Conoscevo Andrea Geremicca da una trentina d’anni. Da quando, deputato del Pci, aveva indirizzato al Ministro dei Beni Culturali, Antonio Gullotti, un’interrogazione parlamentare – insieme a Renato Nicolini- sugli scavi della cosiddetta “villa d’Augusto” (ripresi trent’anni dopo grazie a un progetto multidisciplinare di ricerca dell’Università di Tokyo) a Somma Vesuviana. Con la cittadina ai piedi dell’omonimo monte Andrea aveva un legame particolare; l’ultima volta vi era tornato una domenica di dicembre del 2006. Era una domenica fredda ma piena di sole e il compagno Geremicca stava lì, col suo fascio di giornali sotto al braccio, davanti a un microfono su un palco improvvisato, per protestare contro lo scippo –da parte di un sindaco anch’egli, come qualche altro, unto dal Signore- della piazza del paese intitolata a Francesco De Martino e restituita a Vittorio Emanuele III di Savoia, il re delle leggi razziali.
Altri incontri c’erano stati, poi, in occasione di presentazioni di libri (scrupoloso, quasi maniaco; arrivava col libro da presentare con parole e frasi sottolineate, evidenziate insieme a innumerevoli segnalibri di richiamo) o di dibattiti pubblici. Per Arfè nutriva un rispetto ed un’ammirazione, che, quasi, sfociavano in venerazione. Di lui Andrea diceva che: “era tanto dolce e gentile nei tratti quanto fermo e tenace nelle posizioni”. E ricordava la puntigliosa elaborazione (per la scelta delle parole, per l’equilibrio dei concetti) di un appello al voto, nel 1991, per combattere l’astensionismo giovanile, scritto e firmato dallo stesso Geremicca, da Arfè e da Giorgio Napolitano. Ricordava anche un’altra collaborazione con Arfé, assai più impegnativa e problematica, ma, purtroppo, solo pensata: “Dopo la morte di Pietro Valenza, parlando delle vicende del Pci a Napoli nella seconda metà del secolo scorso, del suo rapporto col pensiero liberale e crociano, del suo peso nazionale e al tempo stesso delle sue peculiarità, Gaetano mi disse: -sarebbe interessante riprendere l’idea, accennata con Valenza, di una storia del comunismo napoletano dagli anni ’50 in poi…perché non ci pensiamo e non mi dai una mano?”.
Mi viene in mente che la mattina del 13 settembre 2007, prestissimo, le prime due telefonate per comunicare la morte di Arfé le feci a Guido D’Agostino e ad Andrea Geremicca. Guido era già stato informato, in tempo quasi reale da un familiare dello storico napoletano. Andrea, invece, ignorava ancora il triste evento; rimase in silenzio per qualche attimo; poi, con quella sua voce chiara, ma in quell’occasione, visibilmente commossa, sussurrò: “Bisogna avvertire subito il Colle!”.
Non vedevo Geremicca da qualche mese. L’avevo incontrato l’ultima volta davanti alla libreria Guida a Port’Alba. Mi sembrava affaticato e leggermente gonfio. Nei pochi minuti in cui stemmo insieme si tenne appoggiato con le spalle a una delle vetrine della libreria. Nel salutarmi mi disse: “Pensiamo di far qualcosa insieme per riportare le carte di Gaetano Arfè a Napoli… anche in copia. È assurdo che uno studente, un ricercatore debba andare, a spese proprie, a Firenze. Ti chiamerò a breve”. Non ha avuto più il tempo di chiamarmi.
Andrea Geremicca era un compagno di un’altra epoca ma anche di altro spessore culturale, altra intelligenza, altra sensibilità, altro modo di vivere e interpretare la politica. Qualche anno fa ebbi l’incarico, dall’Istituto di Studi Socialisti “F. Turati” di Firenze, di raccogliere testimonianze (anche in video) sulla storia della sinistra a Napoli. Nella sede napoletana della “Fondazione Mezzogiorno Europa” ebbi, così, modo di registrare un’intervista-lezione di Geremicca. Egli, che si definiva “partecipe e protagonista, responsabile e corresponsabile della storia della città e di quella del movimento operaio”, riflettendo sulla democrazia e sulle forze di progresso a Napoli, si diceva convinto che la sinistra unita (sinonimo di Pci e Psi) avesse sempre lavorato, in modo particolare, su tre filoni sociali: la classe operaia e il mondo del lavoro, gli intellettuali e il mondo delle libere professioni, il popolo e gli emarginati. “Noi abbiamo lavorato per creare elementi di dialogo e di relazione tra i tre blocchi sociali”. Perché, di fronte ad una società civile meridionale (“gelatinosa”, normale il riferimento a Gramsci) volatile, poco costruita ma resistente, “comunisti e socialisti insieme hanno avuto coscienza che i partiti dovevano andare al di là del loro ruolo di gestione, della loro ideologia politica, e dovevano farsi carico di problemi più generali e per niente settari. I compagni comunisti e socialisti uniti ebbero la responsabilità e il compito di promuovere forme di associazionismo e di democrazia organizzata con particolari caratteri. Quella antica sinistra si stava ponendo il problema della creazione e del consolidamento di un sistema democratico”.
