Sono passati molti anni da quando Luigi Compagnone se ne è andato. Ho letto –ed ancora rileggo- con estremo piacere e curiosità rinnovata tutti i suoi libri, attratto dalla sua prosa e dalle sue argomentazioni. Un tempo, con lui ancora in vita, ero solito informarmi anche di suoi contributi su quotidiani o settimanali, ma non sempre riuscivo a conoscere in tempo le date di pubblicazione e, spesso, me li perdevo. C’è uno scaffale della biblioteca di casa mia tutto dedicato a questo grande scrittore. I volumi presentano quella patina gialla dell’invecchiamento, per la polvere, per l’usura ed hanno il prezzo rigorosamente in lire: Le notti di Glasgow (lire 1.600), Le rose di Baffone (lire 6.800), Dentro la Stella (lire 3.000), Ballata e morte di un capitano del popolo (lire 3.800), Città di mare con abitanti (lire 3.600)…
Per una fortuita quanto fortunata combinazione, ho avuto il privilegio di conoscere personalmente Compagnone. Era un pomeriggio d’aprile del 1989. Un pomeriggio di mezza primavera, stranamente umido, quasi brumoso. Ero dietro i vetri di una finestra di casa mia, intento a guardare la maestà del Somma-Vesuvio. Scrutavo tutte le ulcerazioni, vecchie e nuove, causate dai plinti di un cemento selvaggio. Osservavo le sfumature cromatiche provocate da una fioritura ormai al termine. Inseguivo, perdendomi, lungo i crinali dell’antico vulcano, i fantasmi dei compagni di Spartaco in fuga per gli strapiombi della Valle dell’Inferno, gli ansimi degli amanti angioini e aragonesi nei superstiti manieri, i volti delle madonne contadine effigiate sulle riggiole o riparate nelle cappelle di campagna, i racconti di un’infanzia -precoce e lontana- con gli alberi e gli animali parlanti, i canti dei potatori, il suono martellante degli strumenti musicali popolari.
Squillò il telefono. Due o tre trilli; il tempo di alzare la cornetta.
- Ciao, sono Luigi Compagnone.
Io pensai subito allo scherzo di qualche mio amico. Invece, no! Era proprio lui. Il motivo della telefonata si originava dalla pubblicazione di un mio lavoro, ad uso scolastico, sull’allora già purulenta piaga del razzismo. Il tramite – o, come si sarebbe poi detto nell’era dei programmi strappalacrime della Carrà, il gancio- era stato un comune amico, un giornalista de “Il Manifesto”, Guido Ruotolo.
– Hai scritto un bel libro. Sono testi come questi che servono alla scuola. Mi volevo congratulare con te. Anche se mi hai fatto un torto, non trovando spazio alcuno per nessuno dei miei scritti sul problema del razzismo. Mi piacerebbe conoscerti di persona. Vorrei parlare del tuo libro su “Piazza Grande”, la mia rubrica su “Il Mattino”.
Mi chiesi, rimproverandomi, come avessi fatto a dimenticare proprio Compagnone! Ma non c’era una risposta plausibile. Me ne ero dimenticato e basta.
Poco meno di un mese dopo quella telefonata, un lunedì 1 maggio, accompagnato da Guido Ruotolo, incontrai Luigi Compagnone, che, allora, abitava a Salerno.
Ci presentammo a metà mattinata. Il golfo di Salerno ci abbagliava di una luce quasi estiva. Non fu molto agevole arrivare in quella palazzina di via La Mennolella.
Luigi era quel che si dice un pezzo d’uomo, alto, leggermente curvo. Era, senza alcuna sorpresa, esattamente come lo avevo conosciuto dalle fotografie dei giornali o dalle copertine dei suoi libri. Solo il colore dei capelli era diverso. La faccia scavata di Luigi, infatti, era incastonata in una densa chioma bianca. Poi, tutto era uguale. Lo sguardo profondo, le sopracciglia folte, gli zigomi pronunciati, l’irrinunciabile sigaretta. Era una bella figura di uomo, che si completava con l’esclusivo fascino dell’intellettuale. Durante la conversazione che seguì fui colpito da due particolari; anzi tre. Un leggero tremore che ne scuoteva la struttura fisica, le sue parole che si stagliavano nitide tra le volute di fumo di quelle sigarette che accendeva una dietro l’altra, il doppiopetto a righe compromesso dalla incontrollata cenere.
In un’ora e più d’incontro prendemmo due caffè. Parlammo a ruota libera. Di tutto. Di politica, di razzismo, di televisione, di calcio. Le sue analisi erano inconfutabili, lucide, amare (E poi, i Grandi Galantuomini!/ Intrichi di rami secchi,/ l’uno dell’altro voracemente si nutre,/ ognuno porge all’altro un bonario/ salvacondotto nell’attesa del ricambio.). Un pensiero come un ritornello, però, era presente nelle sue parole: il desiderio di tornare a vivere a Napoli e la preoccupazione che Chellina, la sua compagna, potesse restare, improvvisamente, sola e indifesa.
