eventuale pubblicazione. Disse, anche, che pensava di fare analoga richiesta a Donatella Cherubini.
Durante i giorni di quell’ultima villeggiatura di Gaetano ci sentimmo frequentemente. Sapevo che le sue condizioni di salute non erano buone sia da quanto egli mi diceva, sia dalle notizie che mi passava Pia. In una delle ultime telefonate, mi disse che sarebbe tornato a settembre inoltrato. Poi, invece, mi telefonò, dicendomi, che aveva bisogno di controlli medici e che avrebbe anticipato il rientro.
Ci siamo, così, incontrati, per l’ultima volta, giovedì 6 settembre.
La prima cosa che mi comunicò fu il dispiacere di non aver potuto organizzare l’incontro di lavoro in Maremma. Quindi, aggiunse: “Vediamo come vanno questi controlli medici e dopo, magari, organizzeremo un’altra visita in Maremma…Ci sono delle carte da mettere a posto e ci sono ancora delle casse, già pronte, che devono partire per la Fondazione “Turati” di Firenze”. Come sempre, come aveva sempre fatto nella sua vita, anche nei giorni pieni di pessimismo, Gaetano sapeva riaccendere la speranza e ridare vigore ai sogni.
Non ci fu più alcun viaggio in Maremma. Ci fu, invece, quella triste telefonata, all’alba, del 13 settembre.
Mentre mi recavo, da Somma Vesuviana, a casa di Gaetano, cominciai, di buon mattino, a telefonare ad amici e compagni. La prima parte della giornata fu un continuo rincorrersi di telefonate, di richieste di dettagli, di cordogli e conforti. Passai molto tempo seduto in quell’angolo di soggiorno, dove più volte, Gaetano ed io, ci eravamo intrattenuti nelle nostre conversazioni. Il telefono di casa squillava in continuazione. Spesso, rispondevo io. Dopo un poco mi sentii intriso di quel piacevole odore di tabacco per pipa, che fumava Gaetano. Molte immagini si accavallavano nella mia mente, favorite oltre che dal luogo, anche da quelle foto in bianco e nero collocate proprio sopra la consolle, tra il telefono, il fax ed il computer: Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Gaetano in foggia da partigiano (Sondrio, 1945), Gaetano con Nenni e Saragat, Gaetano con Pertini e Luciana Castellina.
Faceva molto caldo quel 13 settembre. Nel pomeriggio la salma di Gaetano fu portata alla sala S. Chiara, in piazza del Gesù. Il carro funebre arrivò scortato da una staffetta dei vigili urbani di Napoli. Mentre la bara era posta sul catafalco, arrivarono due corone di fiori: una era del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l’altra era del sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino. Fino all’orario di chiusura della sala, ci fu uno scarso afflusso di visitatori. La notizia della morte di Arfé si stava appena diffondendo; ne avevano parlato i telegiornali del primo pomeriggio; i giornalisti stavano preparando i loro pezzi per il giorno dopo. A malincuore lasciai Gaetano nella sua solitudine eterna. Avrei voluto fargli compagnia anche di notte, l’ultima notte.
Il venerdì mattina, il 14 settembre, invece, la camera ardente si affollò sin dall’apertura. Personalità del mondo della cultura e della politica, vecchi militanti di sinistra, cittadini curiosi, studenti universitari vennero a rendere omaggio alla salma di un uomo onesto e perbene. I fasci di fiori divennero tantissimi. Sulla bara fu posto un mazzo di garofani rossi. Poi, comparvero striscioni col vecchio simbolo del PSI, quello con falce e martello su libro aperto con sullo sfondo un sole nascente. Ai piedi della bara, invece, fu posta una bandiera bianca con la scritta, in rosso, Avanti! Quattro vigili urbani, due di Napoli e due di Somma Vesuviana, montarono il picchetto d’onore alla salma, incorniciata dai gonfaloni listati a lutto della città di residenza e di quella di nascita di Gaetano. A fianco fu issato anche il labaro dell’ANPI sezione di Napoli.
Alle 11,30 in punto il sindaco di Napoli, Iervolino, portò il saluto della città: “ad un grande uomo, verso cui abbiamo l’urgenza interiore di dichiarargli il nostro affetto e la nostra gratitudine per il patrimonio di pensiero, gli approfondimenti storici e la severa e costante coerenza”. Poi, presero la parola Pietro Lezzi “ascoltate Gaetano, diceva sempre De Martino, ma l’appello non è stato mai seguito sino in fondo”, Gianni Ferrara “una parte di me se ne va con te, Gaetano, maestro di socialismo e democrazia”, Donatella Cherubini “ci ha trasmesso i valori della pace, dell’Europa, della giustizia e della democrazia”, Antonio Bassolino “gli insegnamenti di uomini simili devono appartenere ad una memoria collettiva”. Anche Enrico Boselli volle salutare Arfé: “un uomo esile, gentile nell’animo come nei tratti, eppure forte e determinato; è la sua stessa forza che dobbiamo cercare di avere, almeno una piccola parte, per mantenere vive le sue idee”.
Quando la bara fu portata fuori dalla sala comunale si levò un forte applauso. Molti compagni, conoscenti, amici, studenti di Gaetano avevano il volto rigato dalle lacrime. Poi, il carro funebre, scortato dai vigili urbani di Napoli, si avviò verso il cimitero di Pozzuoli, dove c’era la tomba di famiglia.
Mentre gli interratori preparavano gli attrezzi per sistemare il feretro nell’ipogeo, qualcuno, in un vialetto di lato, scoperchiò la bara, per qualche ultimo adempimento. Fui per l’ultima volta vicino a Gaetano. Sembrava che si fosse, in pochissimo tempo, rimpicciolito e che gli stessero troppo larghe la giacca grigia e la camicia rigata bianca e bleu, stretta al collo da una cravatta rossa. Sembrava che avesse un’espressione serena. Sembrava che mi dicesse, come una settimana prima, con un vezzo dialettale: “che brutta cosa ‘a vicchiaia! Quello che sto passando, manco te lo immagini. Una vita di combattimenti, ma andremo avanti fino alla fine! ”. Sembrava che, come a conclusione di qualche suo ultimo intervento pubblico, ancora ripetesse: “Bisogna ritrovarsi per resistere all’onda fangosa e turbinosa, che ci minaccia. Post fata resurgam: è il motto scritto su una tessera socialista negli anni della bufera. È la fede che ancora conservo ”.