Oggi, alla vigilia di una scelta amministrativa difficile e tormentata per la città di Napoli, la sinistra si presenta dilaniata, sfiduciata (senza fiducia nelle proprie possibilità e senza riscuotere fiducia-entusiasmo da parte degli elettori), senza aver saputo costituire e costruire un orientamento, una stella polare. Ricordava Geremicca che: “le esperienze intorno alle quali abbiamo realizzato le nostre stelle polari, sono state le 4 Giornate di Napoli, i Consigli di Gestione, il Movimento di Rinascita per il Mezzogiorno, la lotta per la Pace e quella per sottrarre la città al sistema di potere laurino”. Un altro tempo, un altro mondo ma anche altri uomini.
La politica – al di là delle innumerevoli definizioni dotte, scurrili, opportunistiche- è la capacità di incontro e di confronto. Se, a terzo millennio avviato, gli scenari si sono così visibilmente imbastarditi, vuol dire che le responsabilità non son solo da una parte, che sono collettive e plurali. Spesso, purtroppo, l’orgoglio di appartenere alla sinistra si è trasformato in spocchia deleteria e infruttuosa; spesso, le fratture e le fazioni sono state dei mali incurabili; spesso, le spinte massimaliste hanno condotto a risultati incredibilmente assurdi.
Nel corso di un ragionamento, “sull’allora stato dell’arte”, ricordo di aver chiesto a Geremicca quale fosse la caratteristica dominante della sinistra napoletana. “La sinistra a Napoli non è figlia solo di Bordiga. È figlia di un rapporto fecondo tra la democrazia e il socialismo, laddove i socialisti hanno giocato un ruolo molto accentuato. La tradizione della sinistra napoletana è quella di chi si è confrontato, scontrato e contagiato con i liberaldemocratici e con Benedetto Croce. La battaglia per il Mezzogiorno ha sempre avuto in sé elementi socialisti ed elementi di completamento della rivoluzione liberale. D’altra parte, quando il Pci fu accusato –dal Gruppo Gramsci- di cedimento alla borghesia, perché aveva fatto proprio il problema della rinascita del Mezzogiorno (visto da alcuni come un problema assorbibile dal sistema capitalistico), dovette venire Togliatti a parlare del valore democratico, socialista e rivoluzionario di quella Rinascita”.
Essere “di sinistra”, a Napoli e nel meridione d’Italia più che in altri posti, significava e significa, sicuramente, avere fede in un’utopia, in una speranza di riscatto. E le utopie non hanno un colore predefinito. Lottare per la difesa dei diritti civili, sostenere la Repubblica, sperare di diventare –dalla condizione di suddito- cittadino a tutti gli effetti è stato ed è un percorso unitario, che non mette in mostra tessere, appartenenze o improvvide quanto improvvise decisioni di “scendere in campo”. Ieri, quelli che si spaccavano le mani per il lavoro, che vivevano di stenti e miserie, che erano preziosi per il voto che possedevano e la passione che li contraddistingueva; oggi, quelli che si battono per normalizzare un mondo impazzito, che non dicono agli extracomunitari “fora de ball”, che scelgono la scuola di Stato, che rispettano e difendono la Costituzione, che hanno rispetto della memoria di quanti lottarono e morirono in nome della Libertà. Tutti cittadini non necessariamente inquadrati, schierati, tesserati ma tutti educati al rispetto dell’altro, al valore della democrazia, alla capacità di dialogare, all’umiltà nelle scelte, alla necessità di assegnare importanza estrema a comportamenti di onestà, giustizia e solidarietà, di parlare fuori da quei formulari e frasari, che Ernesto Rossi chiamava “aria fritta”.
Posso testimoniare che tutte le volte che fu presentato in pubblico il testo “Gaetano Arfè un socialista del mio Paese” (Lacaita, 2003) il professore non interferì mai nelle scelte dei relatori, che affidò alla mia responsabilità. Compagni di partito, storici, giornalisti: andavano tutti e sempre bene. Una sola volta, alla ricerca di un politico che rappresentasse la sintesi di un percorso unitario, mi suggerì di chiamare Andrea Geremicca. Una ragione ci doveva pur essere!