Gli chiesi di essere tra i presentatori del mio libro, quello che lo aveva spinto a telefonarmi. L’incontro si sarebbe tenuto qualche giorno dopo, il 16 maggio. Avevano già accettato l’invito a presentarmi il libro Francesco De Martino – assente, poi, per la morte della moglie -, don Antonio Riboldi (il vescovo di Acerra), Sergio Piro (psichiatra) ed Antonio Pizzinato (segretario nazionale della Cgil). Scusandosi, Compagnone mi ringraziò: le condizioni di salute non glielo consentivano. Ma se fosse riuscito a tornare a Napoli, chissà, non disperava di poter essere presente a qualche incontro pubblico.
Al commiato, Luigi mi fece dono di una poesia dal titolo “50 anni dopo la seconda guerra mondiale”. Lo spunto gli era stato suggerito da uno scritto di Luigi Pintor su “Il Manifesto” del 15 maggio del 1988: “ …Qualche volta, se guardo la realtà circostante e penso alle utopie della giovinezza, sospetto fortemente che la seconda guerra mondiale l’abbia vinta Adolfo Hitler”.
Non so se quella composizione in versi sia stata pubblicata in qualche raccolta. So, di certo, di essere stato destinatario di un dono prezioso. L’ho in cornice quella poesia. E’ scritta con una vecchia ”Lettera 35” ed ha la firma autografa dell’autore.
Ma chi l’ha vinta quella guerra,
chi l’ha vinta?
Guardo intorno alle utopie
di quei poveri mattini, guardo intorno alle speranze
arse in mille ciminiere,
e vi chiedo chi l’ha vinta quella guerra.
Vedo Neri dalle facce sporche di bianchi sputi,
vedo fuochi in Palestina e l’insania dei fucili,
in giro vedo zingari
che vanno per le case a leggere la mano
ma a loro mai nessuno gliele legge quelle mani
illeggibili per mille cicatrici.
Vedo i ghetti del Sudafrica prolungarsi nei deserti
che dal Cile all’Amazzonia disuguagliano la terra
fino ai ghetti del Suditalia,
e vi chiedo chi l’ha vinta quella guerra,
non l’ha vinta Che Guevara, non l’ha vinta Luther King,
non Mandela, né le madri assediate nei containers,
non l’ha vinta la cultura né la musica ammazzata
nelle orchestre della droga,
ed allora vi domando chi l’ha vinta quella guerra
contro gli angeli del cielo ed i sogni della terra.
Lunedì 8 maggio 1989, su “Il Mattino”, Compagnone firmò “I fantasmi del razzismo”. Scrisse di un libro “di un giovane insegnante di scuole medie, che parla di un sociale che non può restare fuori dal cancello della scuola. Invece nelle scuole della mia ancora utopica “Piazza Grande”, i libri sul sociale, anzi del sociale, non rimangono fuori dal cancello. Altrove, invece, vi restano. Soprattutto se si pensa che anche quest’anno verranno stampati, in tutta Italia, 45 milioni di testi scolastici, un giro di affari di 630 miliardi, un business da lanciare nelle medie inferiori e superiori, un mercato che ha, troppo spesso, forme e aspetti camorristici, che sfondano ogni cancello”. Parlò dei tanti bambini vessati e mortificati; si chiese chi potessero essere i loro insegnanti. “Non si sa. Forse sono solo apparenze, fantasmi, ma temibili fantasmi, che si tengono costantemente sull’orlo del non-essere. E uno pensa che non ci sono mai stati, né mai ci saranno; li abbiamo sognati. Invece, ahimè, ci sono”.
Da quel mese di maggio cominciammo a sentirci frequentemente a telefono.
Il 15 novembre del 1990 io fui, a Roma, tra i circa 8000 aspiranti presidi di scuola media. Partecipai, infatti, al caotico concorso per dirigenti che si concluse tra minacce, sospensione –per alcuni- della prova scritta, illegalità diffusa. Un papocchio (o un imbroglio?) colossale del ministero dell’istruzione a guida democristiana. Protestai e denunciai. Fui bollato come sovversivo e non fui ammesso alla prova orale.
Di sera, di ritorno da Roma, chiamai Luigi Compagnone e gli raccontai di quella farsa, non senza comunicargli la traccia del tema, che avremmo dovuto svolgere: “L’organizzazione della scuola media deve trovare in un’idea valida e funzionale il suo motivo qualificante. Individuate questa idea in una domanda di educazione, nel convincimento che per essa è valorizzato il potenziale di umanità posseduto da ogni persona e sono svelati i valori di cui ciascun ragazzo è portatore e per cui apprende in maniera autentica il mestiere di uomo”.
Compagnone rise con la sua risata di fumatore. Si chiese ad alta voce cosa potesse significare e se, per caso, fosse un indovinello. Poi, su “Il Mattino” del 20 novembre scrisse: “Ma questa più che una traccia è un inverosimile scioglilingua, e come tale non contempla alcuna possibilità di essere sottoposto alla pur minima analisi stilistica. Ciò avviene non di rado per le tracce emanate dal Ministero della Pubblica Istruzione (o Distruzione). Ma un altro inconveniente è che gli autori delle tracce ministeriali sono sempre degli irrintracciabili innominati. Segreto d’ufficio? O comprensibile vergogna?”.
Non era il gazzettiere de “Il Nazionale” che provocava. Era uno spirito libero, che si sforzava di innalzare la sua voce di speranza: non prevalebunt. Macché! Prevalsero, e come prevalsero! Tanto che i Picone contarono più dei Maestri, dei Santi e di Dio.
Qualche anno dopo, quando ebbi la responsabilità e l’onore di reggere l’assessorato alla cultura della mia cittadina di nascita (un comune della zona vesuviana), più volte tentai di invitare Luigi Compagnone, che frattanto era tornato a vivere nella sua Napoli, in via Monte di Dio, a partecipare a qualche manifestazione culturale.
Si capiva che rinunciava a fatica. Aveva problemi di salute; talvolta diceva che non poteva nemmeno mettere i piedi a terra. Allora, io lo stuzzicavo dicendogli: “ti vengo a prendere fino a casa, ti prendo in braccio e, poi, ti riaccompagno”.
Egli stava alla provocazione e rispondeva: “porteresti un peso morto”. Sempre, comunque, si informava delle iniziative che organizzavo, mi dava qualche suggerimento, faceva, talvolta, qualche commento sarcastico com’era nella natura del suo spirito. Una volta concluse: “potresti, però, invitare Mahinda, un extracomunitario amico mio”. Tra i convitati non ci fu Mahinda, ci furono, però, Kamil e Paolos, Caleb e Dacia.
Le telefonate furono sempre cordiali, ricche di curiosità, cariche di amarezza. Sino alla fine del 1996, circa, quando, un giorno, stentò moltissimo a riconoscermi.
Luigi Compagnone morì di sabato: era il 31 gennaio del 1998, giorno in cui la Chiesa ricorda san Ciro e san Giovanni Bosco (egli avrebbe sicuramente aggiunto che uno era medico e martire e l’altro educatore!). Seppi quasi subito del decesso. Ricordo che la notizia mi provocò una forte emozione, così come si prova quando muore una persona molto cara.
Dopo pochi giorni parlai con Tullio Pironti di quella poesia, credo inedita, che possedevo. L’editore, con un passato da pugile, mi suggerì di affidarla, accompagnata da una lettera, alla redazione cittadina de “La Repubblica”. Lo feci, a un mese dalla morte di Luigi. La cosa, però, cadde nel silenzio e non ebbe alcun seguito.
Passò molto tempo. Una notte sognai Compagnone. Lo rividi come lo avevo conosciuto. Passeggiava tra i casigliani suoi conoscenti. Mi presentò come Ciro Acrella, marito di Nunzia Torallo. Tentai di dirgli che si stava sbagliando, che, forse, mi stava scambiando per un altro.
Ma lui proseguì, dicendo: – si è fatto strummolo del suo destino”.
- Strummolo?, domandò qualcuno.
- Strummolo sì; dal greco antichissimo stròbos o stròbilos.
Restai senza parole mentre lui continuava a ridere con la sua risata solita. Contemporaneamente prese la parola il falegname della Stella:
- Sarete assieme a noi? Assieme ai seguaci, i partigiani, soldati, i poeti, i torturati, i fucilati, i falegnami, i tornitori, gli zappaterra, gli invalidi, i carcerati…ecco che arrivano.
Luigi assunse, quindi, un’espressione compita e zittì i suoi casigliani. Si avvicinò, poi, a me. Era molto più alto di quanto lo ricordassi; la sua pelle rigata era il suo unico vestito. Era scomparso il doppiopetto ed erano rimaste le tracce di alcune sarciture. Fra le mani aveva un decreto, a sua firma, col quale mi nominava sindaco di Piazza Grande, perché l’anormalità non divenga la normalità, perché le utopie non scompaiano (Tutta una giovinezza, pensate,/ che sfoglia la sparuta margherita/ dell’Utopia) .
Ciao, Luigi. Forse non è del tutto vero che con te sono scomparse le ultime utopie. C’è, meno male, ancora qualcuno che guarda alla società di Melaria, quella che ha come giudice conciliatore Annibale Neve, che confida nella saggezza di Pepirez Camelo il borgomastro, che vive dei gesti di perdòno dei buoni frati del convento di Sant’Alonzo, patrono della stessa Melaria.
E sessant’anni dopo (ma ora è passato altro tempo!), siamo ancora a chiederci “chi l’ha vinta quella guerra?”